Confino Politico

Il tramonto della dittatura nelle isole del confino. La reazione dei confinati e dei militi

di Antonio Usai

Alla redazione di “Ponzaracconta”

 

Ringrazio Rita Bosso per le simpatiche parole spese nei confronti delle mie modeste ricerche storiche, che riguardano alcuni aspetti della microstoria di Ponza, in relazione alla Grande Storia, visti, appunto, attraverso la lente della mia vita familiare. Ringrazio anche Alessandro Vitiello che su facebook mi scrive: “leggo sempre con grande piacere i tuoi scritti su Ponzaracconta”. E allora, propongo alla Redazione altri contributi sullo stesso genere affinché, come dice Rita, la lettura di questi scritti possa portare a galla immagini che, nella memoria di ciascuno di noi, si sono impresse grazie ai racconti dei protagonisti e di persone a loro vicine.

Seguirà una trilogia di grandi personaggi passati dalla nostra isola negli anni della guerra: Mussolini, Ras Immerù e Pietro Nenni.

 

Antonio Usai

 

 

Una veduta di Ventotene negli anni '40

Il tramonto della dittatura. La reazione dei confinati e dei militi nelle isole ponziane

 

Per meglio comprendere la storia delle isole ponziane durante la seconda guerra mondiale, è opportuno esaminare gli accadimenti di quegli anni prendendo come riferimento  la tragedia del Santa Lucia, che rappresentato un punto di svolta per la vita di tanti isolani.

Se poi si ricorda, anche soltanto sommariamente, il quadro politico nazionale e internazionale di quell’epoca, tutto diventa più chiaro e netto.

Vediamo di ordinare alcuni eventi in una sequenza significativa. Nel gennaio del 1943 fu  deciso lo sbarco in forze delle truppe alleate sulle coste della nostra penisola; a marzo tutti i centri industriali del Nord per la prima volta scioperarono contro il regime; che il 12 giugno le truppe anglo-americane sbarcarono a Pantelleria e il 10 luglio in Sicilia; il 19 ci fu il primo bombardamento alleato della capitale; il 23 il Santa Lucia fu mitragliato per la prima volta dagli aerei di Sua Maestà britannica; il 24 luglio fu colato a picco; il 25 il Gran Consiglio del fascismo votò per la destituzione e l’arresto del Duce; il 28 Mussolini giunse prigioniero a Ponza.

I grandi avvenimenti che precedettero quei giorni convulsi permettono di capire qualcosa di più sulla Ponza del tempo.

Alla Conferenza di Casablanca, nel gennaio del 1943, inglesi e americani si accordarono sullo sbarco delle forze alleate in Italia e sul principio della resa incondizionata da imporre ai nemici: «La guerra sarebbe continuata fino alla vittoria totale, senza patteggiamenti di sorta né con la Germania né con i suoi alleati

Le forze armate italiane erano stremate dopo tre anni di conflitto e le sconfitte sul fronte russo, nei Balcani, in Africa settentrionale. Ovunque nel Paese si era diffusa la convinzione dell’inevitabilità della sconfitta.

Il 19 luglio, Roma, da lungo tempo sotto l’occupazione tedesca, fu attaccata pesantemente dagli aerei americani: da seimila metri di altezza, sulla verticale dello scalo merci di S. Lorenzo, i bombardieri B-17 sganciarono numerosi ordigni da duecentocinquanta chili. Le prime bombe toccarono terra alle 11.03 e centrarono in pieno i binari, due vagoni e un capannone dello scalo merci di San Lorenzo. Le successive ondate di bombardieri colpirono numerosi palazzi del quartiere. Alla fine della giornata si contarono circa tremila morti e oltre undicimila feriti. Una cifra di morti e feriti davvero impressionante!

I bombardamenti massicci delle principali città italiane nell’inverno 1942-’43, i grandi scioperi operai nel marzo del ’43, che da Torino si propagarono in tutti i centri industriali del Nord, e lo sbarco alleato in Sicilia dell’estate, rappresentarono il colpo di grazia per il regime fascista, screditato anche dagli insuccessi militari.

