Confino Politico

Le Donne Ponzesi nel “ventennio”

di   Gennaro  Di Fazio

Tra tanti, vissuti a Ponza nel periodo del confino politico, è doveroso effettuare una rievocazione particolare  ad alcune donne ponzesi che si sono contraddistinte per i loro valori profondi, le loro azioni coraggiose  e i loro grandi amori per i confinati.

Le storie che racconteremo sono state attinte principalmente  dai libri di Silverio Corvsieri ma altro è stato recuperato  da ricerche di Gino Usai e da racconti di persone ancora viventi che hanno vissuto quel periodo o da notizie trasmesse dai loro genitori e/o parenti.

I matrimoni tra ragazze ponzesi e confinati, in quel periodo in cui esisteva una popolazione di circa 6000 persone, furono almeno 25 nel giro di pochi anni, per non parlare poi delle numerose storie d’amore che non giunsero a buon fine.

Tale ostinazione delle donne ponzesi,  ad innamorasi e a sposarsi con i confinati che il regime definiva “ANTINAZIONALI”, era diventata ormai una vera e propria sfida al regime, mentre il giudizio delle autorità sulle donne ponzesi era quanto di più offensivo e maschilista ci possa essere

Quando nel 1930,

a seguito di stupri compiuti da militi fascisti si ebbe una vivace reazione da parte dei numerosissimi Ponzesi emigrati negli Stati Uniti d’America, i carabinieri e la polizia, da inchieste dichiarate  fatte, asserirono che non era accaduto nulla di grave e quel poco che era accaduto era da addebitarsi alla licenziosità delle donne Ponzesi e dei loro “facili costumi” così come si legge dai resoconti dell’epoca.

Sempre dai resoconti dell’epoca  si legge:

“Non risulta che militi ed agenti disturbino le donne, anzi risulta che costoro provochino, con la loro sfacciataggine, gli uomini”

Nel 1933

per cercare di distogliere i contatti tra le donne Ponzesi ed i confinati la direzione della colonia, in concomitanza con direttive del ministero degli interni sempre più severe e punitive, impose nuove restrizioni sulle corrispondenze limitandole ai soli parenti

Nel 1934

Sempre per distogliere tali contatti, da un giorno all’altro fu emanata anche una circolare che imponeva l’abbandono delle stanze affittate.

Nel febbraio del 1935

ci fu una manifestazione di protesta dove parteciparono anche le mogli di alcuni confinati, tra cui numerose donne Ponzesi.

Furono aggredite in modo violento dai poliziotti e dai fascisti

La moglie di Giorgio Amendola, la francese Germaine Lecoq,

che era incinta, fu salvata soltanto dal sacrificio dalla Ponzese Maria Migliaccio, moglie del confinato Mario Monti, che si lanciò a difenderla con il suo corpo prendendosi calci e  pugni.

Tutti i confinati che avevano partecipato alla lotta furono arrestati  e incatenati a due a due  per essere portati al carcere di Poggioreale di Napoli

 

“Era di inverno le condizioni del mare proibitive; il freddo, la pioggia e le onde invadevano il ponte dove i confinati, incatenati, erano obbligati a stare. Nel momento più drammatico del viaggio, il comandante dette ordine di indossare i salvagenti e di prepararsi a calare le scialuppe di salvataggio.

Neanche allora i carabinieri tolsero loro le manette.

A Ponza

La cosiddetta  “POLITICA ANTIAMOROSA”

passava attraverso 3 stadi

1)

All’inizio

si convocavano i genitori ed altri parenti delle ragazze affinché intervenissero per spezzare il fidanzamento. In caso contrario sarebbero andati incontro a guai fino all’inclusione nelle file dei nemici da perseguire.

2)

Successivamente,

se la prima fase non giungeva a compimento, si provvedeva all’ammonimento della malcapitata rendendole praticamente la vita impossibile.

3)

Alla fine,

se anche il 2° stadio non aveva successo, si trasferiva il fidanzato confinato e l’obbligo per la donna di andare a vivere, in continente, dai suoceri, che spesso erano anche poveri.

Per la drammaticità delle loro vite vissute, iniziamo  con l’amore tra Rita Parisi e Mario Magri

Rita Parisi,

rimasta orfana di entrambi e genitori, era ospitata nella casa di un suo zio prete da dove usciva soltanto per andare in chiesa o raramente per altre occasioni.

