Nardacci Gabriella

A malapena si vede, Ponza… (3)


di Gabriella Nardacci

Cara zia, eccomi

non è stato possibile connettermi sul traghetto, ma per la verità, non avevo nessuna voglia di connettermi con nessuno. Sentivo un nodo in gola, più stretto di quello che fanno i marinai. Avevo nella testa solo l’immagine di te che mi salutavi e l’immagine di un’isola solitaria e triste che m’aspettava.

Eravamo in pochi sul traghetto: un signore sulla settantina che tossiva di continuo e che, per questo, si è scusato ripetutamente. Ha detto che a Roma, quella tosse non lo faceva dormire e che invece a Ponza gli passava: – Di certo mi faranno male le ossa sull’isola, ma meglio quei dolori là, che ’sta tosse maledetta che disturba tutti…”.

Altri due passeggeri si sono sentiti in dovere di spiegare anche loro il motivo del viaggio. Io non avevo voglia di parlare e mi rendevo conto che la tosse di quel signore romano disturbava proprio tanto; sarebbe stato difficile addentrarsi in qualsiasi conversazione. Una signora con i capelli corti, pettinati all’indietro e con una ciocca che le ricadeva sulla fronte in un’onda – siamo in tema: sul mare…, ho pensato – si muoveva di continuo; a volte si alzava, altre volte guardava alcuni quotidiani che portava disordinatamente in mano, altre volte sistemava una borsa che era così gonfia di cose, da dare l’impressione di un airbag pronta ad aprirsi al minimo schiacciamento.

Ho provato a leggere qualche pagina del libro che mi hai regalato tu: ‘Scritto sul corpo’ della Winterson ma di quelle – si e no quattro pagine lette – non ho capito nulla; come non mi ricordo di aver prestato attenzione alle parole, che tra un colpo e l’altro di tosse del signore  romano, si sono scambiate le altre ‘anime’ che come me venivano ‘traghettate’ sull’isola.

Quella signora che ha circa la tua età, però, si è alzata e sorridendomi è venuta a sedersi accanto a me. Indossava un impermeabile beige con le spalline stile anni ’80 e un paio di scarpe alte fino alla caviglia. Mi è sembrata stranamente elegante in quegli abiti fuori moda. Ho sentito il suo braccio accostarsi al mio e mi sono addormentata. Mi sono  svegliata per i suoi buffetti sulla mie guance. Solo aprendo gli occhi mi sono resa conto di essermi addormentata sulla sua spalla. Le ho chiesto scusa e lei mi ha sorriso di nuovo. Il traghetto si accostava al porto che tra lucciconi e luci si specchiava nel mare tremolante e pudico di un sabato pomeriggio che volgeva alla sera in un novembre senza foglie.

La mancanza di te, del paese, di quella specie di uomo che non è venuto neanche a salutarmi  – Mica vai in America…, ha detto – era più forte che mai.

Insieme alla signora d’altri tempi siamo uscite fuori, mentre la nave si avvicinava all’isola. Su uno sperone di roccia bianca, sulla sinistra, ho visto delle casette colorate. Le ho indicate alla mia accompagnatrice e lei mi ha detto che quello è il cimitero dell’isola.

–  Il cimitero?

Poi siamo scesi tutti, e come gli ultimi fedeli di una lunga processione, ci siamo dissolti tra scale e salite. E’ stato naturale salutarci con la mano e con un sorriso. Quella signora che mi ha fatto da  mamma, in viaggio, si è allontanata prima degli altri. Mi sono girata per salutarla da lontano e lanciarle un bacio con la mano.

Giuseppe era lì. Le mani nelle tasche di un giaccone doppio petto blu, berretto di lana calato fin sugli occhi. Mi è venuto incontro con un sorriso dove i denti apparivano di un bianco perlato sul viso ancora abbronzato. Mi ha stretto la mano così energicamente che mi sono tornate in mente le parole di zio: “Lì so’ forti e sanguigni…”. Ha preso i miei bagagli e ci siamo incamminati verso casa sua.

Abbiamo fatto la strada in silenzio. Ogni tanto comunicava con me sorridendomi  e controllava che gli stessi sempre accanto. Era come se si sentisse orgoglioso di dimostrarsi padrone e conoscitore dell’isola.

Quando siamo entrati in casa, un buon odore di pesce mi ha subito fatto percepire il vuoto del mio stomaco. Ines, la moglie di Giuseppe, mi è venuta incontro e mi ha baciata, conducendomi accanto alla stufa in ghisa. Sui cerchi concentrici della stufa, bolliva la zuppa di pesce e una padella con dell’olio era pronta per la frittura di paranza – Te piace ’a frittura… si??

Ma la paranza non è una danza che ebbe origine nell’isola di Ponza, come canta Daniele Silvestri??

Ho una fame che mangerei pure la balena di Pinocchio! – rispondo, suscitando l’ilarità di Giuseppe e Ines.

Avrò mangiato così voracemente  da sembrare uno ‘scaricatore di porto’ – mi vengono in mente modi di dire attinenti al mare – tanto che ora, a ripensarci me ne vergogno.

