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“Le avventure di Pinocchio” in dialetto ponziano (1)

[1]di Ernesto Prudente

Pubblichiamo con molto piacere ed altrettanto interesse il libro “Le avventure di Pinocchio” in dialetto ponziano, di Ernesto Prudente, scusandoci con l’autore per il ritardo (dovuto a problemi tecnico – organizzativi del sito), rispetto alla gentile concessione accordataci già da un po’ di tempo, così come  per altre sue opere.

Il libro sarà presentato in varie puntate.

Inizieremo con la prefazione la quale si rende necessaria perché con essa Ernesto Prudente  riesce a far comprendere meglio  il dialetto ponziano nelle sue varie articolazioni sia di scrittura che di lettura.

Prefazione

Nel mio “Fogli sparpagliati”, edito alcuni anni fa, inserii anche una lettera indirizzata a mio nipote Ernesto, il cui contenuto trattava il suo primo giorno di scuola. Terminava così, quella lettera: “Sentirai dirti ripetutamente che devi leg­gere. Lo devi fare. Devi scoprire, con l’aiuto della mamma, e anche di tua sorella, la bellezza e l’im­portanza della lettura, necessaria per imparare la lingua ed essenziale per apprendere le arti.

In questo potresti giovarti della collaborazione del nonno che già ha messo da parte, per te e per Tamara, una serie di libri tra cui spiccano Il Cuore del De Amicis e Pinocchio del Collodi. Vorrei che fossero, come lo sono stati per me, i tuoi primi libri di lettura.”

Pinocchio è il nome del protagonista di un famoso libro per ragazzi: “Le Avventure di Pinoc­chio; Storia di un burattino”, scritto nel 1883 da Carlo Lorenzini che lo firmò con lo pseudonimo di Collodi.

Pinocchio è la storia di un burattino che un fale­gname, pur di avere un figlio, ricavò, con tanta passione e tanto amore, da un tronco d’albero.

Una storia stupenda, meravigliosa, fantastica, che solo un grande artista poteva immaginare.

Una storia che parla di un burattino, nu mamuocce , vivace, impertinente, irrequieto, sba­razzino, cencioso, furbo e di animo generoso, com­m’a nu scugnizze, che, appena completato, fugge da casa e dopo tante e varie peripezie e avventure è degno di diventare un bambino, un bambino vero, un bambino in carne e ossa.

Nu uàglione comm’ Ernestino mìje.

M’è venùte u sfizzje di tradurlo nel nostro dia­letto per dare a tutti i miei nipotini, che considero tutti i bambini di Ponza, e ai loro genitori, la possi­bilità di ricordarsi della lingua dei loro antenati.

Un idioma, un linguaggio, un dialetto, è sempre legato alla storia, alla vita, alle leggende di un paese, di una comunità. Ci ricorda i nostri nonni, i nostri antenati. Evoca vita, morte e miracoli di una etnia.

Benché pochi, come potrebbero sembrare, due­centosettantacinque anni di vita di un popolo non è cosa di poco conto, come non è cosa da buttare nel cestino dei rifiuti. Duecentosettantacinque anni passati da una legalità, sarebbe forse meglio dire illegalità, all’altra, duecentosettantacinque anni di oppressione da parte delle istituzioni, qualunque sia la divisa che hanno indossato o che indossano.

La nostra parlata rappresenta la carta di identità di questo paese.

Non vi sono dubbi che quando si scrive in dia­letto si incontrano infinite difficoltà. Ho cercato sempre di sostenermi appoggiandomi a quanto ho sentito dalla viva voce cercando di portare sulla carta, come se si trattasse di note musicali, il suono della parola più fedele possibile alla voce che l’ha pronunciata. Un dialetto, un qualsiasi dialetto, per quanto possa essere studiato ed elaborato, trova la sua autentica pronuncia soltanto nella bocca di chi è nato in quella località e nella cui casa quell’idio­ma viene parlato da generazioni e generazioni.