***

Nella notte tra il 24 e il 25 luglio, il Gran Consiglio del fascismo, assumendo una posizione molto critica nei confronti di Mussolini, votò a maggioranza l’ordine del giorno presentato da Dino Grandi che, invitando il re a riassumere le sue funzioni di comandante supremo delle forze armate, costituiva un esplicito atto di sfiducia nei confronti del Duce. La seduta del Gran Consiglio terminò alle ore 2,30 circa di domenica 25.

Alle sette del mattino Mussolini si alzò e, come di consueto, alle otto era già a Palazzo Venezia, come se nulla fosse successo, per iniziare un’altra giornata di lavoro. Nella tarda mattinata, dopo aver ricevuto l’ambasciatore del Giappone, si recò con il generale Galbiati a visitare il quartiere di San Lorenzo, dopo il primo bombardamento dell’aviazione americana sulla capitale. Poi, fece ritorno per il pranzo a Villa Torlonia.

Il pomeriggio, alle 16,30 Mussolini uscì di casa per recarsi a Villa Savoia dove era atteso da Vittorio Emanuele III. Il colloquio tra i due durò circa mezz’ora. Dopo averlo invitato inutilmente a rassegnare le dimissioni da capo del governo, il re lo accompagnò fino alla soglia della palazzina. Mentre il Duce si accingeva ad entrare nella macchina di servizio, gli si avvicinò un capitano dei Carabinieri che lo invitò cortesemente a salire su un’autoambulanza già pronta lì vicino, dicendo: «Sua Maestà mi ha ordinato di proteggere la vostra persona!». In realtà, il re aveva ordinato di arrestare Mussolini. Questi, dopo una breve sosta in una caserma dell’Arma, fu trasferito nella scuola allievi carabinieri di Roma, dove fu trattenuto fino al martedì sera, quando fu condotto a Gaeta con destinazione isole ponziane.

Come è noto, alla guida del governo fu nominato Pietro Badoglio, ex comandante delle forze armate ed artefice militare della conquista dell’impero etiopico.

Il Maresciallo d’Italia ricevette dal re i pieni poteri e subito formò un governo militare. In un suo breve discorso alla radio, dichiarò che la guerra (al fianco dei tedeschi) sarebbe continuata, ma nessuno ci credette, ancor meno Hitler, che già preparava le rappresaglie contro gli italiani traditori.

Alla notizia della destituzione del Duce, nelle grandi città la popolazione scese per le strade e sfogò il suo risentimento contro sedi e simboli del regime.

I giornali del 25 luglio 1943

Nel campo fascista regnava la confusione più totale; il partito si dissolveva ovunque, la gente esprimeva gioia e un gran senso di liberazione. Ai gerarchi ed anche ai semplici militi, che durante il ventennio si erano macchiati di efferatezze, fu data la caccia e tanti di loro pagarono col sangue: «il sangue dei vinti

La reazione dei confinati

Durante la fase di agonia del regime, Eugenio si trovava a Ventotene con indosso la scomoda divisa delle Camicie nere, fianco a fianco con i più determinati oppositori del regime, ristretti da diversi anni. La polizia confinaria temeva fortemente la rivolta dei confinati e si sentiva in pericolo di vita.

Sandro Pertini, nelle sue memorie, ha raccontato che la mattina di lunedì 26 luglio a Ventotene l’aria era calda. Non soffiava neppure un filo di vento e il mare era calmo e piatto. Dagli edifici che ospitavano i confinati, si vedevano i tedeschi della contraerea che, come di consueto, lucidavano i pezzi d’artiglieria. I militi in camicia nera, invece di sorvegliarlo, come di consueto, parlavano fra di loro concitatamente e apparivano costernati e impauriti.

Improvvisamente i confinati uscirono dai cameroni a gruppi, per recarsi a passo svelto nella piazza del Castello. Speravano di avere notizie aggiornate dalla radio sui gravi avvenimenti in corso. Non furono delusi. Alle otto fu scandito il segnale orario e lo speaker iniziò la lettura del seguente comunicato: «Sua Maestà il re e imperatore ha accettato le dimissioni dalla carica di capo del governo, primo ministro segretario di Stato, presentate da S. E. il Cavaliere Benito Mussolini…».

I confinati presenti in piazza applaudirono a lungo e increduli rientrarono elettrizzati nei cameroni per riflettere sul da farsi.

