Ambiente e Natura

Roma antica, cultura piante libri

segnalato da Sandro Russo da la Repubblica

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L’uscita di un libro, una recensione che stimola a leggerlo, le risonanze che vi si incontrano con quanto già si conosce e si è pubblicato sul sito (in fondo all’articolo due screenshot con ua bibliografia parziale). Tante buone ragioni per approfondire temi antropologici, botanici e ambientali che sono tra i nostri interessi trainanti. Un invito anche a riconsiderare gli scritti di Serenella Iovino su eco-poesia e ambiente.

Colonne del Tempio di Giunone, Valle dei Templi, Agrigento (@Getty Images)

Cultura
Roma antica e il culto per gli alberi
di Maurizio Bettini – Da la Repubblica del 22 febbraio 2024

Dai frassini, che secondo Esiodo diedero vita agli uomini dell’età del bronzo, al rovere sacro a Giove. Fino ai racconti di Columella sul rapporto tra piante e esseri viventi. Il saggio di Mario Lentano

“Vissero i fiori e l’erbe / vissero i boschi un dì”. Sono versi di una celebre canzone di Giacomo Leopardi, La primavera o delle favole antiche, in cui l’empito preromantico del poeta rievoca un mitico passato in cui erbe, fiori, boschi si animavano delle presenze umane e divine da cui erano pervasi. Nella sua ultima, affascinante fatica Mario Lentano ha dunque ripreso il celebre verso del poeta e lo ha trasformato in una domanda, facendone insieme il titolo del suo libro: Vissero i boschi un dì?. E la risposta è più che affermativa.

Affresco di Villa Livia (al Palazzo Massimo, di Roma)

Per gli antichi, infatti, fra la natura vegetale e la dimensione umana – la “vita” di noi, uomini e donne – non si ergeva quel muro invalicabile che ancora oggi si percepisce nel sentire comune. Questi due regni stavano piuttosto in un meraviglioso rapporto di continuità, che permetteva di trascorrere senza scosse dalla pianta all’umano e viceversa. Lo mostrano prima di tutto i miti che popolano l’immaginario dei Greci e dei Romani, con gli uomini dell’età del bronzo che, secondo Esiodo, nacquero dai frassini; o con i primitivi abitanti del Lazio – gli Aborigeni – che secondo Virgilio erano discesi dagli alberi di rovere.

Ed ecco che Lentano, conformemente al sottotitolo del suo lavoro (La vita culturale degli alberi nella Roma antica) mette subito in opera le categorie dell’antropologia del mondo antico, per farci notare che il frassino era il legno considerato dai Greci il più duro, tanto da essere impiegato per costruire le lance – materia dunque ideale per dar origine a uomini come quelli dell’età del bronzo, stirpe guerriera. Mentre il rovere, il tronco della quercia, da cui erano discesi i primi, duri, forti, abitanti del Lazio, era legno non solo solidissimo, ma sacro a Giove.

Il mito costruisce, esplora, inverte, si compiace di giocare con le categorie della cultura. Ed eccolo così raccontare non solo di uomini nati dagli alberi ma anche di esseri umani, donne, a loro volta mutate in alberi, come avvenne a Mirra – che già trasformata in tronco partorì, attraverso una fenditura della corteccia, il piccolo Adone – a Dafne che divenne alloro, alle Eliadi, sorelle di Fetonte, mutate in pioppi.

Ma l’affascinante esplorazione di Lentano, condotta con un’impeccabile analisi delle fonti unita a un’invidiabile felicità espressiva, continua. Perché non solo il mito, anche i naturalisti antichi confermano senza tentennamenti la continuità fra il regno vegetale e il mondo umano.

Meglio d’ogni altro ce lo mostra l’enciclopedia di Plinio il vecchio (I secolo), secondo cui «il corpo degli alberi, come quello di tutti gli altri esseri viventi, è formato dalla pelle, dal sangue, dalla carne, dai nervi, dalle vene, dalle ossa, dal midollo. La corteccia svolge le funzioni della pelle… al di sotto di essa si trova la carne, al disotto della carne le ossa, cioè la parte migliore del legno».

Gli alberi, dunque, sono animali a tutti gli effetti, anzi, sono uomini veri e propri. Tant’è vero che Columella (I secolo), scrittore di agricoltura, enuncia in modo esplicito un popolare parallelo fra piante e umani: quello che corre fra le radici dell’albero e i piedi dell’uomo, fra il tronco e il corpo, fra i rami e le braccia, e così via. Dunque, naturalisti e agronomi ribadiscono analogie e continuità fra piante e animali, fra alberi e umani.

Ma anche i medici non sono da meno, anzi. Già i trattati ippocratici (V – IV a. c.) avevano asserito che «dal principio alla fine l’intero processo di crescita naturale delle piante della terra è pressoché identico a quello dell’essere umano». A sua volta il grande medico di età imperiale, Galeno (II secolo), affermerà che nelle prime fasi del suo sviluppo l’embrione è più simile a una pianta che a un animale, come tutti gli organismi viventi che derivano la loro generazione da un seme; mentre sottolinea che le radici sotterranee dell’albero corrispondono nel feto allo sviluppo di arterie e vene. E poi, forse singolare a dirsi, c’è la questione dell’ombelico.

