Confino Politico

Mussolini prigioniero a Ponza (4)

Pietro Nenni e Tito Zaniboni illustri testimoni

 

di Antonio Usai

Dopo la chiusura della colonia di confino, avvenuta il 13 luglio del 1939, a Ponza rimasero pochi ma illustri confinati politici italiani. Molti erano invece gli internati slavi, albanesi e greci.

Il destino volle che, per qualche giorno, si trovassero nell’isola tre uomini reciprocamente legati da pesanti ricordi: Tito Zaniboni, Pietro Nenni e Benito Mussolini. I primi due scontavano pesanti condanne al confino e avevano sperimentato sulla loro pelle la durezza della vita isolana in condizioni di ristrettezze civili. Il Duce invece, conosceva Ponza soltanto perché era stata una delle prime colonie confinarie istituite dal fascismo e perché aveva ospitato, a più riprese, diverse migliaia di oppositori politici condannati dai tribunali speciali istituiti dalla dittatura.

Tito Zaniboni (1883-1960), che aveva attentato alla vita del Duce il 4 novembre 1925, vi era giunto nel marzo del 1942, dopo sedici anni di galera trascorsi tra S. Stefano e Alessandria. Ora, canuto e leggermente curvo nonostante i suoi sessant’anni, secondo la descrizione che ne ha fatto Dies, badava a fare il “Cincinnato”, perché amava coltivare un orticello vicino all’abitazione della famiglia isolana che lo ospitava.

Zaniboni, deputato socialista e aderente alla massoneria, avrebbe dovuto colpire Mussolini, affacciato sul balcone di Palazzo Venezia per l’anniversario della vittoria, in 4 novembre, appunto, con un fucile di precisione da una finestra dell’albergo Dragoni. L’attentato fallì perché due ore prima, la Polizia, avvertita da un confidente, fece irruzione nella stanza d’albergo. Zaniboni fu arrestato e condannato a trent’anni di reclusione, in parte commutati nel confino a Ponza.

Quando gli inglesi occuparono Ponza, pochi giorni dopo la liberazione di Ventotene, nel settembre del ’43, le truppe britanniche s’insediarono nel vecchio Campo inglese, posto a metà strada tra il porto e la frazione delle Forna, quasi con le stesse modalità seguite le altre volte: la prima, nel 1799, ai tempi della Repubblica Partenopea; la seconda, nel 1813, quando a Napoli regnava Gioacchino Murat, durante il periodo napoleonico.

Senza indugi, il comando militare britannico destituì il podestà fascista e nominò Tito Zaniboni Sindaco provvisorio dell’isola, con il compito di provvedere alla normale amministrazione. La scelta cadde su Zaniboni perché padroneggiava abbastanza bene la lingua inglese per aver lavorato da giovane negli USA, ed anche in considerazione della sua esperienza, maturata come sindaco di Monzambana, suo paese natale in provincia di Mantova.

Perché gli inglesi a Ponza? Per la sua posizione rispetto alla terraferma e per la vicinanza alla capitale, l’isola fu considerata strategica in vista dello sbarco degli Alleati per liberare Roma dall’occupazione tedesca.

* * *

Pietro Nenni (1891-1980), uno dei massimi dirigenti del Partito Socialista Italiano, arrivò a Ponza insieme con una trentina di prigionieri albanesi soltanto il 24 giugno 1943. Era stato arrestato dalle truppe tedesche in Francia, dove era esule, e consegnato alla polizia italiana. Secondo le disposizioni personali di Hitler, egli meritava di essere deferito al tribunale speciale per tradimento e, dopo una rapida istruttoria, doveva essere fucilato senza pietà. Forse anche in considerazione di una lontana amicizia giovanile, il Duce disobbedì al suo potente alleato e decise di assegnarlo al confino di polizia.

