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L’Arcipelago Gulag del regime fascista

di Fabio Lambertucci
 
 

Nell’ultimo decennio la storiografia sul confino politico durante il regime fascista si è molto arricchita grazie ai pregevoli lavori delle storiche Camilla Poesio ed Anna Foa.
La Poesio ha scritto nel 2011 per Laterza. Il confino fascista. L’arma silenziosa del regime ed Anna Foa (nota personale: sono stato un suo studente di Storia moderna alla Sapienza di Roma nel lontano 1994) nel 2018 per il Mulino Andare per i luoghi di confino, libro vincitore nel 2019 del Premio Internazionale di Giornalismo e Letterario Marzani.
In questo saggio la Foa ritiene fondamentale per la ritrovata libertà italiana le esperienze maturate nel confino di Ponza e Ventotene dalla classe dirigente politica del dopoguerra che ebbe là modo di poter elaborare idee e progetti. “L’Università del confino” fu secondo lei quindi molto formativa ed utile per quei dirigenti politici, futuri leader dell’Italia repubblicana.
Entrambi i saggi sono già stati illustrati nel sito e vorrei invece riportare un articolo del grande giornalista storico e scrittore Giuseppe Mayda (1925-2014) apparso su Storia Illustrata (Mondadori) n. 359 nell’Ottobre del 1987. E’ intitolato “L’Arcipelago Gulag del regime. Leggi, pene e misure restrittive sul confino” e infine segnalare una curiosità ponzese.
Ecco il testo:

“Per il regime fascista fu uno strumento di repressione. Per chi lo visse sulla propria pelle fu una pena che lasciò dentro e dietro di sé rabbia e cicatrici profonde. Nella storiografia antifascista è rimasto come il simbolo della sofferenza che colpisce un uomo quando viene privato della libertà. Ma quando venne istituito il confino in Italia? E che cosa prevedevano le leggi speciali di epoca fascista?
Già nei primi decenni dell’Unità, l’isola di Ponza era stata una delle sedici località di confino dove avevano scontato periodi di pena i socialisti Camillo Prampolini (1859-1930), Claudio Treves (1869-1933), Oddino Morgari (1865-1944) ed Enrico Ferri (1856-1929). Il leader socialista Filippo Turati (1857-1932), il 20 giugno 1916, ne aveva denunciate le pessime condizioni di vita dicendo alla Camera come fra i deportati a Ponzaaltissima è la percentuale dei malati, quotidiani sono i decessi, numerosi i suicidi”.

Tuttavia lo Stato liberale, che per primo era ricorso a questi procedimenti amministrativi discrezionali dell’esecutivo, cioè estranei al potere giudiziario, per neutralizzare gli avversari politici non perseguibili in base a leggi già in vigore, abolì praticamente il confino nel 1918 e Ponza divenne sede di compagnie militari di disciplina: il fascismo, quattro anni dopo la conquista del potere, lo ripristinò mediante le “leggi eccezionali” per la difesa dello Stato” emanate il 25 novembre ’26 in seguito all’attentato di Anteo Zamboni contro Mussolini, avvenuto a Bologna il 31 ottobre, e ne fece uno strumento di persecuzione politica.

Secondo l’articolo 180 del testo Unico delle leggi di pubblica sicurezza (che col ’31 sarebbe entrato nel nuovo codice Rocco) il confino di poliziasi estende da uno a cinque anni e si sconta, con l’obbligo del lavoro, in una colonia o in comune del Regno diverso dalla residenza del confinato”. Le colonie erano nelle isole di Ponza, Favignana, Lampedusa, Lipari, Tremiti, Ustica e Ventotene mentre i luoghi di confino sul continente si trovavano sparsi in centinaia di paesini dell’Italia centro-meridionale: la Direzione generale di polizia, l’11 giugno ’42, calcolava che in cinquantadue dei 91 comuni della provincia di Potenza vi erano 200 confinati politici. Complessivamente, fra il ’26 e il ’43, i confinati in Italia furono oltre 16.000.

