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Nanànna ‘a Voccarànne

di Raffaele Sandolo

Ecco un nuovo racconto che parla della mia bisnonna Concetta Sandolo che abitava a Cala Feola.

Era una persona di grande personalità e conosciuta da tutti a Le Forna.

Il racconto presenta una serie di scene e personaggi di Ponza nella metà del secolo scorso.

Mi auguro che i lettori di “Ponza racconta” possano gradire lo scenario da me presentato ricordando le mie vacanze fornesi.

Cordialmente

Raffaele


Nanànne ‘a Voccaranne

Personaggi e scene di vita ponzese durante le mie vacanze estive a Cala Feola

Prima di scrivere  questo racconto delle mie vacanze fornesi nella metà del secolo scorso ho contattato alcuni anziani pescatori di origine ponzese che vivono all’isola d’Elba. In particolare ho parlato con Giuseppe Vitiello detto Peppe Insomma, con  Angelo Feola detto Ciaccionazzo, Agostino Aprea detto Mastaitano, Mario Avellino detto Mariotto ‘i Tobia e Cesare Romano detto Cesarone. Questi pescatori, assieme ad altri, sono spesso presenti sul molo di Marina di Campo in attesa del rientro delle barche da pesca. Io, che spesso mi rivolgo a loro per ampliare le mie conoscenze sulla cultura ponzese, dico scherzosamente che fanno parte dell’ Università popolare per la cultura ponzese con sede sulle panchine del porto. Li ringrazio tutti per avermi aiutato a rinfrescare la mia memoria nel definire i personaggi ponzesi e nell’uso della  terminologia dialettale. Al centro di questo racconto c’è la mia bisnonna conosciuta a Le Forna come Nanànna ‘a Voccarànne (la Boccagrande – N.d.R.).

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Era un tardo pomeriggio d’estate. Sceso da poco dal Postale SPAN della linea Napoli-Ponza, mi incamminai verso Sant’Antonio dove avrebbe dovuto partire l’autobus per Le Forna. Purtroppo il vecchio autobus di linea, avendo il motore guasto, non poteva viaggiare.

Io, con altri  passeggeri, dopo aver atteso per più di un’ora, decidemmo di muoverci con i bagagli in in mano nella direzione della collina per poter arrivare presto a casa, dove i parenti erano in spasmodica attesa. La mia bisnonna Concetta mi aspettava, con suo marito Ciro, prima di notte perché aveva paura che io incontrassi u’ Munaciélle, folletto beffardo e talvolta cattivo. La casa era situata fra la Caletta e le Piscine Naturali.

La strada era brutta ma volevo arrivare presto anche se la piccola valigia di cartone mi pesava. Attraversai Santa Maria salendo verso l’alta collina. Presi una scorciatoia, i petrùni, e superai ben presto Campo Inglese. Cala Feola mi apparve in tutta la sua bellezza.

Mentre il sole tramontava scesi verso il mare, percorrendo un viottolo con le parracìne ai lati e transitando per Scarfisse. In poco tempo arrivai dalla mia bisnonna, che fu molto felice di vedermi. Avevo camminato per più di un’ora ed ero stanco. Aprii per lei un pacchetto con due paia di spartiglie di colore diverso, fatte da mia nonna Filomena Balzano, sposata con suo figlio Michele, e da Restituta Sandolo, ambedue abitanti all’isola d’Elba ma native di Le Forna. Apprezzò molto il regalo e mi ringraziò a voce alta. Poi incontrai il mio bisnonno, diventato cieco pochi anni prima. Stava facendo dei cestini in un’altra stanza e fu sorpreso per tutto quel rumore. Mi abbracciò stringendomi forte e poi cominciò a parlare. Presto fu interrotto dalla moglie che gli disse di lasciarmi riposare un poco.  Così feci. Mi sdraiai su un letto con il materasso di sbreglie situato in una grotta Dopo un’oretta Concetta venne a chiamarmi, con il lume a petrolio in mano, e mi fece alzare dicendomi che la cena era pronta. Avevo fame e divorai tutto quello che fu messo in tavola, menèsta e’ patàne scaudàte con molto aglio con pane di farina di granòne. Mangiai anche alcuni fichi d’India colti appositamente per me. Ciro bevve del vino bianco.

