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A malapena si vede, Ponza (1)

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A malapena si vede, Ponza

di Gabriella Nardacci

Davanti al bar, dopo la partita a carte e la birra, nel salutare gli amici, mio zio diceva: – Dimane vaglio a Ponza e me tenghe da arizzà lest’…Ci vedimo addomani sera doppo cena… Poi, nel raccontare il suo lavoro di guardia provinciale, parlava di alcuni abitanti dell’isola e di certe turiste con i cappelli a falde larghe, e di barche lunghe tanti metri ferme al largo e di pescatori amici suoi…

E raccontava in un modo da lasciare la sensazione che quell’isola facesse parte di lui e che l’amasse come si poteva amare una donna. Ne parlava guardando avanti a sé, con lo sguardo fisso in un punto non definito, imbambolato e perso come nel ricordo di un bacio rubato.

Adolescente allora, persa nelle versioni di latino e negli interrogativi di Socrate e Platone circa l’Idea della bellezza, quello sguardo imbambolato di mio zio mi eccitava la fantasia e spingeva la curiosità a conoscere con i miei occhi, le cose che lui raccontava agli amici del bar, sempre chini invece a guardar la terra e a zappare orti.

Mi piaceva pensarmi come una giovane turista in perlustrazione dell’isola, con abitini a fiori scollatissimi e a piedi nudi, con  la borsetta di paglia a secchiello ai cui manici era legato un foulard e con i sandali in mano. M’immaginavo affacciata alla finestra della camera d’albergo, di mattina presto per vedere accendersi il porto e tutt’intorno, grazie al sole che faceva capolino da dietro i monti e poi, alla sera,  vedere il sole arancione e accecante tuffarsi nel mare e annerire le case e i profili della costa… E l’accendersi delle stelle e la luna gialla e tonda che si rifletteva e illuminava in modo sfocato quelle ‘’barche lunghe metri” che apparivano come fantasmi al largo.

Nella mia fantasia immaginavo che sull’isola di Ponza tutto poteva essere e che il Tirreno e l’Adriatico si fondessero insieme con tutti gli altri mari in modo da vedere ovunque albe e tramonti.

Una volta mio zio, nel terminare la descrizione di un pranzo a base di pesce, consumato nel ristorante del suo amico dell’isola, disse: – Ce stanno certe matine, quando ancora la gente sta a ddormì, che sentu gli soni che venno da giù, da gliu portuE poi declamando con una certa solennità: – “…A volte una vela. Alte, alte, stelle. 

O la croce nera di una nave.
 Solo. 
A volte albeggio, ed è umida persino la mia anima.
 Suona, risuona il mare lontano.
Questo è un porto.
 Qui ti amo”.

– Ma che stai a dì – dicevano gli altri (più tardi le dovevo ritrovare queste parole, in un libro di poesie di Neruda)

– E’ vero – rispondeva lui convinto – Si ite alla Circonvallazione, andò se vede chella lengua de mare, là se vede bene Ponza e Palmarola… A malapena… ma se vede. Ponza è chella chiù grossa e Palmarola è chella più zeca, derete…”.

Noi, bambini prima poi adolescenti, di giri di Circonvallazione ne avevamo fatti e ne facevamo a iosa. Ci si limitava a vedere il mare qualche volta, quando la visibilità ce lo permetteva. Non avevamo mai fermato lo sguardo a vedere quelle due macchie più scure in mezzo al grigio diffuso. Di viaggi non se ne parlava ancora, e solo i sogni erano a portata di mano.

Ma il tempo passa e la casa del paese comincia a diventare piccola (la si riscoprirà enorme solo molto più tardi), si ha l’opportunità di oltrepassare le montagne e cominciano i viaggi, i voli arditi della mente. L’esistenzialismo di Sartre e le metamorfosi di Kafka, il neorealismo cinematografico, i palpiti del cuore e del corpo, i collettivi, la musica e la letteratura… tutto sembrava dover far parte del bagaglio che mi avrebbe accompagnato verso un’isola.

Fu così, alle soglie della giovinezza, che in quella finestra naturale di via della Circonvallazione, ci andavo di proposito, a fermar lo sguardo su quella lingua di mare che a volte è d’argento; da dove scorgevo, appunto, l’isola di Ponza che mi ripromettevo di visitare prima o poi.

– Basterebbe andare a Terracina (mezz’ora dal mio paese) e poi prendere il traghetto per l’isola – mi sono sempre detta. A furia di sentirne parlare da mio zio, mi sembrava ormai che facesse parte di noi e la consideravo anche la mia isola.

Ma, stranamente, ho visitato le isole intorno all’Italia e l’isola di Ponza ancora non l’ho vista. L’ho sempre lasciata per ultima, da annusare nei suoi odori e verificare se erano gli stessi che sentivo in gioventù. Da viverla un po’…

E’ capitato d’aver indirizzato un dolore d’amore verso quell’isola, una poesia intrisa di alghe come fluttuanti fantasie che invecchiano, una preghiera senza Dio, una buonanotte come la si dà a un figlio, un bacio di passione come lo si dà a chi si ama anche nei difetti.

Ieri, in un’età in cui la memoria lunga mi rende consapevole di quanto è distante il passato, mi è capitato di andare al mio paese e di aver camminato appositamente in via della Circonvallazione per gettare lo sguardo su quella lingua di mare.

C’era un’aria di tarda primavera e il panorama era sfocato a causa della luce solare.

Ma anche ieri mi sono fermata in quel punto dove ora c’è il Belvedere con le panchine e i fiori intorno.

Lontano, ma l’ho visto il mare… E per vie parallele, ho sciolto gli ormeggi della mia nave; carica dei profumi di questa terra dove ha affondato le radici del mio essere; e  l’ho lasciata andare in quel mare dove a malapena, ieri, distinguevo l’isola di Ponza… l’isola dorata che tanto attira le anime in cerca di approdo…

Gabriella Nardacci