Col varo delle leggi eccezionali, in tutti i capoluoghi di provincia erano state create commissioni speciali (formate dal prefetto, dal questore, dal procuratore del re, dal comandante dei carabinieri e da un ufficiale superiore della milizia fascista) che esaminavano la fondatezza delle proposte di assegnazione al confino avanzate dalla questura: si trattava di uno sbrigativo processo a porte chiuse in cui i commissari giudicavano il comportamento politico dell’inquisito e fissavano la durata della sua pena.

Questa specie di sentenza s’ispirava all’articolo 181 il quale considerava “pericolosi alla sicurezza pubblica” gli ammoniti, i diffidati e non solo coloro che avessero compiutoatti diretti a sovvertire gli ordinamenti dello Stato”ma anche chi, semplicemente, avesse “manifestato il proposito” di commetterli, criterio, quest’ultimo, che consentiva qualsiasi arbitrio. Come dimostrano i documenti del Tribunale speciale per la difesa dello Stato quasi tutti gli assolti da questa corte (cosa di per sé molto rara) finivano al confino in base a quelle stesse imputazioni per cui il Tribunale speciale aveva ritenuto di procedere.

Benché la legge sul confino dovesse entrare in vigore solo il 25 novembre ’26, già nelle settimane precedenti si erano riunite le commissioni speciali approvando decine di provvedimenti restrittivi sicché fin dal 21 novembre il capo della polizia , Arturo Bocchini (1880-1940), aveva scritto a Mussolini che le prime ordinanze di assegnazione al confino erano giunte da Roma, Bologna, Verona, Bergamo, Perugia, Aquila e Siena relativamente a 68 “politici” e che costoro, nella maggior parte erano stati inviati all’isola di Favignana. Là, come nelle altre colonie, i deportati del regime dovevano sottostare a durissime norme: l’articolo 186, fra l’altro, stabiliva che al confinato potessero essere imposte dalla Direzione sia l’ora di uscita al mattino che quella di rientro a sera, il divieto di frequentare esercizi pubblici, riunioni o spettacoli, l’obbligo di presentarsi a ogni chiamata della polizia e quello, estremamente generico, di mantenere “buona condotta e non dare luogo a sospetti”.

 

