Poesie, Racconti

L’Autunno del ’43 (4)

di Gino Usai

Nel 1943 la popolazione di Ponza era di circa seimila abitanti, di cui quasi mille tra Colonia Internati e Forze Armate.

I ponzesi bevevano l’acqua piovana accuratamente raccolta nelle cisterne di cui quasi ogni abitazione era dotata. Ma nonostante l’accorta igiene gran parte della popolazione soffriva di elminti e di ossiuri, ossia dei vermi nell’intestino. Soprattutto i bambini erano facilmente attaccabili da questi parassiti.  Per combatterli si usavano l’olio di ricino e l’infuso di ‘erba corallina’, ma più spesso si ricorreva  a ‘u tagliaviermi. Era costui una sorta di guaritore che, dopo aver recitato le dovute preghiere e chiesta l’intercessione divina per il malcapitato, palpava sapientemente la pancia del paziente mormorando a fior di labbra una formula magica e inesorabilmente i vermi venivano appercantati. Così il mal di pancia spariva.

Il Campo di Concentramento e i militari erano serviti dalla nave cisterna “Frigido” che trasportava da Napoli o da Gaeta l’acqua potabile. Se ne consumavano trentasei tonnellate al giorno e il trasporto costava 65 lire a tonnellata. Il tutto sotto il controllo dell’ Ufficiale Sanitario,  Dario Coppa.

Il “Frigido” ormeggiava alla punta del molo, i marinai stendevano e saldavano le numerose manichette fino a raggiungere l’antica cisterna romana ubicata nei cameroni (accanto alla scuola media, tuttora funzionante come deposito dell’acquedotto comunale). Compiuto l’allaccio il marinaio lanciava a squarciagola la parola d’ordine: “Pompaaa”. Ricevuto il messaggio si dava inizio al pompaggio dell’acqua.

L’altra cisterna comunale da riempire era ubicata sotto il grottone di Pascarella, che dal corridoio mena alla piazza (oggi in disuso).

Vi era poi la cisterna romana della “Carbonara” alimentata dall’acqua piovana.

A Le Forna vi erano due polle di acqua pura a Cala d’Inferno e a Cala Fontana, con un getto complessivo di circa 5 mila litri al giorno.

Ma con l’avvicinarsi della guerra i viaggi della nave-cisterna divennnero sempre più radi e bisognava arrangiarsi, come faceva per esempio Carminuccio Tuccillo che dal porto, con la barca, andava a Cala d’Inferno a riempire i barili d’acqua.

La cisterna nel grottone di Pascarella ricadeva nella proprietà di Carminuccio Tagliamonte che ne era il custode per conto del Comune e teneva le chiavi del portoncino. Vi erano delle donne che si rendevano disponibili, dietro compenso, a portare l’acqua a domicilio coi secchi. Per sopravvivere faceva questo duro servizio una certa Assuntella Murano. La povera donna viveva di questo lavoro e della carità di qualche anima pietosa.

Assuntella abitava in corso Umberto, accanto a Rosa Maggio. Il figlio Federico era in guerra e da quella terribile esperienza tornerà molto provato, come altri giovani di Ponza. Si racconta che un giorno – a guerra ormai finita – incontrando la signora Adele Manna, sua vicina di casa le dicesse:

“Signora…”

“Dimmi Federico… come stai?”

“Ho avuto il posto!”

“Hai avuto il posto?”

“Si”

“Bravo, mi fa piacere… e dove?”

“Al sole!”

Le difficili condizioni economiche in cui versava la famiglia non facevano altro che peggiore la sua salute.

Gironzolava per le strade dell’isola e cantava: “Munastero ‘i  S. Chiara, tengo ‘o core scuro scuro”.

Poi urlando diceva: “Oè!…va’ a fa’ ‘a guerra, va’ a fa’ ‘a guerra!  Accussì quanno tuorne te danno ‘u posto! A me ‘u posto ‘ussaje addo’ m’u’ danno? Abbascio a’ Batteria, ch’i piede ‘ngopp’ u’ scoglio Russo! …Munastero ‘e  S. Chiara, tengo ‘o core scuro scuro…”. E andava via.