All’improvviso entrò nella sua vita Mario Magri, di cui Umberto Terracini scrisse:”Spirava da tutta la sua persona un senso di forza serena ma indomabile”

Quando fu scoperto l’idillio tra loro due, Mari Magri fu trasferito d’urgenza a Lipari e Rita cacciata di casa dallo Zio Prete e obbligata a trovare un letto da una sua parente a Napoli.

Dopo l’8 settembre 1943,

Mario e Rita decisero di partecipare alla resistenza e si trasferirono a Roma con documenti falsi.

Il 26 gennaio 1944,

Rita attese invano il ritorno a casa dl suo Mario che era stato arrestato dai tedeschi insieme a Placido Martini.

Dopo alcuni giorni, Rita venne a saper che i Tedeschi avevano scoperto la vera identità di Mario Magri.

Quando Rita andò al carcere di via Tasso per consegnare la biancheria pulita e ritirare quella sporca, si avvide che gli indumenti di Mario erano intrisi di sangue ed in mezzo ad essi si trovavano gli occhiali con le lenti spaccate.

Il 24 marzo 1944,

Rita si recò di nuovo in via Tasso per il settimanale cambio di biancheria, ma quel giorno il pacco non fu accettato e le dissero di passare il giorno successivo; intanto in quelle ore i nazisti stavano organizzando le strage delle fosse ardeatine dove furono uccisi 355 italiani per vendicare i 32 militari tedeschi morti il giorno prima nell’attentato di via Rasella.

Rita seppe delle morte dei Mario quasi un mese dopo con la seguente dicitura:

“Mario Magri è morto il 24 marzo 1944. Gli oggetti di uso personale rimasti possono essere rilevati presso questo ufficio della polizia di sicurezza in via Tasso 15”.

Pubblichiamo di seguito una lettera di Mario Magri di quando egli era sull’isola nel periodo 1928 –‘29

“A Ponza i militi erano i padroni indisturbati. I carabinieri e gli agenti chiudevano tutti e due gli occhi per non vedere. Gli arbitrii e gli atti di violenza commessi in quell’epoca sono innumerevoli. Non si era mai sicuri di non essere arrestati e di non finire in infermeria con le ossa rotte. Tutti i muri del paese erano piene di scritte minacciose ed oscene. I militi, quasi sempre abbigliati mezzo in borghese e mezzo in divisa, armati di scudiscio, scorazzavano nel paese bevendo, cantando, bastonando e arrestando i confinati senza la minima ragione e lasciando debiti in tutti i negozi. Avevano persino creato tra loro una piccola associazione a delinquere per svaligiare le case degli isolani.”

Pubblichiamo adesso un’altra lettera, di diverso contenuto ed emotività:

è la lettera di un padre ad una figlia.

Mia cara piccola,

se non tornassi, sappi che sono morto per la libertà del popolo italiano e per la vittoria dei lavoratori di tutto il mondo. Ricordati, e ripensaci quando avrai più anni, che la mamma ed io abbiamo sempre lottato pensando a te; per assicurarti un domani senza fame, senza oppressione e senza guerre. Per evitare a te le umiliazioni che ha subito invita la mamma da parte dei fascisti e della polizia.

La tua povera mamma è stata una martire. Io ho fatto meno del  mio dovere e sono stato spesso inferiore al mio compito; la mamma invece ha fatto molto di più di quello che ci si aspettava da lei.

Venera la sua memoria. Ti ha voluto molto bene.

L’uomo che scrisse questa lettera –testamento, qualche mese prima di morire in combattimento, era il comunista Carlo Fabbri.

La lettera era indirizzata alla figlia Teresa.

La mamma di cui si parla era la ponzese Giuseppina Bosso, la quale dopo infiniti patimenti e soprusi, morì nel tentativo di dare alla luce un’altra figlia.

Carlo Fabbri

Pubblicista tipografo, era stato arrestato nel 1931 per aver progettato, badate, solo per aver progettato, la preparazione e la diffusione di un manifesto propaganda.

Passo la sua vita tra arresti e confino

Morì suicida ingoiando la dose mortale del veleno che portava sempre con sé pur di non essere catturato dai fascisti di salò con il rischio di non farcela e danneggiare così la resistenza.

 

Maria Bosso,

sorella di Giuseppina, sposò il confinato Silvio Campanile.

Cadde in una retata provoca tata da alcuni infiltrati, rinchiuso in una cella di via Tasso, ripetutamente torturato, trovò la forza di resistere.