Ponza cominciò a funzionare come confino di polizia il 29 luglio del ’28 e per i primi tre anni ospitò i deportati nelle celle di un antico carcere borbonico così umido che dai soffitti dei cameroni gocciolava acqua in continuazione.
Presto divenne l’isola più “calda” dell’intero Arcipelago Gulag di Mussolini perché Bocchini, ritenendola sicurissima, vi concentrò tutti i “politici” giudicati di “alto grado di pericolosità”: i comunisti Umberto Terracini (1895-1983), Camilla Ravera (1889-1988), Pietro Secchia (1903-1973), Mauro Scoccimarro (1895-1972), Giorgio Amendola (1907-1980), Girolamo Li Causi (1896-1977) ed Altiero Spinelli (1907-1986). Il servizio di sorveglianza in terra e in mare era rigorosissimo: nel luglio ’29, a Lipari, benché vi fossero 377 agenti per sorvegliare 352 confinati, Emilio Lussu (1890-1975, fondatore del Partito Sardo d’azione), il liberale Francesco Saverio Nitti (1868-1953) e il teorico del “socialismo liberale” Carlo Rosselli (1899- assassinato nel 1937 da fascisti francesi) erano riusciti ad evadere clamorosamente con un motoscafo: così l’anno dopo, nell’aprile del ’30, i 250 “politici” erano tenuti d’occhio da ben 367 guardiani. Un deportato definito nei documentiparticolarmente pericoloso“, il socialista Sandro Pertini (1896-1990), su ordine del direttore di Ponza, Capobianco, fu addirittura pedinato a vista, giorno e notte, per timore di una fuga (e quando il futuro presidente della Repubblica, il 5 maggio ’37, protestò con Capobianco per quella misura vessatoria, venne denunciato e arrestato).
Malgrado le persecuzioni, soprusi, violenze e le tremende difficoltà ambientali (gli stessi militi fascisti, scrivendo ai loro familiari, rivelavano la “vita da cane” e “fuori dal consorzio umano” cui erano costretti, lettere che poi finirono sul tavolo di Mussolini), i confinati di Ponza riuscirono ad organizzarsi: crearono, su basi cooperativistiche, negozi e laboratori che più tardi vennero chiusi dalla polizia, istituirono mense collettive dove a turno compravano i viveri, li cuocevano e li distribuivano, e biblioteche clandestine (parallele a quelle “legali” volute dal regime) nelle quali circolavano i testi politici messi all’indice dal fascismo e pubblicazioni periodiche stampate alla macchia come Stato operaio e l’Unità.
A Ponza i conflitti fra i deportati e la Direzione della colonia iniziarono già alla fine di dicembre del ’30 per la drastica riduzione del sussidio giornaliero da 10 a 5 lire, misera somma che i deportati rifiutarono di ritirare sicché vi furono denunce, arresti e condanne. Altrettanto avvenne fra la primavera del ’33 e quella del ’34 per le misure restrittive sulla corrispondenza che la polizia voleva limitare ai soli genitori, moglie, figli e fratelli del confinato: da quel momento, i deportati non scrissero più a casa e le famiglie, allarmate dall’inspiegabile silenzio, ricorsero in massa al Ministero dell’Interno.
Nel ’35 Amendola fu condannato a 10 mesi e 20 giorni di carcere, pena poi dimezzata in appello, per aver capeggiato una manifestazione contro l’ordinanza che riduceva ulteriormente il tempo libero da trascorrere fuori dagli alloggiamenti e fra il maggio ’37 e il luglio ’38 i confinati di Ponza, assieme a quelli delle Tremiti e di Ustica, vinsero la “battaglia contro il saluto romano” che le Direzioni delle colonie volevano imporre: se ne scrisse all’estero, ne parlò anche Radio Mosca.

Il confino di Ponza, dopo undici anni esatti, venne soppresso dalla Direzione generale di polizia nel luglio del ’39 e tutti i deportati furono trasferiti a Ventotene. Fra loro vi era una figura emblematica, l’ex capitano di artiglieria, ardito di guerra e legionario fiumano Mario Magri, classe 1896, che doveva diventare il deportato con la più lunga pena da scontare: inviato alla colonia di Ponza nel 1926, il massimo del confino (5 anni) gli era stato sempre riconfermato sicché Magri sarebbe tornato libero, dopo ben 17 anni di domicilio coatto, soltanto durante il governo Badoglio del luglio-agosto ’43 ma di lì a pochi giorni, all’indomani dell’8 settembre, sarebbe stato arrestato dai nazisti e fucilato nel marzo ’44 alle Fosse Ardeatine.”

[1]
Un confinato mentre dà il mangime ai polli del suo allevamento
(Foto di Stefano Bricarelli). Gennaio 1938.
Una curiosità ponzese: forse il confinato ritratto a Ponza dal fotografo Stefano Bricarelli nel gennaio 1938 mentre alleva polli potrebbe essere l’uomo descritto dal confinato politico comunista Giorgio Amendola nella sua autobiografia Un’isola (Rizzoli, 1980): “V’era in tutta l’organizzazione un forte egualitarismo ed anche esasperato collettivismo. Un compagno bolognese, provetto metalmeccanico, aveva messo su un allevamento di polli e conigli, e vendeva ai confinati uova fresche e carne. Vendeva anche a numerosi isolani. Venne subito indicato come un kulak (contadino benestante russo, ndr), fu fissato un prezzo di vendita dei suoi prodotti ai confinati, ed imposta una tassa da versare alla cassa di solidarietà. La moglie faceva la parrucchiera e guadagnava bene, ma anche lei doveva versare una percentuale dei suoi incassi. Altri compagni, artigiani, sarti e calzolai, avevano molti clienti tra gli isolani, ma dovevano sempre pagare il loro tributo all’organizzazione”.