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Memorie di Amalie (1)

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MEMORIE DI AMALIE – di Rita Bosso

recensito da Anna Di Meglio Copertino

Ha una veste grafico-editoriale indovinata questo romanzo, “Memorie di Amalie. Ponza 1734-1868”.
La copertina morbida, umile, dal colore opaco, come stesovi dal tempo. Una vecchia foto di una vecchia bambina sorridente. Le barche, sullo sfondo, di chi parte per andare e di chi invece solo per poter tornare. La ringhiera, limite e raccordo tra  una dimensione intima, interna ed una esterna. E le pagine, numerate come per mano di una alunna diligente, con la cifra in lettere, per esteso.
Essa sintetizza del romanzo gli elementi essenziali: il diario, la voce femminile, l’isola, il viaggio, il tempo.
In apertura “Ponza,1961”, luogo e data, come in ogni diario che si rispetti, forma intima, in stile minore, di colloquio, soprattutto con se stessi.
Spiazzante, invece, la parola “Fine” posta all’inizio: Inizio-fine a suggerire un cerchio: Amalia, l’inizio, Amalia, la fine; Aniello, lo sposo della prima scrivente, più antica, Aniello, quello della più moderna.
Il “viaggio”, viaggio di emigranti, ma anche e soprattutto viaggio interiore, si conclude, per poter – in realtà – andare avanti, per poter emanciparsi, per potersi accettare, sgravandosi di sé.
C’è voluto il passato, come in ogni autoanalisi, per assumere il distacco, c’è voluta l’esperienza: la propria, seminata nel vento del tempo, per legittimare la crescita; e quella delle altre donne, seminata, anch’essa, dentro di LEI, intesa come un’unica protagonista, dalle voci corali dell’infanzia e dell’isola, a creare un’identità individuale e collettiva.
Fine, dunque, dell’eredità, dell’aiuto, del supporto rappresentato per ogni nuova Amalia dall’Amalia precedente.
Perché, infatti, le Amalie scrivono?
L’ idea non nasce dalle scriventi, bensì dalla prima, analfabeta, umile e regina, che ravvisa nella scrittura il riscatto necessario per la sua discendenza, la più preziosa delle eredità che mai ella possa lasciare.
E le altre avvertono quasi la necessità di rispettare la consegna, come per gratitudine verso quella prima scintilla di consapevolezza. Quella scintilla che è libertà, vera, perché interiore, tale, dunque, in ogni epoca.
Passa attraverso la parola, la quale nomina, riordina il caos, prefigura, crea, sancisce, suggella. Regna nel testo una composta armonia tra i suoi elementi ovvero, come dicevamo, l’intimità del diario, la voce narrante in prima persona, voce al femminile, l’incanto dell’isola, focolare e limite, il coincidere della fine con un nuovo inizio: la nascita di una nuova creatura, che pone fine alla necessità del rito, della confessione e dell’autoanalisi.
La prossima creatura, “se nasce femmina”, viene liberata dal suo stesso nome, “Daniela”, privo di debiti verso le Amalie, tutte legate, invece, da una sorta di catena di Sant’Antonio, che nessuna ha osato spezzare e nemmeno lo ha voluto.
E la fine della catena giace lì, in apertura, sul tavolo della cucina, dove forse il caffè dà la forza a Ciccillo di dire ad Amalia, sua madre, che non ci sarà un’altra col suo nome.
Così questa Amalia, l’ultima, la più vicina ai nostri tempi, a tale notizia, prende commiato dal diario, il quaderno, scrivendovi solo una breve conclusione, che diventa introduzione, perché inserita in quelle pagine iniziali, lasciate in bianco dalla Amalia più antica, per un oscuro senso, quasi, di preveggenza.
Mentre il tempo si arrotola su se stesso, anche i luoghi si impastano senza tanti complimenti (Ischia, Ponza, Ventotene, Santo Stefano, Napoli…); i toponimi nel romanzo non mancano di certo, a sottolineare il vissuto, la concretezza, la realtà.
L’apparente “insostenibile leggerezza del fare” nasce forse dalla consapevolezza pacata della comunanza, nel tempo, degli eventi umani fondamentali.
Essa è, inoltre, inoculata dai tempi più lenti e dilatati del vivere l’isolanità, in una dimensione periferica dello spazio, che ricama  la stessa  perifericità agli orli del tempo, slabbrandoli e realizzandovi pieghe di, sia pur solo parziale, a – storicità.
Così la narrazione può procedere a scarti, avanti e indietro nel tempo, per anticipazioni e recuperi in flash back, in cui l’elementare propensione alla fabula del narrato quotidiano tipica del diario viene alterata e complicata dall’intermittenza dei lumi del ricordo, dai capricci della personalità.