Iniziammo a parlare ed io feci alcune domande su Ponza. Poi mi parlò di come voleva che io passassi le giornate e quindi mi fece alcune raccomandazioni: fare attenzione alle strade scarrupàte, guardarsi dai cani affamati e  arrabbiati, bere solo acqua della nostra piscìna, non uscire mai col buio e non allontanarsi troppo rimanendo sempre a Cala Feola. Mi disse che di notte giravano i Munaciélle, che si presentavano  come uomini con gli occhi di  fuoco e zampe di diavolo. Continuò affermando che a notte fonda, negli ultimi anni, si sentivano anche dei latrati come se fossero dei cani impazziti e altre volte dei rumori di catene trascinate con odore di zolfo. Parlava muovendo molto le mani e con un fare preoccupato. In pratica parlò quasi sempre lei. Ciro, essendo un po’ sordo, faceva molto attenzione alle mie parole e spesso diceva: “C’ha’ ‘ìt? C’ha’ fàtt’?” Andai a dormire nel solito letto. Prima di addormentarmi pensai che Concetta era amabile e simpatica ma parlava molto, spesso dimenandosi. A Le Forna tutti la chiamavano Nanànna ‘a voccarànne. Mai soprannome fu più vero!

L’accoglienza di Concetta e Ciro fu meravigliosa… ma venni colpito dalla totale mancanza di servizi igienici. Mi fu detto che in caso di bisogno potevo andare nelle caténe, nascosto fra le palètte.

Iniziò in tal modo la  mia vacanza ponzese a Cala Feola verso l’estate del 1954.

I giorni passavano piacevolmente e tutti più o meno eguali, nel sole e sul mare.

Mi alzavo all’ alba e, dopo essermi lavato, mi vestivo per uscire fuori, nella curtéglia.

Ammiravo il paesaggio attorno alla casa, la costa scogliosa e soprattutto il mare calmo. In lontananza c’èra ‘a Marina, la spiaggia di Cala Feola e più in alto, ora chiamato Sottocampo, le grotte dove stavano i miei nonni paterni, Emiliano e Maria Sandolo. Verso sinistra c’erano le grotte dove abitavano Anna de Martino chiamata Jannélla ‘a pèrchia con suo figlio Guido e la sorella Brigida, chiamata dai vicini Prizitélla. Con piacere pensavo a mia nonna Maria che amava vedermi, come negli anni passati, portandomi sui propri terreni di Capo Bosco a disporre le lunghe reti nelle cui maglie andavano a intrappolarsi  gli uccelli di passaggio. Altre trappole usate erano i’ lacciòle e i’ pesaròle.

Sempre al mattino andavo a mungere la capra che stava nell’angusta grotta poco distante, passando pe’ ‘i caténe dove si coltivava scaròla, vasenicòlapetrusìne.

Portavo il latte ai miei bisnonni e poi ne bevevo un poco senza bollirlo. Come era buono il latte fresco!

Successivamente andavo a fare l’erba per i conigli e la capra. Quindi mi spostavo in una stanza dietro l’abitazione dove c’èra ‘a mòla e macinavo mezzo sacchetto di granone al giorno.

Verso le undici andavo al mare alle piscine naturali oppure fino alla piccola spiaggia ghiaiosa della Caletta. Facevo un’ora di bagno e poi mi mettevo al sole assieme ai compagni di gioco che avevo conosciuto da poco. Disteso su quei scogli pensavo spesso a mia madre che mi raccontava della mina presa in mare da tre pescatori fornesi ed esplosa mentre veniva smontata presumibilmente per prelevare l’esplosivo da usare per la pesca. Ci fu una grande esplosione e i tre morirono sul colpo. Fu una grande tragedia ponzese e mia madre portò il lutto per molti anni. I tre pescatori si chiamavano Agostino, Giuseppe e Silverio. Agostino Sandolo era fratello di mia madre, sposato con Civita Mazzella sorella di mio zio Pompeo, Giuseppe Sandolo, fratello di Giròtto ‘u zuóppo, che abitava proprio sopra le piscine naturali e Silverio Mazzella,  fratello di Pompeo e Civita, che era figlio di Bonaria Mazzella chiamata ‘a Bonarìna.  Agostino lasciò una figlia di pochi mesi, Filomena chiamata Mena, futura moglie di Cammillo Romano. Era il 1946.