La madre si trascinava nella miseria e nella disperazione per il figlio malato. Talvolta Assuntella si recava a casa della sarta Maria Picicco per avere qualcosa da mangiare. Le condizioni del figlio intanto peggioravano e un giorno Federico venne ricoverato. Il dispiacere della madre fu grande. Una sera non rincasò. L’indomani, su segnalazione di alcuni contadini, che l’avevano vista aggirarsi per la campagna, la trovarono in un burrone al piano di Iole (dove oggi c’è la discarica dei rifiuti). Dovettero calarsi con le corde per recuperare quel misero corpo.

Anche Maria Picicco la sarta, vedova, era preoccupata per i figli Silverio e Ninotto, tutt’e due in guerra.

Silverio in quel periodo era nel reparto Mitraglieri Mobili a bordo dell’Aquitania, un piroscafo costruito nel 1924 e varato col nome di “Farnworth”; nel 1935 venne ceduto all’armatore italiano Luigi  Pittaluga che lo ribattezzò “Aquitania”.

La notte del 15 Luglio 1943, mentre l’Aquitania navigava dalla Sardegna verso Civitavecchia, aerei nemici lanciarono delle luminarie per inquadrare il piroscafo e bombardarlo. Il facile bersaglio venne centrato e cominciò lentamente ad affondare, mentre ognuno si buttava a mare o cercava di guadagnare le scialuppe. Silverio rimase aggrappato allo scafo che affondava, non voleva bagnarsi e cercava di trovare una scialuppa su cui mettersi in salvo, ma le barche di salvataggio venivano presto riempite e filavano via. Allora Silverio vide un oggetto galleggiare, si gettò in acqua e vi si aggrappò. Dopo poco la nave affondò e Silverio si ritrovò in mare insieme a molti altri compagni. Passò così quella terribile notte. Allo spuntare del giorno cercava di agitarsi al passare degli aerei per farsi notare; ma dagli aerei partivano colpi di mitraglia contro le scialuppe.

Proprio in quei giorni suo fratello Ninotto, più giovane di un anno, anch’egli militare, radiotelegrafista di stanza a Iscolelli in provincia di Salerno, si trovava a Ponza in licenza.

Dopo l’affondamento dell’Aquitania la Croce Rossa si premurò di informare  il Comune di Ponza  che Silverio Picicco risultava nell’elenco dei dispersi. Il Comune provvide a informare Ninotto della brutta notizia. Ninotto preferì non dire nulla alla madre e con la scusa di fare un po’ di spesa al mercato nero partì per Formia, con l’intenzione di raggiungere Civitavecchia per avere informazioni dirette sul luogo. In Capitaneria gli dissero che Silverio Picicco non risultava nell’elenco dei morti, e nemmeno in quello dei superstiti, i quali intanto erano stati trasferiti al comando di Napoli: dunque era da considerarsi ufficialmente “disperso”. Ninotto lasciò Civitavecchia con ancora un filo di speranza e decise di controllare tra i superstiti dell’Aquitania trasferiti a Napoli. Qui ebbe la conferma che suo fratello non era tra i superstiti. Ninotto dovette rassegnarsi alla dura realtà. Sapeva bene che “disperso” significava morto. Morto in fondo al mare. Tornò mestamente a Gaeta per imbarcarsi per Ponza e portare la triste notizia alla madre. Era il 23 Luglio. A Gaeta, in prossimità del molo, incontrò il caro amico, paesano e commilitone, Silverio Pagano. Erano cugini di secondo grado e tra loro si chiamavano fratelli. Dopo gli abbracci e i baci, Pagano disse: “Fratie’! che piacere: mo’ mo’ aggio lasciato a fratete e mo’ aggio truvato a te!”

Esterrefatto Ninotto rispose: “Comm’e ditto? Hai truvato a frateme?”

“Si, sta a buordo ‘u vapore, va’ a vede’, i’ faccio nu poco ‘i spesa e torno”.

Ninotto volò a bordo del S. Lucia, lo frugò tutto col cuore in gola, ma di Silverio non vi era traccia. Tornò a terra, andò in cerca di Pagano e gli disse allarmato: “Ma a buordo Silverio nun ce sta! Ma s’ì sicuro ch’hai visto a Silverio?”

“Ma comme, l’aggio visto cu l’uocchie miei… jamme a vedè n’ata vota!”