Fu ucciso nelle fosse ardeatine.

Antonio Scotti, un marinaio ponzese, disse di aver visto Maria piangere a dirotto e baciare la biancheria insanguinata di suo marito

 

Maria Vitiello,

sorella maggiore del sindaco Mario Vitiello ( sindaco di Ponza negli anni ’70)

fu considerata “La prima partigiana d’Italia”.

Sposò il confinato Giambattista Canepa detto: Il comandante “Marzo”

Vissero momenti molto difficili a causa delle continue vessazioni dei fascisti e della polizia.

Riportiamo alcuni brani di lettere di Maria Vitiello:

“…….i miei parenti non hanno preso parte al matrimonio”

“……di notte i fascisti venivano a controllare a tutte le ore”

 

Elena Vitiello,

sorella di Maria, sposò Cencio Baldazzi, considerato personaggio straordinario dell’antifascismo italiano.

Tra Elena e Cencio ci fu un tormentato fidanzamento durato 13 anni di cui 9 vissuti senza contatti.

Elena dovette lasciare l’isola di Ponza dove era continuamente derisa e disturbata dai militi fascisti

Baldazzi alternò brevissimi periodi di “libertà vigilata”con condanne al carcere e al confino.

Si sposarono soltanto dopo la seconda guerra mondiale.

 

Libera Scarpati,

aveva solo 20 anni quando si innamorò del comunista Vittorio Zovich, considerato slavofilo

nel 1935,

a seguito di un duro pestaggio da parte dei fascisti, fece denuncia al ministero degli interni il quale però interpretò tale esposto come una sfida al regime, per cui ella si trovò presto a subire le negative conseguenze.

Nel 1936

Libera mise al mondo un figlio quando ormai il marito Zovich era stato trasferito alle Tremiti.

Si rivolse al Ministero dell’Interno per ottenere un sussidio che l’aiutasse a vivere, ma la risposta fu negativa

Nel dopo guerra entrambi emigrarono in America.

 

Civita Migliaccio

Il solo fidanzamento con il repubblicano Giobbe Giopp, costò, per colpirla trasversalmente, il licenziamento di suo fratello Gaetano, allora vice.protore a Ponza.

Sposò successivamente Luigi (Gino) Vittorio, uno dei protagonisti delle famose “quattro giornate di Napoli”, l’insurrezione popolare antitedesca.

 

Maria Migliaccio,

figlia di pescatori, detta “Marì o’ sole” (bella come il sole)

era solo fidanzata con l’operaio comunista Mario Monti, che fu subito ammonita.

Si sposarono nel 1936

Nel 1937

Mario fu trasferito a Ustica dove si venne a trovare in mezzo a confinati “comuni” spesso reclutati nei bassifondi della società che ben si prestavano a pestaggi ad antifascisti.

Maria rimasta solo a Ponza, incinta e povera, tentò invano di raggiungere Mario a Ustica.

Il vendicativo capo ella polizia, Bocchini, rifiutò l’autorizzazione anche se accolse la richiesta, partita dal prefetto di Littoria, di concedere alla donna un sussidio in relazione alle “pietose condizioni economiche” in cui versava Maria.

Per sopravvivere la donna fu costretta a chiedere ai suoceri milanesi, anch’essi poveri ( lui manovale e lei portinaia ), di ospitarla insieme alla bambina.

Nel 1940,

dopo 10 anni vissuti tra carcere e confino, Mario la  raggiunse a Milano

Il 17 settembre 1944,

Mario fu arrestato dai fascisti e consegnato ai tedeschi che lo deportarono nel campo di concentramento di Dachau dove fu azzannato da un cane lupo che una SS gli aveva aizzato contro.

Le ferite non curate gli procurarono danni gravissimi; ricevette la terapia antirabbica dai Francesi solo dopo la liberazione.

Durante tutto il dopo guerra tentò invano di far riconoscere il suo stato di deportato.

Morì nel 1957 a soli 49 anni

2 anni dopo la sua morte  alla moglie Maria pervenne una lettera dalla  Presidenza del consiglio dei Ministri:

Da accertamenti esperiti, nulla risulta circa l’asserita deportazione in Germania nel 1944”

Anche perché gli atti di ufficio della questura e delle carceri di Milano andarono parzialmente distrutti a causa dei noti eventi bellici

 

Carolina Guarino,

sposò Antonio Camporese oparaio comunista di Padova

La ragazza, nonostante avesse determinato grande scandolo per l’epoca per essere andata a vivere con il suo Antonio, fu protetta e aiutata dalla sorella maggiore, Margherita. La vicenda suscitò molto sconcerto tra i parenti e conoscenti e gran timore nella madre e nei fratelli per le conseguenze che si potevano arrecare alle loro condizioni visto oltretutto che uno dei fratelli era avviato ad una prestigiosa carriera militare.