Plutarco (I – II secolo) era un grande intellettuale, curioso dei costumi propri ed altrui: tanto da essere uno fra i principali aspiranti al titolo di padre dell’antropologia. Dunque, in una delle sue Questioni Romane si pone questa domanda: perché a Roma, per dare un nome ai bambini, si aspettava fino al nono giorno per i maschi, e all’ottavo per le femmine? Ed ecco la risposta: «Quanto ai giorni, assumono quelli dopo il settimo… per il cordone ombelicale. Infatti, nella maggior parte dei casi si stacca il settimo giorno, ma finché non si è staccato il bambino rassomiglia più a una pianta che a un essere animato».

Fino al settimo giorno, dunque, il bambino appartiene piuttosto al regno vegetale, è un albero compiuto e un uomo ancora incompiuto – trascorsa una settimana, dallo stadio vegetale il piccolo passerà senza scosse alla compiutezza umana.

In definitiva, dobbiamo accorgerci ancora una volta che gli antichi ci indicano una via da seguire. Sfregiare la natura che ci circonda, mutarla in puro soggetto di sfruttamento economico, insozzarla, significa ferire direttamente “noi”. E se solo ci guardiamo intorno, la natura stessa non si stanca di ripeterci questo ammonimento.

Il paginone di Repubblica del 23 febbr. 

Giusquiamo nero, ecco la droga degli antichi romani: ritrovato un osso di capra portapillole
di Lorenzo D’Albergo – Da la Repubblica del 22 febbraio 2024

L’osso portapillole con il suo tappo in resina 

L’astuccio con il suo tappo di resina è stato ritrovato ad Utrecht, ai margini dell’impero. Lo studio pubblicato da Antiquity: “Il ritrovamento dimostra la diffusione delle informazioni sulle piante medicinali”

In fondo non è cambiato poi troppo nelle intenzioni umane. I primi test, benefici e controindicazioni con lo svantaggio di non avere un bugiardino per prendere nota dei risultati. Prove più o meno riuscite. Con l’ambizione di allungarsi la vita. Tanto più che ai tempi l’aspettativa media non era troppo generosa. Gli antichi romani, insomma, provavano in ogni modo a regalarsi un’esistenza serena. E allora ecco mix di belladonna, cicuta, mandragora, elleboro. Medicinali fai-da-te. Ma, quando il dosaggio sfuggiva di mano, anche potenti allucinogeni.Trattati e somministrati sotto forma di unguenti oppure inalati, quei preparati servivano a curare otiti e mal di denti. Persino fastidiose e inopportune flatulenze. Poi, “nell’imperativo di rimuovere il dolore”, come canta oggi Brunori Sas, gli antichi romani si trovarono a che fare con una nuova sostanza. È il giusquiamo nero. Un’erba infestante, certo. Ma soprattutto un antidolorifico tanto potente da riuscire a dare sollievo persino alle partorienti. Ma anche un narcotico con effetti tanto stupefacenti che rischiosi. Plinio il Vecchio ne sconsigliava la prescrizione a cuore troppo leggero: «Sconvolge il cervello».

Ai margini dell’impero qualcuno non deve averlo ascoltato: a raccontarlo è uno studio pubblicato sulla rivista Antiquity. La ricerca rivela la storia della “droga” degli antichi romani e ne geolocalizza il ritrovamento nell’insediamento romano di Houten-Castellum. Siamo ad Utrecht, in Olanda.

Proprio lì l’archeozoologa Maaike Groot della Libera università di Berlino, assieme a Martijn van Haasteren del Rijksdienst voor het Cultureel Erfgoed e la ricercatrice Laura Kooistra, ha trovato un osso del primo secolo dopo Cristo pieno di semi di giusquiamo nero. Pillole velenose. O, se buttate giù con misura, dai sicuri effetti psicotropi.
«Il sito archeologico si trova lontano da Roma: questo ritrovamento, quindi, dimostra che anche la popolazione locale conosceva l’uso di queste piante medicinali», si legge nell’articolo Evidence of the intentional use of black henbane (Hyoscyamus niger) in the Roman Netherlands. Non ci sarà stato Google, ma le informazioni circolavano lo stesso.

“Per la prima volta, siamo sicuri che questa sostanza, indipendentemente dallo scopo per cui veniva usata, sia stata conservata in un ingegnoso ‘portapillole’ fabbricato da mano umana. Ce lo dimostra il fatto che i semi fossilizzati fossero contenuti in un osso cavo del diametro di un mignolo, sigillato con un tappo di resina di betulla”, spiega Laurence Totelin, storico dell’Università di Cardiff.

L’osso portapillole era sepolto in una fossa con vasi ancora intatti, un cesto e lo scheletro di un cavallo. Forse si tratta di resti di un antico magazzino. Dove si conservava anche il giusquiamo nero. O meglio, i suoi semi.

Un ultimo dubbio, fugato in fretta dai ricercatori: sulle prime quell’osso poteva sembrare una pipa, ma i semi al suo interno non erano bruciati. Anche perché quel dosaggio sarebbe stato letale. Confermata, allora, la funzione del contenitore: un originalissimo contenitore portatile per semi allucinogeni.

Il libro – “Vissero i boschi un dì?” La vita culturale degli alberi nella Roma antica di Mario Lentano (Ed. Carocci, pagg. 248, euro 24)

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