D’Andrea Noemi

Ponza, isola scontrosa, rifugio degli ultimi puri

Articolo d’epoca, scovato e proposto da Noemi D’Andrea
Cartolina di Frontone

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Lo pubblichiamo volentieri perché Tarchetti, quegli anni  e quel mondo li ricordiamo bene; come apprezziamo le qualità di Paolo Guzzanti, quando faceva il giornalista e non il politico (!).
Ma possibile che una foto di Mario Tarchetti, con il suo inseparabile foulard rosso al collo, non ce l’ha nessuno?
La Redazione

 

 

Ponza, isola scontrosa, rifugio degli ultimi puri
Da “la Repubblica” del 13 luglio 1989 —  sezione Cronaca

di Paolo Guzzanti

PONZA – Sì, certo: sono gentili e non s’impicciano. I ponzesi sono discreti e Gigliola Cinquetti può circolare libera dall’assedio dei cacciatori d’ autografi. E Gassman può andarsene in giro a cercare il pesce fresco mentre Ciriaco de Mita (quando viene: ancora non si è visto) ciabatta insieme a Tanzi in tenuta primitiva.
I ponzesi sono fatti così: ti guardano e passano oltre.
Vorrei dire che questo dipende dal loro carattere schivo e riservato. Ma sarebbe una ipocrisia.
La verità è che i ponzesi campano di turismo, ma non amano svisceratamente i turisti. E il motivo c’è: è la storia.
Voglio dire: quest’isola, fino a duecentosessanta anni fa era un sasso in mezzo al mare, spelacchiato e buono soltanto per naufragare. Il naufrago arrivava carponi, scopriva certe misteriose ingegnerie romane, cunicoli e gallerie, buchi nella roccia e scavi geometrici di cui non capiva il senso, e se ne andava.

Ma quando i Borbone decisero di popolare l’isola, era ormai il 1730, ricorsero alla colonizzazione chiamando una leva di abitanti di Torre Del Greco e una di gente d’Ischia. Infatti a Ponza si parla un napoletano un po’ bastardo, ma pur sempre napoletano. E subito questa gente di Ponza si rese conto che i “forestieri”, quando venivano portati con i bastimenti e i postali, non erano dei facoltosi signori rispettabili, ma in genere dei reclusi, quando non dei galeotti, o confinati, o arrischiati patrioti di passaggio come i trecento di Pisacane. L’antipode di Rimini, a farla breve.
I ponzesi tollerano, rispettano, accudiscono i forestieri, ma non li amano e non li hanno mai amati. Questo farà arrabbiare molti di loro che grideranno (me lo hanno preannunciato) alla lesa maestà turistica, e invece è bene che si rendano conto del contrario. Ponza, e i suoi abitanti, sono un mondo a parte. Un mondo eternamente separato e lontano. Questa è la sua virtù, il suo prezzo e il suo aspro fascino: è l’antipode di Rimini.
Ponza non è e non sarà mai di moda. Romiti infatti viene, e subito se ne va. Berlusconi passa con la barca, vede che non c’ è acqua potabile sufficiente e leva le ancore. Carolina di Monaco con gran batticuore delle adolescenti era qui l’ altro ieri a comprare il giornale, ma com’ è venuta se ne è andata. Tanti saluti.
Gente particolare e affettuosamente scontrosa viene a Ponza per non conoscere e non essere riconosciuta.
E’ un’isola di godimenti terribili, ma naturali: mare e sole, abissi e colori accecanti, sesso, fame, mare grosso e rimbombo di caverne, sole a picco e mangiare da contadini.