Verso le 12.30 ritornavo a casa mettendomi subito a parlare con Ciro mentre la moglie cucinava. Quindi ci si metteva a tavola per il pranzo.

Si pranzava normalmente con spaghetti finemente spezzati (o altro tipo di pasta) in brodo di pesce  (uarracìne, marvìzze, cecàle, fravàglie) accompagnato da patàne scaudàte oppure zuppa di fagioli neri o di cicerchie accompagnate con insalata di scaròla.

Il pomeriggio Ciro andava a riposarsi e Concetta si metteva spesso fuori al fresco, nella curtéglia, portandosi il cesto con fusi di diverse dimensioni, la conocchia e un sacchetto di lana grezza. Canticchiava e filava la lana usando  fusi più piccoli con una mano e tenendo la conocchia nell’altra. Il filato ottenuto veniva talvolta colorato con l’uso di erbe per essere successivamente utilizzato per lavorare a maglia. Fui affascinato da questo lavoro tradizionale. Mi raccontò che nei mesi invernali usava i fusi più grandi per filare la canapa. Otteneva un prodotto semilavorato che veniva poi, con un processo artigianale più complesso,  attorcigliato, o meglio cardato, con tre o quattro capi per ottenere un prodotto finito chiamato fresa, corda utilizzata per la pesca con  le nasse.

Talvolta, quando il sole era forte ed avevo il mal di testa che Concetta chiamava bòtte ‘i sóle, mi faceva sedere su una sedia impagliata, mi metteva un fazzoletto in testa e quindi ci appoggiava un bicchiere pieno di acqua fresca, ma capovolto. L’acqua fresca, a contato con i capelli, curava il mio malanno. Devo dire che in poco tempo mi sentivo meglio, senza mal di testa.

Altre volte scendevo sugli scogli a giocare con gli amici portando con me fichi secchi, sciuscèlle e dóie fèlle ‘i pàne. Quando rientravo a casa mi mettevo a giocare con la trottola. Ciro mi ripeteva sovente la cantilena “A Napule fann’ i strùmmule, a Gaeta ‘i vvanno a  vénnere, quant so fessi all’uómmine, che vanno apriéss’i fémmine”… e al termine accennava a un leggero sorriso ironico.

La sera si mangiava spesso menèsta e’ patàne scaudàte oppure pesce in umido (scurfaniélle, uàlle, murène). Poi c’èra l’insalata ‘i  pommadòre con alici salate o di scaròle. Praticamente non si usava mai olio di oliva e si mangiava poca frutta. Raramente c’erano fichi, pere o mele.

Ogni tanto, dopo aver pranzato o cenato, Concetta cominciava a tossire, chiamandomi: “Rafè, Rafè… s’è méss ‘n’a pica ‘n canne!”. Le prime volte non capivo le sue parole… ma poi tutto mi fu chiaro. Mettevo dell’acqua fresca, presa dalla piscìna, in un bicchiere d’alluminio. Dopo aver bevuto qualche sorso… la sua tosse si calmava e ogni difficoltà era passata.

Quando facevano giornate senza vento, con caldo afoso, usava dire: “Chest’ è  ‘a mollépeda” e si metteva al fresco in qualcuna delle sue grotte a pulire fàve, chichiérchie, pesiélle, lummìccole e fasùle.