Egli fu autorizzato ad alloggiare nell’abitazione della signora Marta Fadda, moglie di Cesare De Luca, in corso Umberto I, e a pranzare in una saletta appartata nella trattoria di Antonietta Conte, meglio conosciuta come “Zì Capozzi”, la nonna di Franco Zecca, nell’allora via Principe di Napoli, oggi Piazza Carlo Pisacane, con ingresso sul retro, da via del Comandante.

Nenni trascorreva diverse ore al giorno sulla terrazza dell’attuale ristorante EEA, che affaccia sul porto borbonico, per godersi la vista di un paesaggio bellissimo.

Veduta del porto dalla terrazza del ristorante EEA

 La sua liberazione avvenne il 5 agosto del 1943, due giorni prima della partenza del Duce per La Maddalena e comunque troppo tardi, per l’indecisione dei nuovi governanti. Riuscì a raggiungere Roma e, nel periodo della Resistenza, insieme a Pertini, Saragat e Basso, assunse la guida del Partito Socialista. Dopo l’Armistizio divenne uno dei capi politici del Comitato di Liberazione Nazionale (C.L.N.).

Alle otto del mattino del 26 luglio, Nenni era stato informato dell’arresto di Mussolini personalmente dal direttore del campo di concentramento, il commissario capo di Pubblica Sicurezza Salvatore Vassallo. In quella circostanza, tuttavia, fu pregato di non approfittare dell’occasione per turbare l’ordine pubblico sull’isola.

Scrive Nenni nelle sue memorie:

«La mattina del 28 luglio 1943 comparve al largo di Ponza una nave da guerra italiana, la corvetta “Persefone”. I confinati divennero inquieti, perché era corsa subito voce che sulla nave ci fosse un reparto tedesco, incaricato di catturarli.»

«Poi dalla “Persefone” si staccò una lancia, diretta verso il porticciolo di Ponza. Ne sbarcò un gruppo di civili che accompagnavano un uomo, anche lui in borghese. I confinati erano molto lontani e non capirono chi fosse il nuovo prigioniero. Dopo un paio d’ore arrivò trafelato Tito Zaniboni, che sapeva sempre tutto. E disse: quell’uomo è Mussolini. Il Maresciallo Badoglio aveva deciso di nasconderlo lì, per sottrarlo alle ricerche dei tedeschi che volevano liberarlo.»

Da casa sua, con l’ausilio di un normale binocolo, il dirigente socialista poteva seguire i movimenti del vecchio compagno della insurrezione forlivese contro la guerra in Libia e della cosiddetta “Settimana rossa” in terra di Romagna: a volte osservava il Duce, in maniche di camicia, mentre si passava nervosamente il fazzoletto sulla fronte sudata per la stagione calda; impaziente come un leone in gabbia, spesso si affacciava alla finestra della sua casa-prigione e scrutava speranzoso l’orizzonte, come Napoleone a Sant’Elena.

La notizia dell’arrivo di Mussolini si diffonde tra gli isolani

Lucia e Michelina, come la maggior parte degli isolani, quella mattina del 28 luglio non si accorsero di nulla. E’ vero, qualcuno aveva notato strani movimenti di uomini in divisa al porto, la corvetta in rada e una lancia con persone in abiti civili che si avvicinava alla banchina, ma mai avrebbero potuto immaginare la presenza di Mussolini a Ponza, addirittura con lo status di prigioniero.

Soltanto qualche giorno dopo, la notizia, avvalorata da alcune pesanti restrizioni adottate dalle autorità ai danni degli abitanti, si diffuse su tutta l’isola.

Infatti, il 1° agosto, tre giorni dopo l’arrivo dell’illustre prigioniero, gli isolani furono informati delle misure di vigilanza introdotte dal nuovo comandante militare, il tenente colonnello dei carabinieri Camillo Meoli. Si temeva che il Duce potesse fuggire, con la complicità dei fascisti isolani o per opera di un intervento militare esterno, organizzato dai fedelissimi del deposto regime con l’aiuto dei tedeschi.