L’opera, dunque, si prefigura, principalmente, come viaggio interiore; tuttavia anche di altri viaggi vi si dà conto: di popolani, costretti dalla fame ad andar via; di giovani uomini che partono richiamati alle armi; di altri il cui lavoro trascina via, di luogo in luogo, di esperienza in esperienza; di coatti, qui, dialettalmente, “quatti”, criminali e prigionieri politici relegati a Ponza, come a Ventotene, sul Castello d’Ischia o nel carcere di Procida, a Santo Stefano, ricordata, quest’ultima, con sdegno per la disumanità delle sue prigioni.
Ed è in merito a questi e ad altri aspetti di carattere socio-economico o culturale, in senso più ampio, ad innovazioni introdotte e ad angherie perpetrate che la grande STORIA entra ad affacciarsi, spesso prepotente ed incomprensibile, nelle vite degli umili.

Il lungo e contorto serpente temporale che si annida in queste pagine scivola e si arrotola lungo il perimetro delle isole, DELL’ ISOLA: fra Ischia e Ponza, infatti, la scelta focale cade sulla seconda.
Ischia nel romanzo è la partenza, Ponza è l’approdo.
Le bellezze della prima, quelle suggestive del Castello aragonese, degli Scogli di Sant’Anna, di Lacco, del Bosco di Zaro, della spiaggia di San Francesco sono accennate a fior di labbra, come un sogno smarrito, e quasi sigillate da un “Si, ma…”, che sposta l’attenzione su altre plaghe, quelle di Ponza, appunto, affollate di toponimi, vegetazione, percorsi, come il meraviglioso, dominante scenario del Porto, di cui si celebra il primato.
Davvero seducenti, le descrizioni del paesaggio scandiscono intimamente le vite degli abitanti e delle protagoniste della storia.
E, a proposito di protagoniste, la prima Amalia a conquistare con la scrittura l’arma dell’analisi e della memoria deve, come si accennava, tale vittoria alla caparbia volontà della Nonna, scritta con la maiuscola, personaggio quasi mitico, guaritrice, misteriosa, con le erbe, e concreta donna raziocinante, più pagana – per questo e l’altro motivo – che cristiana.

A “fare” il romanzo, questo romanzo, è soprattutto il linguaggio; ne crea la gradevolezza, producendo un afflato di familiarità nel lettore, tale da assorbirlo delicatamente al suo interno.
E’ un linguaggio per lo più moderato, alitante, rapido, sobrio, spesso lapidario; naturale – a tratti – e tiepido, come il focolare o il sole delle marine; entra ed esce dal discorso diretto senza troppi affaticamenti (anche se nel dialogo perde alquanto in disinvoltura).
E’ comprensibile a tutti, ma intarsiato di coloriture locali e di innesti dialettali, di termini ed espressioni lavorati, masticati, insalivati, unti, venati, sedimentati, affilati dalla tradizione.

Letto il libro di Rita (libro di un’amica, quindi letto con affetto, cautela, sorpresa e … diffidenza), le inviai un SMS con alcuni versi di Saba:

“O mio cuore
dal nascere in due scisso
quante pene durai per uno farne!
Quante rose a nascondere un abisso.”

Se vi consiglio di leggere “Memorie di Amalie”, è perché mi è parso che, tra le sue pagine, sia dato trovare qualche petalo di tali Rose.

MEMORIE di AMALIE (Euro 15) si acquista a Ponza presso: libreria Il Brigantino, Tabaccheria D’Atri, Edicola ‘Ricciolino’, oppure on-line (senza costi di spedizione aggiuntivi) all’indirizzo:
http://www.edizionidemian.it/app/coll-01.asp?id=3136&param=3136 [2]

A seguire, l’opinione  di una lettrice  – Maristella da Roma – che telefona le sue impressioni sul libro alla trasmissione Fahrenheit di Radio3  e viene mandata in onda nella puntata del 26/10/ 2010. Aprire  –> You book – 26.10.2010 [3]