Racconti

L’inverno del ’44 (4)

di Gino Usai

Ma torniamo a Roma, che in quegli stessi giorni stava vivendo la tragedia delle Fosse Ardeatine.

Avevamo lasciati Maria Bosso e Totonno Scotti sul luogo dell’eccidio a scavare con le mani disperatamente tra la rena, nell’improbabile  tentativo di recuperare il corpo di Silvio Campanile. Dopo il colloquio coi frati del vicino convento, come abbiamo già narrato, se ne tornarono a casa sconsolati.

Quando successivamente i cadaveri vennero dissepolti e chiamati i parenti per il riconoscimento gli si poté finalmente dare degna sepoltura nel Sacrario che li riunisce e li onora ad imperitura memoria, per averci dato col loro sacrificio un’Italia libera e democratica.

Rita Parisi riconobbe suo marito, Mario Magri, da un ponte dentario che gli costruì il confinato politico, l’odontotecnico Vittorio Luigi, suo compagno di sventura a Ponza. Anche Vittorio aveva sposato una ponzese, Migliaccio Anna Civita, che gli diede due figli, i carissimi Emanuele e Adele.

Tornati al negozio in via dei Serpenti 108, dopo aver camminato un’ora a piedi, ripresero lentamente la triste vita quotidiana. Vendevano libri e Totonno, Furio Conte e Salvatore Verde dormivano a terra nel retrobottega, mentre Maria accudiva il piccolo Enrico, ormai orfano di padre.

Alla fine di maggio Totonno Scotti lasciò il negozio di Maria per trasferirsi in casa di Francesca Albano, moglie di Antonio Feola. Francesca abitava assieme  a sua sorella Silvia (moglie di Gennarino Vitiello detto “a Centrale”) e a sua cugina Maria Coppa, moglie del dottor Aldo Coppa.

Il 2 giugno Radio Londra trasmise in tutta Roma la parola “Elefante”: era il  messaggio in codice degli Alleati che segnalavano alla Resistenza italiana che l’attacco finale per la liberazione della città era cominciato. I tedeschi batterono in ritirata e lasciarono Roma abbandonando, nella notte tra il 3 e il 4, la sede della famigerata via Tasso, bruciando buona parte dei documenti che testimoniavano le atrocità commesse sui prigionieri. Alle prime luci dell’alba di domenica 4 giugno un contingente di soldati canadesi e di partigiani di Bandiera Rossa (brigata partigiana comunista laziale), entrarono nella capitale attraverso la Casilina. A sera, dopo nove mesi di occupazione tedesca, Roma era una città libera. La gioia fu incontenibile, così come il pianto per i cari che non erano riusciti a vedere quell’agognato giorno.

Anche a Ponza giunse la notizia della liberazione di Roma. Antonio Feola si mobilitò e partì per il continente. Suo intento era raccogliere la sua famiglia insieme a tutti i ponzesi che risiedevano nella capitale e portarli al sicuro a Ponza, lontani dalla guerra. Aveva fatto spargere la voce tra i compaesani e gli aveva dato appuntamento a casa sua per la fine di giugno.

A Gaeta Antonio Feola aveva un camioncino messo a disposizione del comune di Gaeta per i traffici con Latina e con Napoli. Con quello raggiunse Roma per attuare il suo piano. Radunati tutti i ponzesi, incaricò Totonno Scotti di andare a Trastevere a comprare mezzo abbacchio. Totonno tornò con la spesa ordinata e tutti insieme, allegramente, pranzarono e festeggiarono la Liberazione. Poi la partenza. Sul camion vennero caricate una trentina di persone, Francesca Albano e le figliolette Maria e Candida, sua cognata Silvia, Maria Coppa, Ettore Mazzella, Totonno Scotti, Furio Conte, Salvatore Verde, Maria Bosso col figlioletto Enrico e tanti altri.

Giunsero a Gaeta sul fare della sera del 29 giugno e dormirono presso una certa signora Filosa, comare di Francesca. La casa era stata bombardata e dovettero dormire tutti all’aperto.

Gaeta era una città desolata. Oltre alle macerie per i pesanti bombardamenti subiti dagli Alleati, vi era il porto pieno di bastimenti e pescherecci affondati.

Dopo l’8 settembre i tedeschi avevano occupato la città e prevedendo uno sbarco Alleato sulle spiagge del litorale avevano affondato nella rada del porto la nave militare italiana “Quarnaro”.

Il 12 settembre impartirono il primo ordine di evacuazione oltre i cinque chilometri dalla costa delle città di Minturno, Formia e Gaeta. Iniziò così il lungo calvario che vide l’esodo biblico di queste sfortunate popolazioni che trovarono rifugio sui monti dell’entroterra.