Io ho avuto la fortuna di incontrare, e di rendermi amico, un personaggio straordinario che si chiama Mario Tarchetti.
Un giovanotto di ottant’anni che ha costruito la fama di quest’isola insieme a pochi altri nei primi anni Cinquanta, quando evadeva dai salotti romani e napoletani, dalle sue fatiche di latin lover del gran mondo e dagli atelier di pittura che onorava degnamente con la sua arte. Di lui, e delle sue storie straordinarie nella Roma fiumarola di Mafai e Cagli, di Flaiano e di Margherita Scarfatti, dei turbamenti di Cardarelli, delle declamazioni di Ungaretti al Caffè Greco, parleremo in un’ altra occasione.
Ma una delle prime cose che questo signore mi ha comunicato a proposito di quest’isola è che qui non si bestemmia né si prega Iddio. Nel senso che ognuno fa da sé, nella fatica e nella residua romanità, o etruschità di banchina, di molo, di trasporti immani di pietre, di velieri carichi di cemento, di barche colme di rifornimenti diretti in Sardegna.
L’ isola in cui non si bestemmia né si prega ricorda l’arrogante pretesa dei toscani, ricordata da Malaparte, i quali all’inferno ci vanno, sì, ma soltanto per pisciare. Isola diversa e unica.
L’ altra notte a Chiaia di Luna, sulla spiaggetta, si è convocata una folla notturna di bagnanti edonisti che hanno mangiato le prelibatezze offerte da un baracchino improvvisatosi in un ristorante di gran classe. Qualcuno suonava la chitarra e la notte si è riempita di contentezza. E sulla terrazza del ristorante che domina il porto, in una notte di incantesimo senza tempo e senza altri eventi straordinari che la notte stessa, il comandante degli aliscafi Elio Altomare ha preso anche lui la chitarra e ha conteso alla risacca i privilegi del suono.

Giorgio Amendola scrisse L’Isola nel ricordo struggente di questa terra e tutti i confinati che vissero qui l’amarono anche nel patimento, che peraltro non andava molto oltre il crudele malessere morale dell’esilio. Infatti Mussolini, nella sua alterigia smargiassa, voleva che i confinati di Ponza, i suoi nemici politici (ma anche lui passò di qui, recluso, dopo l’ arresto del 25 luglio ‘ 43, e incrociò Nenni che se ne tornava libero) non mancassero dell’essenziale: Vedi, mi indica Tarchetti, qui arrivavano i confinati e trovavano subito la scritta Docce. In un’ isola senz’acqua. E poi lo spaccio, gli alloggi… non mancava niente.
A Mussolini piaceva che si dicesse bene della condizione fisica dei confinati. Senza una sorgente, Ponza è stata sempre un approdo di scorridori di passaggio. Soltanto i romani costruirono un sistema formidabile, e geniale, di raccolta delle acque piovane in misura sufficiente da placare la sete di Ponza. Ma dopo di loro, la siccità e stupidità. L’ acqua arriva per nave.
E Tarchetti ricorda i tempi della motonave Frigido, comperata in Giappone nel Novecentodieci che portava gasose e bidoni. Le navi cariche di formaggio. Isola di cibi straordinari.
Qui sopravvive ancora per poco il mondo di ieri. Si ragiona, si pensa, si passeggia, si litiga, si parte e si arriva, come ai tempi dei fenici. Il tempo è rimasto senza tempo, almeno finché non arrivò Gioachino Murat, ‘o re Giuvacchino, che costrinse i soldati a raparsi i capelli (fece ‘o caruso): re modernista e reboante che compariva e scompariva a cavallo, la sciabola sguainata, sconcertante ed amato, finché la storia non lo spedì al plotone d’esecuzione.

Cibo di reliquie. Per quante insalate di pomodoro abbiate potuto gustare in vita vostra, soltanto qui potrete, se avete il coraggio, affrontare la verace ‘nzalate ‘e pummarole che si fa con uno strafottìo di pomodori rossi e grandi ancora caldi di sole, sale grosso da cucina di quello che sembra graniglia, cetriolo e sedano quanto basta ad assorbire il sodio di tanto sale. Aglio forte e cipolla rossa. E, tenetevi forti, aglio: aglio da ammazzare le zanzare con il fiato per sette giorni e sette notti; aglio violento, bianco e fresco, mescolato con cipolla rossa, forte, acre, lacrimosa, viva, di quella greca o siciliana. E poi olio di questi ulivi stenti, contorti, aggrappati alle rocce: un olio denso e un po’ acido, che si accompagna al pane nero come le mani degli scaricatori del porto.

Gli italiani che scelgono quest’isola per fare vacanze, sono forse gli ultimi puri. Le librerie estive sono ben fornite. I giornali arrivano in abbondanza e finiscono presto. I bar sono candidi e perfetti.
Ponza è un’isola esterna, come Capri è un’ isola interna. Nel senso che qui si va soltanto per mare e non per terra.