E andarono insieme a bordo. Rovistarono tutto il piroscafo. Infine in un angolo nascosto, sottocoperta, videro un uomo rannicchiato su una panchina col capo coperto, vestito con abiti militari confusi e arrangiati.

“Uiccanno a fratete!” esclamò Pagano.

Ninotto, che stentava a riconoscerlo, esitò un po’. Quindi lo scosse e lo svegliò. Si alzò stralunato. Era Silverio. Si abbracciarono e si strinsero forte. Ninotto aveva le lacrime agli occhi e un magone alla gola. I tre festeggiarono e si raccontarono le loro terribili traversie di guerra e le loro per il futuro.

Silverio raccontò che dopo l’affondamento rimase in acqua due notti e un giorno, poi finalmente vennero raccolti da una nave. Le carni erano completamente spugnate e per precauzione i soccorritori lo issarono dal mare con un telone. A bordo venne rifocillato e nutrito con pasti liquidi. Giunti a Civitavecchia i superstiti vennero avviati negli uffici della Capitaneria di Porto per il riconoscimento e successivamente avviati al deposito militare di Napoli. Silverio non si presentò in Capitaneria e sparì per fare in modo che risultasse nell’elenco dei dispersi, per non tornare più al fronte. Era ormai al terzo affondamento dopo il “S. Giorgio” e il “Lombardia”; era stato arruolato in Marina nel gennaio del 1937 ed era stufo di fare la guerra. Si determinò a mettersi in salvo a tutti i costi e a tornare a casa.

Alle nove e mezzo il S. Lucia lasciò il pontile “C. Ciano” doppiò Capo Stendardo e si diresse verso Ventotene. Il mare era calmo, il sole cominciava ad alzarsi nel cielo e a picchiare forte. I tre erano felici e navigavano tranquilli verso casa.

Ad un certo punto, in prossimità di S. Stefano, videro aerei nemici che si avvicinavano. Giunti sul piroscafo gli aerei iniziarono a bombardare e a mitragliare. Silverio capì subito il pericolo e non perse tempo; disse a Ninotto: “Nasconnete a poppa, io vago a prora… mamma tene sulo a nuje… accussì almeno uno se salva!”

Ninotto obbedì. Ci fu un fuggi fuggi sottocoperta e si diffuse il panico.

A prua viaggiava il bestiame. Vi erano alcune mucche destinate al macello di Ponza. Silverio aveva il terrore delle mucche. Vinse la paura e si sistemò tra le zampe degli animali per ripararsi dalla mitraglia.

Il S. Lucia aveva un cannoncino a prua, provò a difendersi ma l’attacco aereo fu rapidissimo. Il piroscafo e i passeggeri per fortuna rimasero illesi. Una bomba cadde su S. Stefano in prossimità della lavanderia dell’ergastolo. Alcuni animali da pascolo restarono uccisi. Gli aerei sparirono all’orizzonte. Il piroscafo dopo aver schivato i colpi fece operazioni di sbarco a Ventotene. La gente presa dal panico scese a terra. Molti ponzesi preferirono fermarsi a Ventotene anziché proseguire il viaggio. Anche Ninotto avrebbe voluto fermarsi insieme agli altri ma Silverio lo convinse a restare a bordo, dicendogli che gli aerei avevano scaricato tutte le bombe e stavano tornando a Malta per il rifornimento. Avrebbero impiegato più di due ore e loro intanto sarebbero giunti a Ponza sani e salvi.

Infatti il viaggio del S. Lucia procedette tranquillo fino a Ponza. I passeggeri sbarcarono atterriti e corsero in chiesa a ringraziare S. Silverio per lo scampato pericolo. La chiesa in quel tempo aveva in corso i lavori di ampliamento, fermi da qualche anno. L’ingresso era dal versante della sagrestia. La messa veniva officiata nei locali dell’Asilo Infantile “Ciro Piro”.

Così Maria riabbracciò i suoi “soldati” e ringraziò il Cielo per averli fatti giungere a casa sani e salvi.

Ma il giorno dopo il miracolo non si ripeté: il S. Lucia venne colpito a morte e Ponza gettata nel lutto più nero.

(L’Autunno del ’43  (4) – Continua)

Gino Usai

L'Aquitania, già "Farnworth" in una rara foto

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