Il giorno dopo i tedeschi diedero inizio all’operazione “Terra bruciata” che comportava la distruzione di torri costiere, banchine portuali e l’affondamento di tutto il naviglio che si trovava nei porti, ritenuto utilizzabile militarmente dal nemico, compresi i pescherecci.

Appena si diffuse la notizia che i guastatori tedeschi stavano per cominciare l’affondamento del naviglio, nottetempo diversi capibarca di Gaeta riuscirono a dileguarsi in mare mettendosi in salvo sulle coste campane. Diversi ponzesi invece restarono incastrati nel provvedimento.

Romano Salvatore proprietario del “S. Pasquale” con motore ausiliario di C.A. 6, a due tempi, velocità 5 miglia, si trovava con la sua barca a Elena di Gaeta prima dell’8 Settembre; la sua barca con gli attrezzi fu distrutta dai tedeschi, dopo avergli asportato il motore.

Giuseppe Di Fazio (marito di Assuntina Aprea) nel  1927 in alcuni locali sulla banchina di Ponza aveva aperto un negozio di generi alimentari. Comprò successivamente un motoveliero a due alberi con la poppa a punta, con il quale si approvvigionava di mercanzie direttamente a Gaeta. La barca aveva una stazza di 50 tonnellate  e un motore a benzina. Si chiamava ”Papà Fortunato”. Fu proprio questa barca, insieme ad altre, a trasportare a Gaeta il primo carico di bentonite  estratto alla miniera di Le Forna a metà degli anni Trenta. Nel settembre del 1943, il “Papà Fortunato” era tirato a secco in un cantiere di Gaeta per dei lavori di carenaggio e per sostituire il vecchio motore a benzina con un nuovo e potente motore a nafta. Durante i lavori, mentre scioglieva la pece bollente per la calafatura, Giuseppe s’infortunò gravemente rovesciandosi addosso il liquido bollente. Ebbe ustioni gravissime per il corpo e tornò a Ponza per la convalescenza. Quando si ristabilì e poté far ritorno a Gaeta del suo bastimento restavano solo un ammasso di ceneri e le parti metalliche della chiglia: i tedeschi l’avevano incendiato.

In quei giorni Luigi Parisi aveva momentaneamente depositato sulla banchina di Gaeta 20 metri cubi di legname, per un valore di 300 mila lire, in attesa del motoveliero “Maria della Salvazione” che lo avrebbe trasportato a Ponza, ma quando Gaeta venne liberata dagli Alleati, tornò e non trovò più il carico di legname.

Benedetto Sandolo (padre di Salvatore) e suo fratello Raffaele erano proprietari del bastimento “S. Filomena”, che allo scoppio della guerra era stato militarizzato e utilizzato per il trasporto delle munizioni da Gaeta in Sicilia.

Benedetto restò imbarcato come militare sul “S. Filomena”  che nel luglio del 1943 era fermo nel porto di  Gaeta per caricare munizioni. Decise così di andare a Ponza per una breve licenza per abbracciare la moglie e i figlioletti a Le Forna. Il 24 luglio doveva rientrare per portare il carico in Sicilia. Quel viaggio era stato ripetutamente rinviato per paura dei bombardamenti aerei degli Alleati. Così la mattina del 24 luglio, all’alba salutò la moglie e i figli e col bagaglio scese i lunghi gradini di Calinferno. Salì sul barcone di Pallaccannone che faceva la linea da Calinferno a Ponza porto. A quel tempo la carrozzabile era accidentata e Le Forna era più comodamente collegata col porto via mare. Giunto al porto Benedetto fece il biglietto e imbarcò sul “S. Lucia”. Suo fratello Raffaele che abitava al porto lo cercò per convincerlo a non partire, ma non lo trovò. Benedetto viaggiò insieme al suo amico Francesco Aprea. Si misero in coperta e  fecero merenda con delle melanzane dorate e fritte, poi  si misero a dormire. Vennero svegliati da un gran frastuono. Sulla nave piovevano raffiche di mitragliatrice, poi si  sentì un assordante rumore di ferraglia. La nave era stata colpita dagli aerei inglesi e affondava. Francesco si trovò  miracolosamente a mare aggrappato a qualcosa e  venne recuperato dai soccorritori.

Benedetto affondò col “S. Lucia” insieme a tutti gli altri passeggeri. Dopo pochi giorni, anche il suo “S. Filomena” venne affondato nel porto di Gaeta, per mano dei tedeschi.

 (Continua)

Gino Usai

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