Io vado per terra con Mario, che con i suoi ottant’anni da ragazzaccio un po’ cialtrone (lo dice lui, per civetteria) mi guida su per le stradacce che salgono fra le agavi dallo stelo disperato, le buganvillee sparse, i ficus nascosti. Prendo in affitto una macchina che sembra quella di Paperino, una Cinquecento di trent’anni fa, ridipinta di rosso con la vernice a mano, con un motore da scooter. Sia come sia, finiamo a Punta Incenso da cui si vedono tutti i mari e queste miracolose case di Ponza che non offendono la vista, perché sono cubiche, semplici, rosate o cilestrine, o bianche, o di un’ocra pallido. E questi sono i colori delle case di Ponza. Ci sediamo sotto l’incannucciata della trattoria sottovento e mentre il mio cicerone mi racconta di certi suoi vecchi amici manigoldi, fra cui Paolino, ‘O Barbariello, Salvatore ‘O Cecato, e qualcun altro con cui tracannavano piretti da venticinque litri. Serve a tavola la bruna e pallida Maria Rosaria, graziosa, ma con i denti che se ne vanno di qua e di là, giovane moglie del pescatore che di notte prende pesci per i ristoranti. Suo nonno fabbrica barche. E quando Mario le chiede notizie di don Gennaro, il parroco, lei ridacchia: E’ muorto! E perché ridi? Niente, così. La verità è che Don Gennaro è muorto, è vero, ma è muorto in odore contrario a quello della santità: se n’ è andato con la zimarretta porpora da monsignore, ma la fama di stracciafemmine. E’ vero, o no? Così si dice, taglia corto Maria Rosaria. E ci serve la minestra fredda di cicerchie con un filino d’olio. Io odio i vini del contadino, scaraventerei dalla finestra ogni vino genuino e fatto in casa, ma mi vedo costretto a riconoscere che questa caraffina di rosso, persino tiepido, si lascia bere e ribere. Quanto al resto: tonno sott’olio fatto in casa, melanzane all’ uso calabrese, pane bianco sotto la sferza delle cicale a cottimo che tagliano e segano l’ aria.
Ecco Benito Dal Ponte. Di quelle facce italiche da soldato romano, con la canottiera e i peli sulle spalle, ma occhi chiari e naso dritto, stempiato e tarchiato. Gli manca un dito, perso chissà in quale fatica. Si siede, beve un bicchiere e rievoca il veliero Jazmine, Folco Quilici che sosteneva che Ponza è l’ isola più bella del Mediterraneo e Palmarola del mondo. Revival dell’unica bettola dei bei tempi: quella di Adalgisa alla Dragonara, perché forse uno sciagurato drappello di dragoni una volta soggiornava nell’ isola. E la fine del patriota Luigi Verneau, fucilato il sei di luglio del Settecentottantanove.
Ma più che altro si ricorda la fatica, indelebile e invisibile, di migliaia di uomini al lavoro di scarico: le migliaia di tonnellate spostate, di alberi portati, di roccia trascinata, mani insanguinate, funi e cime da segare le spalle.

Da qui si vedono le cisterne. La fatica di trattenere l’acqua. La fatica del risposo pomeridiano. In lontananza una gallina ripete la sua disperazione. Un belato di capra e il sole che infrange ogni barriera di canne. Folate di venti di scarico: puzza di immondezzai, che subito svanisce; sentore di pesce, di sentina, di latrina, di polpa di granchio, di benzina, di cherosene, di olio per barche: gli odori dell’uomo e del mare che si fondono aspramente.
Elio Altomare, il comandante dell’aliscafo, mi raccoglie alle cinque di mattina e molla gli ormeggi della barca che prima di poggiarsi sugli alettoni fiuta il mare e lo solca. Elio racconta la dura solitudine invernale, quando da solo gli tocca partire alle sei di mattina, ogni giorno, nel buio e nella tempesta, con l’aliscafo vuoto, per tornare vuoto, pur di assicurare il servizio pubblico.
La gente che sta qui, e che lavora qui, ha conservato, o riprodotto, modi e durezze del mondo antico, pre-romano e romano, di gente tarchiata, puntuale, efficiente, affidabile, dura di fronte al lavoro. E somigliano alla loro isola che è così: da lavorare e godere con mani graffiate.
Mario Tarchetti sostiene che si tratta di un’ isola fatta di scavi, di vuoti, di cunicoli, di dimenticanze, di assenze. Uomini e cose infatti sono come scolpiti: ottenuti per sottrazione dalla materia dura.

Paolo Guzzanti

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