La casa di Giuseppe è piccola e su due livelli. La cucina è a pianterreno e funge pure da camera di pranzo. Un grande tavolo è al centro della stanza e sulla parete dove appoggiano una credenza grande e una madia, c’è pure una piattaia dove Ines, tiene bellissimi piatti grandi e pesanti con fiori stilizzati e bicchieri di ogni tipo.  Nella parete di fronte c’è una bella stufa in ghisa e accanto, in muratura e rivestita di maioliche bianche-blu-giallino, tutta la parte ‘cucina’, per la cottura dei cibi e il lavaggio delle stoviglie. Due grossi ripiani in legno massiccio sulla parete, contengono barattoli riempiti di ogni ben di Dio. Capisco che Ines e Giuseppe amano ospitare amici e parenti e la loro casa lo dimostra.

Ho tirato fuori le salsicce. Giuseppe ha ringraziato e ha detto ogni bene di zio e che è il migliore amico che abbia avuto mai. Poi si è messo dietro i vetri della finestra a guardar fuori e mi è sembrato misterioso, solo, terribilmente inquieto e con il pensiero altrove.

Ines ha capito che avevo voglia di rimanere sola e mi ha accompagnato al piano di sopra dov’è anche la mia stanza. Ho dato la buonanotte a Giuseppe che mi ha  risposto a mezza voce, chiuso nel suo mistero…

Ines  ha notato la mia gioia nel vedere la stanza  e poi mi ha confidato che non ha figli: – Nun so’ venùt’… – Io le ho risposto che non ho conosciuto i genitori e ho aggiunto – La vita non è tenera con nessuno, cara Ines …- Mi dà un bacio e la buonanotte.

Ora eccomi qui cara zietta, seduta su questo lettone morbido con il mio caro pc sulle ginocchia. E’ una stanza grande e tutta colorata. Sono su un prato pieno di fiori e tra poco il sonno mi prenderà tra le sue braccia.

Voglio evitare di aprire la finestra ora che è buio. So che scoppierei a piangere. Domani mattina, alla luce del sole, Ponza avrà un abito a colori e forse le sorriderò.

Rispondimi subito zietta cara. Ho freddo e voglio il tuo abbraccio.

Tua Giulia.

Ponza ore 23.10

Finisco di leggere la lunga e-mail di Giulia, ma è troppo tardi per rispondere a lungo come lei si aspetta che io faccia. Le invio un SMS per tranquillizzarla: “Ho ricevuto la tua e-mail. Ti risponderò quanto prima. Ti stringo forte. Sono contenta del calore che hai trovato in casa di Ines… Tanti baci”.

Avrei dovuto insistere per far partire la mia Giulia di mattina presto ma il sonno, per i giovani è sacro e farla svegliare presto significava assistere al suo malumore per tutta la giornata. Mi viene in mente un passo di ‘Le memorie di Adriano’ della Yourcenar in cui si parla del sonno puro e del risveglio puro che sono morte e resurrezione dei giovani.

Meglio la nostalgia che la rabbia… Del resto mi sento stanca anch’io. Nel viaggio di ritorno ho pensato a tante cose ma ho anche guardato fuori dal finestrino la bellezza del golfo di Gaeta che strizza l’occhio a queste isole che sono nella mente e nei miei occhi. Mi sono ricordata pure di una fotografia che m’inviò Massimo, qualche tempo fa, scattata da una barca lunga 18 metri. La ritrovo piegata in quattro tra le tessere del sindacato, del Metrebus e del supermercato. I segni della piegatura sono un difetto, ma si vede bene il porto di Ponza che pare abbia la forma di un abbraccio che avvolge.

Sono arrivata al paese che era quasi buio. Zio mi aspettava in piazza per portarmi a casa di mia madre. Nel passare in via della Circonvallazione, gli ho chiesto se poteva fermarsi un po’. Ci siamo affacciati su quella finestra naturale  e abbiamo guardato lontano, verso il mare. In silenzio ma con il rumore assordante di tanti pensieri nascosti; a ciascuno sconosciuti quelli dell’altro. Per un momento ho pensato fosse sulla mia lunghezza d’onda.

Gli ho chiesto: – Si vede il porto di Ponza da qui, vero zio?

Lui si è girato e guardandomi curioso mi ha risposto: – Senti, bella de zio, a ti Ponza te sta a dà n’capo. E’ megli che te ne vai a Roma…  Stasera doppo, ’nse vede ’n’cazzo…! Namo che mammeta t’aspetta…

Saliamo in macchina e io rido quasi sguaiatamente dell’espressione colorita che ha usato e lui ride della mia risata.

– Aho’ ma mica me stai a diventa’ ’na visionaria? – mi dice e io gli rispondo: – Ma io sono una visionaria. Una visionaria alla finestra…

Rido ancora. So io cosa voglio intendere.

Arrivati sotto casa di mia madre, mentre scendo dalla macchina lo sento dire piano: – Le femmene… ma chi l’ha mmai capita ’sta razza..!

Gabriella Nardacci

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