Ho aperto discorsi e discussioni con tutti coloro che avrebbero potuto darmi un valido contributo, scoprendo anche cose belle e simpatiche. Il dentista Maurizio Jodice, autentico ponzese, costretto a vivere in continente per esercitare la professione, ogni qualvolta mette piede a Ponza passa con me, a discutere di dialetto e di tradizioni, intere mattinate. E’ alunno di un nonno che è vissuto 102 anni e di quel nonno tiene scritto tante parole dialettali con il relativo significato. Mostra un accanimento da discepolo particolare. Vuol sapere. Si stacca solo al richiamo della moglie che pretende di essere trasportata a Palmarola per vivere una giornata nella grotta che hanno su quell’isola.

Luca Tagliamonte, anche lui “punito” a vivere in una farmacia di Roma, non solo discute, nei nostri brevi e rari incontri, ma mi telefona, e continuamente, per dirmi che la notte “ha sognato” la dizione dialettale perfetta della parola rondinella: Ernè, s’adda scrìvere: rennenèlle, dettandomi, una  ad una. le consonanti e le vocali e quando la si pro­nuncia si deve sentire soltanto una delle quattro vocali,  la è” centrale, quella su cui deve cadere l’accento”. Anche Luca si aggrappa ai ricordi dei genitori.

La lingua ponziana non è, come scrittura, un idioma facile perché non si pronuncia così come è scritta. Le difficoltà che si incontrano riguardano le vocali che possono essere pronunciate, ora larghe, ora strette, per avere un suono aperto o chiuso. Una considerazione a sé stante la merita la vocale “e”che, oltre a seguire la regola generale di essere pro­nunciata aperta o chiusa, a seconda dell’accento, spesso, quasi sempre, non viene pronunciata, per­ché non accentata e specialmente quando è in fine di parola. Nel nostro dialetto tutte le parole finisco­no con la “e” muta.

La differenza di suono comporta talvolta anche la differenza di senso, ossia di parole di diversa derivazione ma identiche nella forma grafica come ad esempio: pèsca (frutto del pesco) e pésca (da pescare); cèra (aspetto del viso) e céra (prodotto delle api); èsse (lettera dell’alfabeto) e ésse (prono­me); vènti, (plurale di vento) e vénti (numero); bòtte (percosse) e botte (contenitore di liquidi); còlto (da cogliere) e colto (istruito); fòsse (buche) e fosse (voce verbale).

Sulla tastiera del computer manca la lettera “o” con l’accento acuto per cui le “o”, che non sono state accentate, vanno lette sempre con suono chiu­so come se avessero l’accento acuto.

Stabilito ciò non posso non sintetizzare, come ho già fatto per altri lavori dialettali, con l’afferma­re che i punti essenziali della parlata ponziana sono l’accento e l’apostrofo.

L’accento è battere più forte sulla vocale che compone la sillaba con cui si formano le parole. La sillaba accentata dà il tono e diventa l’anima della parola. Chi non possiede l’accento è senza tono.

L’uso dell’accento è abbastanza curioso e molto arbitrario per cui ognuno mette l’accento dove lo ritiene opportuno per evitare una interpretazione diversa da quella che si vuoi dare alla parola come: àncora (attrezzo per tenere fermo un natante) e ancòra (anche); càpitano (voce verbale) e capitàno (comandante) sùbito (avverbio) e subìto (subire).

L’apostrofo è il segno che serve a rappresentare le vocali che, per diversi motivi, vengono soppres­se. Non vi sono norme precise che lo regolano, l’orecchio e l’uso suggeriscono, di volta in volta, l’opportunità.

La vocale “e”, qualunque sia la sua posizione nel corpo della parola, se non è accentata, ha un suono indistinto e quasi muto, simile a quella fran­cese.

