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La festa dei lavoratori

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Renato Guttuso - La Zolfara

di Gino Usai

In Italia la festa del primo maggio, la festa  dei Lavoratori, venne istituita nel 1891; per essere poi soppressa nel 1925 dal governo Mussolini e reintrodotta nel 1945, dopo la Liberazione.

La prima festa del lavoro si svolse a  New York il 5 settembre  1882.

Si diffuse poi in Europa e nel resto del mondo;  serviva a sostenere le lotte operaie volte alla conquista di diritti fondamentali, a cominciare dalla riduzione dell’orario di lavoro: “Otto ore di lavoro, otto di svago, otto per dormire” fu la parola d’ordine, coniata in Australia fin dal 1855. Bisogna ricordare che in quei tempi nelle fabbriche si lavorava 15/16 ore al giorno (anche donne e bambini) in condizioni igieniche e di sicurezza precarie, senza alcuna tutela previdenziale, senza assistenza sanitaria, senza pensione, con paghe appena sufficienti per sopravvivere, sotto la minaccia costante del licenziamento.

Le lotte per l’emancipazione delle condizioni di lavoro sono costate agli operai e ai contadini carcere e morte.

Oggi le giuste condizioni di lavoro, almeno nei paesi più avanzati, sono garantite per legge e in tutto  il mondo si festeggia il primo maggio.

Ma nella nostra società altri problemi toccano il mondo del lavoro: la precarietà, la disoccupazione, i licenziamenti, la cassa integrazione, la mancanza di prospettive per i giovani, la crisi economica, l’incertezza del futuro e la conseguente crisi della famiglia, pilastro portante della società.

Quest’anno, per la tradizionale “festa internazionale dei lavoratori” a Roma, il concerto a Piazza S. Giovanni, organizzato da CGIL, CISL e UIL, avrà per titolo “la storia siamo noi”,  con chiaro riferimento anche ai 150 anni dell’Unità d’Italia.

Il concerto sarà presentato da Neri Marcoré e interverranno, tra gli altri, Lucio Dalla e Francesco De Gregori, Ennio Morricone, con il suo brano inedito composto per l’occasione intitolato “Elegia per L’Italia”, e Gino Paoli che interpreterà  “Va’ Pensierio”.

Roma ospiterà contestualmente un altro straordinario evento: la Beatificazione di Papa Giovanni Paolo II.

Mi piace ricordare la cara figura del papa “operaio” con la Lettera Enciclica “Laborem exercens” pubblicata nel 1981 in occasione del 90° anniversario della Rerum Novarum,  in cui scriveva:

“Per realizzare la giustizia sociale nelle varie parti del mondo (…) sono necessari sempre nuovi movimenti di solidarietà (…) Tale solidarietà deve essere sempre presente là dove lo richiedono la degradazione sociale del soggetto del lavoro, lo sfruttamento dei lavoratori e le crescenti fasce di miseria e addirittura di fame. La Chiesa é vivamente impegnata in questa causa, perché la considera come sua missione, suo servizio, come verifica della sua fedeltà a Cristo, onde essere veramente la «Chiesa dei poveri». E i «poveri» compaiono sotto diverse specie; compaiono in diversi posti e in diversi momenti; compaiono in molti casi come risultato della violazione della dignità del lavoro umano: sia perché vengono limitate le possibilità del lavoro – cioè per la piaga della disoccupazione – sia perché vengono svalutati il lavoro ed i diritti che da esso scaturiscono, specialmente il diritto al giusto salario, alla sicurezza della persona del lavoratore e della sua famiglia.

(…) Occorre, infine, pronunciarsi sul tema della cosiddetta emigrazione per lavoro.

(…) L’uomo ha il diritto di lasciare il proprio Paese d’origine per vari motivi – come anche di ritornarvi – e di cercare migliori condizioni di vita in un altro Paese.

(…)La cosa più importante è che l’uomo, il quale lavora fuori del suo Paese (…), non sia svantaggiato nell’ambito dei diritti riguardanti il lavoro (…). L’emigrazione per lavoro non può in nessun modo diventare un’occasione di sfruttamento finanziario o sociale. Per quanto riguarda il rapporto di lavoro col lavoratore immigrato, devono valere gli stessi criteri che valgono per ogni altro lavoratore in quella società.

(…) Ancora una volta va ripetuto il fondamentale principio: la gerarchia dei valori, il senso profondo del lavoro stesso esigono che sia il capitale in funzione del lavoro, e non il lavoro in funzione del capitale.”

Voglio concludere questa nota ricordando il Vangelo di oggi:

“Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Didimo, non era con loro quando venne Gesù. Gli dicevano gli altri discepoli: “Abbiamo visto il Signore!”. Ma egli disse loro: “Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo”.

Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte chiuse, stette in mezzo e disse: “Pace a voi!”. Poi disse a Tommaso: “Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco; e non essere incredulo ma credente!”. Gli rispose Tommaso: “Mio Signore e mio Dio!”. Gesù gli disse: “Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!”.

Nel nostro piccolo mondo moderno ci si vanta di non credere in nulla e di non aver fiducia in nessuno. Chi parla così si ritiene persona scaltra e avveduta. Spesso si sente dire volgarmente: “Io sono come S. Tommaso: credo solo in ciò che vedo e che tocco!”

Eppure è bello credere senza vedere, senza la necessità di toccare con mano; è importante fidarsi del prossimo e aprirsi agli altri. Con questi presupposti si potrebbe creare un mondo migliore, più avanzato e vivibile. Insomma, dobbiamo imparare a credere di più nell’uomo e nelle sue possibilità.

 Viva la festa del Lavoro in tutto il mondo

Gino Usai