Pertini ed altri personaggi di spicco costituirono seduta stante un Comitato per autogestire la colonia dei confinati, formata da circa ottocentocinquanta persone. Poi si recarono dal direttore della colonia per un colloquio urgente.

Il dott. Marcello Guida, il commissario di Pubblica Sicurezza direttore della ‘Colonia confinaria di Ventotene’ (e futuro questore di Milano ventisei anni dopo, nei giorni della strage di piazza Fontana), dopo aver tolto il ritratto di Mussolini dalla parete del suo ufficio e il distintivo del partito dall’occhiello della giacca, ricevette il Comitato dei confinati con modi insolitamente cortesi. Nella conversazione usò il lei anziché il voi imposto dal fascismo. Era pallido in volto, perché temeva che i confinati fossero andati da lui con l’intenzione di arrestarlo. Guida raccontò che la notte precedente era andato a trovarlo un ufficiale tedesco della guarnigione di stanza sull’isola, per chiedergli che cosa significasse realmente la notizia della destituzione di Mussolini. Il Commissario, sapendo di mentire, tranquillizzò l’interlocutore tedesco sulla solidità dell’alleanza tra l’Italia e la Germania.

Dopo brevi convenevoli, il Comitato dei confinati presentò le seguenti richieste: la direzione della colonia doveva passare al più presto nelle mani del Comitato; doveva immediatamente cessare il pedinamento cui, per opera della Milizia, erano sottoposti alcuni confinati; la Milizia non doveva più farsi vedere in camicia nera, dal momento che era stata incorporata nell’esercito da Badoglio; il direttore della colonia doveva intervenire presso il Ministero degli Interni perché al più presto si provvedesse alla liberazione di tutti i confinati.

Al termine del colloquio, Pertini adunò una squadra di confinati e fece con loro il giro del paese con l’intento di spezzare i fasci littori, simboli del fascismo, che fregiavano le caserme e gli altri edifici pubblici. Alle 10 del mattino partì il primo telegramma diretto al nuovo capo del governo con il seguente testo: «Confinati politici chiedono immediatamente liberazione Mauro Scoccimarro, Alessandro Pertini, Francesco Fancello, Altiero Spinelli, Orazio Perilli

Il 31 luglio, il Comitato inviò un altro telegramma reclamando l’immediata liberazione dei condannati e dei relegati politici come automatica conseguenza della caduta del regime fascista; chiese, altresì, il ripristino urgente dei mezzi di trasporto per le isole ponziane venuti meno con l’affondamento del Santa Lucia.

Da Roma giunse sollecita la risposta alle richieste dei confinati: il nuovo capo della polizia, Carmine Senise, già collaboratore del famigerato Bocchini, con sfrontatezza ordinò al Commissario Guida di non procedere alla liberazione dei confinati comunisti e anarchici. Per quelli diversamente classificati, ciascuno avrebbe dovuto presentare richiesta di grazia al re.

Il 4 agosto i confinati di Ventotene reagirono con fermezza a quella inaccettabile disposizione ministeriale, reclamando l’immediata liberazione di tutti i prigionieri politici. Il 14 agosto, Senise ammorbidì le precedenti disposizioni e ordinò la liberazione di tutti i prigionieri, tranne quelli di fede anarchica, gli slavi e gli ebrei apolidi.

In breve tempo, il direttivo dei confinati comunisti fu in grado di pianificare la partenza da Ventotene dei cinquecento compagni ristretti. Furono formati scaglioni per ciascuna provincia italiana; ogni gruppo era costituito da dirigenti del partito, quadri intermedi e attivisti con un’esperienza militare. I gruppi provinciali comunisti avevano il compito di costruire l’organizzazione del PCI nell’Italia liberata dal nazifascismo.

Tra il 13 e il 23 agosto, tutti i confinati lasciarono Ventotene. In mancanza del piroscafo di linea, fu necessario ricorrere ad alcuni motovelieri privati.

Al cosiddetto “Governo di Ventotene”, durante la lotta di liberazione si affiancarono presto i militanti comunisti reclusi nelle carceri, anch’essi ritornati in libertà dopo il 25 luglio.