Per le continue vessazioni che le arrecavano, Carolina si ammalò di ansia.

Inoltre  vessazioni di ogni tipo  i fascisti le infliggevano anche alla mamma che gestiva un negozio di alimentari.

Alla fine del 1939,

Carolina raggiunse Antonio a Padova

Camporese fu uciso dai tedeschi il 28 aprile 1945, il giorno della liberazione di Padova, precisamente a Porta Savonarola.

Su un muro della vecchia cinta mediovale campeggia una lapide con il suo nome e quello di altri 3 martiri

Sempre a Padova gli è stata intitolata una strada ed un circolo ricreativo presso la Casa del Popolo

 

Silvia Vitiello,

si innamorò del comunista Walter Busi

Detta situazione suscitò una tale collera dal fratello Filippo il quale, in un esposto al Ministero degli Interni annunciava:”che non avrebbe mai permesso che il nome suo e quello della famiglia venisse infangato con quello di un rinnegato della Patria”, precisando inoltre “di essere deciso a vendicare col sangue una simile vergogna”.

Il 18 novembre 1944

Busi fu catturato a Bologna dai brigatisti neri, fu torturato e poi fucilato

Aveva solo 37 anni, di cui 19 vissuti tra carceri e isole di confino

A guerra finita, Sila si trovò a Bologna, insieme al figlio, senza casa e senza lavoro.

Fu l’allora sindaco di Bologna, Dozza, a farla sistemare in una casa requisita e la fece assumere come operaia alle manifatturiere tabacchi.

Nel 1955,

in pieno clima di”guerra fredda”,

di svalutazione del ruolo e del valore della Resistenza, un funzionario della questura scissa al Ministero dell’Interno quanto segue:

“Dagli atti in nostro possesso, non risulta la fucilazione di Busi da parte dei brigatisti neri….ma soltanto il riconoscimento del cadavere da parte del fratello”

Dovette intervenire di nuovo il sindaco Dozza per far riconoscere a Busi quello che era stato e a Silvia la pensione, la quale non volle più sposarsi.

 

Romilda Vitiello,

nata a Ponza, in via Montagnella, il 30 ottobre 1907, da Vitiello Salvatore, detto “A’ Pelosa” e da Giuseppina Feola.

Apre una modesta attività commerciale, una merceria, affittando un locale dalle sorelle Ortensia e Lucia Vitiello, le tabaccaie.

Successivamente, per problemi con il padre che si era risposato, si trasferisce a Ponza porto, affittando una camera nella casa di Vincenzo e Candida Bosso sulla Dragonara, dove si guadagna da vivere facendo la lavandaia e “la sarta dei confinati”, ricordata poi come tale.

Nel 1937,

sposa Pietro Ratti, nato a Torino l’11.11.1899, di professione giornalaio, iscritto al partito comunista.

Pietro viene arrestato il 14 febbraio 1934 e condannato al confino per 5 anni a Ponza.

Ripetutamente punito per rifiuto di sottostare all’imposizione del saluta fascista.

A causa del suo matrimonio con Romilda, viene trasferito prima a Ventotene e poi alle Tremiti.

Termina di scontare la pena nel dicembre 1939

Successivamente diviene partigiano in Valsusa.

Il 5 dicembre 1945 muore

Per una malattia non ben definita riportata dal confino.

Dal loro matrimonio nasce, il 5 dicembre 1937, Filippo, ancora vivente alla data di questa pubblicazione, dal quale ho ricevuto le notizie sopra riportate.