Le nuove disposizioni, ancor più restrittive di quelle già in vigore prima dell’arrivo di Mussolini, creavano problemi insormontabili a chi si doveva spostare per lavoro, specialmente nei confronti dei pescatori ai quali, di fatto, veniva impedito di esercitare la pesca, con gravi ripercussioni sulla già povera economia della comunità isolana.

Le prescrizioni, con effetto immediato, prevedevano:

– divieto ai natanti di salpare o approdare senza il preventivo e rigoroso controllo;

– divieto d’accesso alle banchine ai non addetti ai servizi del porto;

– divieto di navigazione nello specchio d’acqua prospiciente Santa Maria alle imbarcazioni e l’accesso, la sosta e la balneazione lungo la spiaggia, compresa tra il molo e la punta di Santa Maria;

– censura preventiva su tutta la corrispondenza, in arrivo e in partenza, telegrammi compresi;

– chiusura degli esercizi pubblici alle ore 21.00;

– coprifuoco dalle 21,30 alle 5,00 del mattino;

– intensificazione della vigilanza sugli internati, limitandone la circolazione fino all’ingresso del primo grottone e con esclusione assoluta della fascia costiera;

– sorveglianza anche notturna delle carceri mandamentali;

– divieto delle riunioni pubbliche;

– avvio del censimento degli apparecchi radioriceventi sui quali i carabinieri, le guardie di finanza e gli agenti di Pubblica Sicurezza dovevano esercitare attento controllo per reprimere l’ascolto di radio straniere o contrarie al governo Badoglio;

– presa in consegna, con regolare inventario dei materiali esistenti, delle sedi del fascio, della GIL (Gioventù Italiana del Littorio), della Milizia e del dopolavoro;

– concessione di poteri esclusivi al commissario prefettizio, il farmacista Dott. Luigi D’Atri, per garantire l’afflusso dei viveri nell’isola e curarne l’equa distribuzione.

Per meglio comprendere la durezza dei nuovi provvedimenti e i conseguenti disservizi sofferti dalla popolazione civile, occorre ricordare che si sta parlando del periodo appena successivo all’affondamento del Santa Lucia, quando Ponza piangeva i suoi morti ed era completamente isolata dalla terraferma.

Il servizio passeggeri e quello postale erano virtualmente interrotti, se si considera che, di tanto in tanto, un mezzo della marina militare trasportava sull’isola la corrispondenza che giaceva a Gaeta.

La chiusura del campo di concentramento di Ponza

Il 5 marzo del 1942 sbarcarono a Ponza i primi deportati slavi rastrellati e poi deportati dalla dittatura fascista durante l’occupazione in Jugoslavia, in prevalenza civili, con il solo torto di essere considerati sovversivi, perché contrari al regime di occupazione o perché antifascisti.

A gennaio del 1943, il numero di internati ammontava a 629, di cui 562 uomini e 67 donne. La maggior parte erano di nazionalità montenegrina e albanese, ma c’erano anche greci, jugoslavi e bulgari.

Nella notte tra l’8 e il 9 agosto 1943, all’indomani della partenza di Mussolini per la Sardegna, il piroscafo Ingran trasportò a Gaeta gli ultimi 293 internati di Ponza. Gli uomini furono destinati al campo di concentramento di Renicci di Anghiari, in provincia di Arezzo, e le donne al campo di concentramento Le Fraschette di Alatri, in provincia di Frosinone, sorto il 1° ottobre 1942 come campo per civili sloveni, dalmati, croati e maltesi.

Del campo di Anghiari, che il giorno dopo l’armistizio, rimasto senza i guardiani, fuggiti per paura delle rappresaglie, vide tutti i prigionieri darsi alla macchia e rinvigorire la lotta partigiana, parlerò più dettagliatamente in un altro contesto, in relazione ad una famiglia di ponzesi che è stata artefice di importanti vicende legate alla lotta partigiana contro i nazifascisti nella regione del Chianti.

Antonio Usai

[Mussolini prigioniero a Ponza (4) – Fine]

To Top