Nel leggere, un’altra cosa a cui bisogna stare attenti, è quando ci troviamo davanti ad un aggettivo che viene posto prima del sostantivo, la vocale finale, che, nella nostra parlata, è quasi sempre la “e”, quando non è accentata, si restringe mutandosi quasi in una leggerissima “u”: bèlle uàglione (bel­l’uàglione); màle tiémpe (malu tiémpe); chìste còre (chistu còre). Ho cercato, in questa mia libera traduzione di riprodurre, con la maggiore fedeltà possibile, il suono delle parole ed evitare equivoci e ambiguità Una ultima considerazione: Sappiamo leggere? Leggiamo in modo sensato?

Sono, purtroppo, costretto a dire che non si sa più leggere ed è una lacuna sin troppo evidente.

Nelle scuole, elementari e medie, non si impara più a leggere in modo sensato e la gente legge tra­scurando la punteggiatura, cioè senza fare pause e senza dare il dovuto significato a ciò che si legge. Basterebbe frequentare la messa festiva per sentire il “gracchiare” dei fedeli che vengono incaricati delle letture sacre.

La punteggiatura ha una importanza grande, enorme, immensa, nella lettura. Nella grammatica che ho usato quando frequentavo le scuole medie ho trovato scritto che “l’uso della punteggiatura: punto,virgola, due punti e punto e virgola, non indicano propriamente un distacco ma piuttosto segnalano i passaggi, come dire le ondate, del discorso”. Si! la voce della lettura dev’essere come l’accavallarsi e il susseguirsi delle onde del mare.

Una normativa precisa per la punteggiatura non c’è, non esiste. Ognuno punteggia a modo proprio.

Basterebbe ricordarsi, a tale proposito, il duetto, lo scherzoso diverbio, tra Totò e Peppino nel film “Un napoletano a Milano”.

Per punteggiare bene bisogna abituarsi a legge­re adagio cercando di segnare il tempo negli alti e bassi della voce.

Una pagina mal punteggiata dà idea di disordi­ne, di oscurità di pensiero, di poco decoro nello scrivere.

Detto questo passiamo a “Pinocchio”, il roman­zo. di Collodi, che racconta le avventure di uno strano burattino che parlava, camminava, saltava, ballava, correva, leggeva, rideva e scriveva e si comportava, facendo di tutto e di più, come se fosse un bambino reale, un bambino vero, un bam­bino sempre moderno.

Il burattino è personaggio confidenzialmente umano che con le sue avventure non fa altro che stimolare un sano modo di comprendere e interpre­tare la vita, al di fuori anche del rigido rigore della saggezza e dell’ordine.

Nel capolavoro di Carlo Lorenzini resta eviden­te, limpido, palpabile l’insegnamento morale. Un insegnamento ancora attuale per quei giovani, e sono tanti, che non vogliono più sentire lezioni.

Allora è un libro per bambini, un libro soltanto per i mamuocce?.

No, non sono d’accordo, anche se la critica lo pone tra i tre o quattro libri che vengono considera­ti i capolavori della letteratura infantile.

Pinocchio è una enciclopedia dove anche le per­sone adulte possono e devono trovare gli insegna­menti per un comportamento conforme al bene morale, al bene della coscienza, al bene della società.

L’uomo pensa, come Pinocchio, alla ricchezza come traguardo della sua vita.

Ricordiamo il campo dei miracoli, gli alberi carichi di monete ed il tintinnio dell’oro al fruscia­re del vento. E ricordiamo anche che Pinocchio non lo considera il vero tesoro. Il vero ed unico tesoro della vita avventurosa del burattino Pinoc­chio sta nel trovare se stesso e, ancor prima di ciò, sente il dovere, l’obbligo, la responsabilità, di trovare suo padre.

Ernesto Prudente

I disegni che noi pubbicheremo fanno parte di  questo stesso  libro dal quale apprendiamo che essi sono stati elaborati da Ulrike.