Concetta, anche se spesso diffidente, aveva normalmente buoni rapporti con tutti ma il suo temperamento era sanguigno. Usava inveire fortemente a chi la offendeva  o a chi le faceva del male. Espressioni tipo “Pòssa passà nu ‘uàio” o “Jett’u sang” o  “All’ànema ‘i chi t’è muórte” erano facili ad uscire dalla sua bocca quando era arrabbiata. Non si rabboniva facilmente e, ad ogni modo, non subito. Ciro l’ascoltava  silenzioso per borbottare successivamente quando la situazione si era calmata.

Quasi ogni domenica pomeriggio, Concetta riceveva la visita di Pacchianèlla, donna energica e grande lavoratrice, considerata come una sorella. Talvolta veniva anche Giuseppina Curcio, figlia di Vincenzo Curcio, conosciuta come Giuseppìn ‘i Barbarésca. Avvenivano lunghe chiacchierate con lamentele, talvolta infarcite di malignità.

Andai più volte a fare visita a mia nonna Maria incontrando anche qualche volta Jannélla e Prizitélla. Mi portò sul capo Bosco e prendemmo ogni tipo di uccelli, principalmente frungìlle, fucétole, petterùsse e soprattutto quaglie. Dalla sua abitazione scendevo poi verso il mare per fare il bagno nella spiaggia sabbiosa di Cala Feola. Devo dire che mi piaceva molto nuotare fra scogli e sabbia.  Frequentemente, nella tarda mattinata, mentre ancora nuotavo, arrivava da Palmarola Salvatore Romano, chiamato Tóre ‘i Biancòla, con al sua barca da pesca. Scaricava ceste d’aiàte, dopo essere stato a vullià per tutta la notte. Rammento quella volta che portò anche una grande cestùnia ancora viva. Tagliò il guscio, la fece a pezzi e, dopo qualche ora mi dette una mappetèlla. La portai a casa. La stessa sera mangiammo cestùnia in umido.

Quando la giornata non era bella per prendere il sole al mare, talvolta mi incamminavo in salita verso le case della Chiesa. Mi divertivo a guardare, sull’altro lato dell’isola,  il mare di Cal’ ‘i ‘nfiérn e i pescatori che salivano per gli irti scalini. Poi andavo a visitare ‘a Bonarìna. Parlavamo della vita all’Isola d’Elba, di suo figlio Pompeo, della nipote Mena e dei miei genitori Silverio e Annunziata.

Passai l’ultimo pomeriggio, prima della partenza, a casa sua. Ricordo che rimasi per oltre un’ora sul suo terrazzo a guardare il panorama di Cala Feola. Il tramonto era splendido con il cielo, dietro Palmarola, che si faceva sempre più di colore rosso infuocato. Alla fine ci salutammo con un grande abbraccio.

Quando rientrai a casa, Concetta stava preparando un cestino di fichi d’India colti sulle palette delle catene più in basso. Me lo diede dicendo:“Chist’ è pe’ tté e pe’ fràtete”… e poi rimase silenziosa.

Partii il giorno dopo, molto presto al mattino, dopo circa un mese di vacanza fornese. I miei bisnonni mi abbracciarono a lungo con qualche lacrima negli occhi e la promessa di rivederci.

Ritornai a Ponza ancora per alcuni anni, abitando a Chiaia di Luna, ospite di mia zia “Mamèna” Sandolo, sorella di don Gennaro. Di tanto in tanto andavo a Le Forna per salutare i bisnonni Concetta e Ciro ed anche nonna Maria. Ci restavo tutta la giornata.

Poi, le alterne vicende della vita, mi allontanarono sempre più da Ponza come pure dall’Elba dove risiedevano i miei genitori. Il lavoro, nel settore dell’informatica, mi portò a vivere in Germania, Stati Uniti, Sud America, Cina e Giappone… ma ricordavo sempre le chiacchere, le espressioni e gli urli di Nanànna ‘a voccarànne.

Con gli anni seppi che morì per primo Ciro e successivamente Concetta. Mia nonna Maria, invece, dopo la morte di suo marito Emiliano, venne portata da figli e nipoti all’isola d’Elba, dove morì nel 1973.

Raffaele Sandolo