 

Anna Zecca

Sposò il 10 marzo 1936 Malgaretto  Mario

Rachele e Annamaria Coppa, sorelle

Sposarono 2 anarchici

Rachele sposò il tipografo Vincenzo  Capuana

Annamaria sposò l’operaio Giovanni Albertini

Ida Assunta Scarpati (ancora vivente alla data di questa pubblicazione) sposò Fantoni  Armando

Coppa Maria sposò   Callegari Nazareno

Di Meglio Silvia sposò   Pgliarini Girolamo

Cuono Teresa sposò   Sani Fioravanti Parigi

Mazzella  Anna sposò Mazzoncini Balilla

Migliaccio Maria sposò Fossi Alfonso

Petroni Antonietta sposò Visintini Giuseppe

Romano Anna sposò  Di Pascali  Italo  ( c’è  dubbio sul loro matrimonio)

Romano Pompea sposò Barca Giacomo

Vitiello Lucia sposò Zanichello Bruno

Vitiello Triestina sposò Baldassarri Eugenio

 

Ricordiamo adesso un’altra donna,

non certo per qualche suo amore o matrimonio con i confinati, ma sicuramente per il suo valore e il suo coraggio:

Maria Picicco (Anna Maria Mazzella da signorina)

detta “la madre dei confinati”

Maria Picicco

vedova e con due figli, negli anni ‘30 faceva la sarta per portare avanti la famiglia.

Abitava in Via Canalone, e quando giunsero i confinati a Ponza, Maria diede loro in affitto alcune stanze della sua abitazione.

Ben presto divenne un punto di riferimento per i confinati politici, che si rivolgevano a lei per ogni tipo di soccorso, e Maria non faceva mancare il suo discreto e silenzioso aiuto.

Presso di lei si rifugiarono Terracini, Bonfantini, Woditzka e tanti altri

Ma il regolamento confinario proibiva ai ponzesi di avere rapporti coi confinati, e Maria, sospettata di proteggere e favorire i confinati, venne punita con l’ammonizione.

Quando Pietro Nenni venne confinato a Ponza, nel giugno del 1943, Maria lo ospitò in casa sua.

Nenni era stato arrestato a Parigi dalla Gestapo e successivamente consegnato alla polizia fascista che lo richiuse nel carcere di Regina Coeli.

Era in pessime condizioni, stanco e malnutrito. I suoi vestiti erano sporchi e pieni di pidocchi; Maria glieli lavò nell’acqua bollente, facendogli, intanto, indossare i panni di suoi figlio Silverio, in guerra a Tobruk. Era un po’ buffo, perché la taglia di Silverio era minuta e i panni gli stavano stretti.

Nenni resterà riconoscente per sempre e avrà per Maria un ricordo e un affetto speciali.

 

Nel settembre 1934,

Pertini, dopo aver passato già 9 anni di carcere, viene trasferito a Ponza.

Qui conosce Giuseppina Mazzella (ancora vivente alla data di questa pubblicazione)  con la quale, dal ’37 al ’39, ci fu una storia d’amore:

ma più di sguardi e di lettere che di incontri.

La messaggera del loro amore era Gelsomina Mazzella, (la madre dei fratelli Mario e Antonio Balzano, entrambi sindaci in Ponza negli anni passati)

la quale riceveva da Pertini,  come regalo della missiva, qualche caramella e/o cioccolata.

Le ristrettezze economiche e alimentari dell’epoca inducevano a volte  Gelsomina a recarsi spontaneamente da Pertini nella speranza di portare qualche lettera a Giuseppina ed avere in cambio il desiderato e guadagnato compenso dolciario.

Ma ben presto Giuseppina  si trovò nel mirino della polizia e con lei anche il padre, al quale, con ogni pretesto, veniva bloccata la barca con la quale si guadagnava da vivere.

L’uomo tentò di distogliere la figlia, ma inutilmente

Nel 1939,

per l’immediata chiusura della colonia ponzese, Pertini, come tutti i confinati considerati “estremamente pericolosi”, fu incatenato ai suoi compagni e trasportato a Ventotene.

Giuseppina Mazzella,

sconvolta ed in lacrime, ascoltò la frase che non avrebbe mai più dimenticata:

“non preoccuparti, io tornerò, tu aspettami”.

Ma nel clima incandescente della lotta partigiana, Pertini conobbe la futura moglie Carla.

Giuseppina invece si sposò con un ponzese a New York dove visse ed ebbe un figlio.

Nei primi anni ‘70

Giuseppina tornò in Italia per una vacanza.

Le avevano detto che Pertini era diventato molto importante, era allora Presidente della Camera.

Giuseppina lo volle vedere e Pertini la ricevette nel suo ufficio di Montecitorio.

 

“Sandro io ti ho sempre aspettato ma tu perché non sei venuto ?”

Il presidente rimase senza parole, poi l’abbracciò.

 

httpv://www.youtube.com/watch?v=geryA5xCuQo

 

 

 

 

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