 

La reazione dei militi

A Ponza, come a Ventotene, la gioia esplose incontenibile tra gli internati, i confinati, i soldati e la maggioranza degli isolani, nonostante fosse ancora vivo il dolore per il crimine di guerra compiuto, soltanto il giorno prima, contro il Santa Lucia e il suo prezioso carico umano.

Come reagirono i militi di Ventotene, ed Eugenio in particolare, alla notizia della caduta del regime?

Erano tutti molto preoccupati. Non sapevano quale sarebbe stato il loro destino e temevano di perdere il posto di lavoro che, fino a pochi giorni prima, era considerato assolutamente sicuro. Quelli che avevano la coscienza sporca, perché colpevoli di gravi misfatti e prepotenze nei confronti della popolazione civile e dei confinati, temevano seriamente per la loro vita.

Anche Eugenio era preoccupato, ma non per Lucia e il figlioletto, che stavano al sicuro a Ponza già da qualche giorno, bensì per la situazione generale del paese che non faceva presagire niente di buono. I superiori, militari, della Milizia o dell’amministrazione confinaria, attendevano ordini da Roma prima di prendere qualsiasi iniziativa.  Le prime disposizioni, confuse e contraddittorie, giunsero soltanto un paio di settimane dopo, un tempo troppo lungo, vista la tensione palpabile che si avvertiva nelle relazioni con i confinati e  il clima generale di insicurezza e di precarietà che si respirava sull’isola.

Una buona notizia per i militi fu l’emanazione del decreto ministeriale che prevedeva l’incorporazione della Milizia nell’esercito italiano e la nomina di Quirino Armellini, Generale di Corpo d’Armata del Regio Esercito, a nuovo comandante della Milizia riformata.

Il 10 agosto, il nuovo Comandante ordinò ai reparti della Milizia di sostituire la camicia nera con quella grigio-verde dell’Esercito e di appuntare sul bavero dell’uniforme le stellette al posto dei fascetti littori.

Le nuove disposizioni rasserenarono il clima ed i militi in servizio a Ventotene, per puro opportunismo o per convinzione, si adeguarono di buon grado, perché l’incorporazione della Milizia nell’esercito veniva interpretata come un primo passo verso una sorta di riabilitazione delle Camicie Nere.

Eugenio, mentre osservava dal molo la partenza dei motovelieri stracarichi di confinati in festa, che inveivano contro il Duce, che cantavano di gioia e salutavano i compagni rimasti sull’isola, in attesa del loro turno, temeva un futuro pieno di incognite per sé e per l’Italia. La caduta di Mussolini avrebbe portato al potere tanti ex confinati. Si sarebbero vendicati indiscriminatamente contro tutti i fascisti o avrebbero saputo distinguere fra gli aguzzini e quelli che si erano arruolati per necessità?

Impaurito e disorientato, di fronte alle scene di giubilo dei confinati, Eugenio aveva soltanto il desiderio di salvare la pelle, di lasciare la Milizia, di ricongiungersi con il resto della famiglia e trovare un lavoro da borghese. Prima di poter rivedere Lucia, tuttavia, dovette penare ancora quattro settimane, fino al 9 settembre, giorno in cui riuscì a rientrare a Ponza con mezzi di fortuna.

In quei giorni convulsi della caduta del regime, molti militi vivevano nel terrore delle possibili rappresaglie da parte delle loro vittime. Per fortuna, né a Ponza né a Ventotene si registrarono episodi di violenza o di intolleranza nei confronti dei militi che si erano sposati con ragazze isolane, da parte dei confinati o delle popolazioni civili. Neppure a guerra finita, quando si consolidavano ovunque, nella penisola,l’antifascismo e il comunismo.

Eugenio e tanti altri suoi colleghi della Milizia, che avevano prestato servizio nella Polizia confinaria a Ponza e a Ventotene, appartenevano alla schiera di coloro che si erano arruolati per guadagnarsi il pane, senza convinzioni ideologiche. Questi, dopo il 25 luglio, senza tentennamenti, seppero ripudiare l’ideologia fascista per incamminarsi verso un percorso di impegno civile e democratico nell’Italia del dopoguerra.

I pochi fascisti convinti, invece, fuggirono dalle isole di confino diretti in alta Italia, per aderire alla Repubblica Sociale di Salò, per sempre fedeli al Duce del fascismo.

Antonio Usai


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