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La mia Pasquetta

di Anna Maria Usai

[1]Voglio raccontare una Pasquetta (‘u Pascone) da me vissuta a metà degli anni Cinquanta a Ponza.

Ero piccola. I miei parenti si accingevano, insieme ai loro amici vicini di casa, ad organizzare il Lunedì dell’Angelo secondo la tradizione.

Un amico fanalista  ci invitò tutti “a’ Scarrupata”, cioè al Faro della Guardia. Questo signore, di nome Filippo Vitiello, lo ricordo così: una persona affettuosa, buona, allegra, di compagnia, insomma un bell’uomo simpatico. Quel giorno di Pasquetta, Filippo era di turno al Faro e gli venne naturale invitare la sua famiglia e tutto il vicinato a trascorrere “‘u Pascone a’ Scarrupata”. Tutto il gruppo accettò di buon grado l’invito e cominciarono i preparativi. Borse e borsoni, mappate e mappatelle furono riempiti di ogni ben di Dio. Noi bambini aspettavamo con trepidazione il giorno di Pasquetta! Partimmo la mattina presto e in gruppo cominciammo la faticosa salita fino alla Madonna della Civita, per poi ridiscendere per la strada nuova (proprio in quegli anni la stavano terminando) che portava comodamente al faro. Ricordo che del gruppo facevano parte la moglie di Filippo, la carissima Giuseppina, con le figlie Elena, Flora, Gioconda e la piccola Ornella. Io ero amica intima di Gioconda e sua coetanea, stavamo sempre insieme, attente a tutto quello che facevano e dicevano i grandi; curiose ma felici, ci sentivamo grandi! Contente perché con noi c’era anche la nostra amichetta comune Rita Vecchione con sua sorella Silvia, insieme ai loro genitori, Maria e Mario. E poi c’era una persona simpaticissima, “’u masto ‘i festa” Tatore Rispoli, con la moglie “’Ntunetta ‘i Tatore”, e il piccolo Biagino. Io stavo con tutti i miei parenti:  nonna Michelina, gli zii Francesco, Antonietta, Emilia, Carlo e il  mio fratello più grande Titino. Altre persone, strada facendo, si aggregarono a noi. Il percorso era lungo, la strada a tratti impervia, la salita ripida, e per noi bambini la stanchezza era tanta. E allora i grandi ci prendevano in spalla, insieme ai borsoni e alle mappate. Ogni tanto una breve sosta per riprendere fiato. Eravamo tutti allegri: si cantava, si raccontavano barzellette, si rideva.

Dopo la Civita finalmente la discesa… e giù in fondo il faro!

Filippo, sentendoci arrivare, ci venne incontro, felice di ospitarci nel suo Regno su quella rupe in mezzo al mare. A noi bambine ci portò subito a visitare il faro: che meraviglia…che incanto! Ci sembrava grande e bello come il castello delle fate!

Le donne intanto, senza perder tempo, si accingevano a preparare il pranzo, ché il sole era ormai alto e cocente. Nel frattempo si organizzavano i giochi: grandi e piccoli, tutti insieme, formavano due squadre e l’arbitro Tatore, fischietto al collo, dava inizio al gioco con la palla, detto “a’ guerra francese”; chi perdeva la palla pagava pegno. Il gioco era molto coinvolgente e le risate si sprecavano. Poi si passava a giocare ad acchiapparella e a nascondino, fino a quando le donne non ci chiamavano al pranzo. E noi bambini, sudati e trafelati, ci buttavamo sui cibi succulenti. Qualcuno portava la frittata con gli asparagi, altri il soffritto di passarielli con le cipolle, e alla fine si mangiavano finalmente il casatiello, la Pizza Rustica, le uova sode colorate e le fave fresche. I grandi bevevano vino e spumante di Ponza a volontà. Tutto fatto in casa, naturalmente; ché le sofisticazioni a quel tempo non si immaginavano neppure!

Dopo il pranzo non potevamo più uscire a giocare all’aperto, perché essendo il faro un luogo molto ventoso, sudare ci avrebbe potuto far male. Allora Filippo metteva a nostra disposizione due stanze e noi ascoltavamo canzoni e musica, mentre i grandi ballavano.

Giunta l’ora del rientro, si preparavano le borse e le mappate da riportare a casa, svuotate ormai del prezioso carico. Si ripartiva, tutti allegri e i grandi un po’ brilli, si cantava in coro mentre i bambini facevano  a gara a chi arrivava prima a casa, dove finalmente si giungeva stanchi ma felici e contenti.

Che bei tempi! Si viveva di quel poco che ci riempiva così tanto.

Annamaria Usai