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Fuori stagione

di Gabriella Nardacci

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Dopo aver annunciato sul sito la presentazione della sua più recente fatica letteraria – “Tempo che va, tempo che viene”, a Maenza nell’ottobre scorso, con l’annessa Prefazione (leggi qui [1]) – ci fa piacere pubblicare ora un intero capitolo del romanzo, nel quale i lettori riconosceranno i temi cari a Gabriella, familiari, per l’atmosfera e lo stato d’animo che li ispira, a tutti coloro che hanno avuto le loro radici in un piccolo paese.
La Redazione

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Non è che non ci voglia andare, in giro tra i vicoli del mio paese adesso che sono grande. Il fatto strano è che tutti noi siamo cresciuti ma il paese, per quanto si sia trasformato, in verità poi è rimasto sempre lo stesso.
Ora lo si può girare in totale connessione con esso. Non ci sono persone da salutare e che, per questo, potrebbero interrompere quella certa e intima solitudine che ci induce a riflettere.
Coloro che sono rimasti ad abitare in quei vicoli sono pochissimi.

Mi è capitato di recente andare a passeggiare tra quelle case chiuse. Non c’è stata casa, né strada, né piazza che in qualche modo non facessero parte dei ricordi raccontati e posti all’interno delle nostre stagioni.
Vedere ora ciò che la mia memoria ha raccontato, fa sorgere concetti diversi. Ci sono cose che non sono riuscita a collocare all’interno di qualche stagione: sono le cose “fuori stagione”.

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In una strada è rimasto un negozio chiuso da illo tempore. La vetrina è tutta impolverata sia all’interno che all’esterno. Si notano, a fatica, le cose rimaste appese nella parete della vetrina e sulle grucce. Si distinguono lane e qualche grembiule bianco e blu per i bambini della scuola elementare e alcuni maglioncini. Il vento ha introdotto, timidamente qualche foglia secca e tanta polvere all’ingresso dopo l’inferriata aperta e prima della porta di apertura di vetro.
Questo negozio appare così da tantissimo tempo ormai ed è rimasto uguale per ricordarne la proprietaria che vendeva un po’ di tutto: dai libri per la scuola ai grembiuli, dalle lane ai cotoni da ricamo, dalla biancheria intima ai pigiami, dai completini per neonati alla merceria.

Alcuni portoni sono rimasti come erano e altri sono stati ristrutturati. I vicoli che si dipanano dalla strada principale, hanno la stessa fisionomia di una volta e quella che era la mia scuola dellà dalle monache trasformata poi in un ostello per la gioventù, ora non è più neanche ostello
Le piazzette antistanti le case, sono libere. In alcune di esse, alle sedie di una volta, si sono sostituiti i fiori e tutte le porte sono sprangate così come le finestre. Anche quelle case sono “fuori stagione”. Tutto è fuori: non entra il sole, ne’ un odore, ne’ il vento leggero. Case che s’impolverano pur essendo chiuse e che si rovinano pur non essendo usate.

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Ogni vicolo riporta una storia. Nel suo silenzio parla e mi dispiace che non si senta una donna cantare, ne’ recitare il rosario o strofinare con il sapone lo spazio antistante la porta d’ingresso per poi gettarci il secchio dell’acqua che colava giù per le scale e che profumava di candeggina e sapone.

Credo non ci passino più neanche le processioni, per questi vicoli. Processioni che sono diventate sempre più corte e che non sono organizzate come quelle di una volta che iniziavano con noi bambini e a seguire le ragazze e poi le donne con i grossi ceri e poi gli angioletti e la statua del santo con il prete e la giunta comunale con anche il maresciallo dei carabinieri per terminare con la banda e tanta gente che pensava ai fatti propri.
Ora, la banda non passa più in certi vicoli e non suona più neanche ai funerali o in occasione di feste importanti quando tanta allegria ci metteva addosso e ci incitava a uscire di casa e a seguirla nel suo percorso fino in piazza.

Passeggio silenziosa nel silenzio sia della mattina come della sera o del primo pomeriggio tra i vicoli del mio paese. Trovo solo altre prospettive e colori più vividi a seconda di come piova la luce del sole. Qualcosa è cambiato ma ora sembra un paese addormentato e faccio una fatica enorme a tirare indietro il pianto perché, spiegatemi un po’ voi filosofi, come si fa a non volere ancora ciò che apparteneva alla felicità seppure fra gli stenti del vivere quotidiano!
Eppure è strano come ogni cosa vista allora si ripropone guardandola e si trasforma di nuovo come era una volta. Se si aprissero quelle finestre e quei portoni, nella mente, immediati, tornerebbero tutti e tutte le cose. Rivedrei quei personaggi con la gioventù di allora e ne ricorderei la voce, il sorriso e ogni cosa.

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Il concetto di alcuni anziani “stemme megli quando se steva peggio”, (stavamo meglio quando stavamo peggio) non è un concetto antico ma solo fuori stagione e il suo significato va ben oltre la solita banale spiegazione. E’ il concetto del gruppo, dello stare insieme, del condividere pane e tormenti, risate e prese in giro. E’ quella sensazione di benessere che oggi, con tutto il benessere che c’è, si fatica a percepire nonostante le nostre conoscenze e cultura. Siamo tutti degli equilibristi instabili, ancorati a poteri di ricchezza, con forti inquietudini esistenziali.
E’ che abbiamo una strana concezione sul concetto della semplicità così difficile da trovare ormai e così banalizzato come si banalizza a volte il concetto di romanticismo.

Anche questi concetti appartengono ai ricordi “fuori stagione” così come vi appartiene quello sulla memoria che nel momento in cui lo si assapora, lo si sente, lo si gusta, lo si vede e lo si tocca diventa così vero e così necessario per la propria vita che è come un marchio sulla pelle e per questo, non si dovrebbe presentare alla memoria solamente in alcune stagioni ma dovrebbe esserlo sempre, in ogni giorno dell’anno.
Concetti “fuori stagione” ma che io ho solamente spostato nel baule della mia memoria così che possa sempre confrontarli con i nuovi e magari utilizzarne qualche contenuto per creare pensieri nuovi, utili e indistruttibili.

Arranco su per una salitella e mi ritrovo nel vicolo dove tutta una fiancata della chiesa mostra le finestre chiuse e anche il portone principale da dove si accedeva all’ufficio del parroco che ora non c’è più come non si accede più in quei locali dove un bigliardino e uno spazio vuoto, accoglieva le nostre risate e i nostri giochi dopo il catechismo.

Dalle fontane del centro storico, non esce più neanche una goccia d’acqua. Le conche di rame che si usavano per andare a prendere l’acqua, ora sono diventate portaombrelli o porta-piante o semplici oggetti d’arredo.
Le portavamo in piazza quelle conche ed erano tutte in fila. L’acqua dalla fontana scendeva piano e alle volte si bisticciava forte perché qualcuna aveva portato anche il secchio. In verità si aveva paura che l’acqua non bastasse per tutte e succedeva sempre che più donne si prendessero a botte. Se ne andavano, piangendo e blaterando con i capelli scarmigliati e qualche livido in faccia e con la conca d’acqua sulla testa.
Mia madre sistemava la conca con l’acqua, sul lavandino e tutti attingevamo da essa con un mestolo anch’esso di rame e anche questo diventato oggi, oggetto d’arredo.

Le fontane sono chiuse. E’ rimasta solo quella della Piazza Santa Reparata che con i suoi zampilli, fa compagnia a coloro che abitano lì e che la notte non riescono a prendere sonno
“Fuori stagione” anche le fontanelle nel centro storico.

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Le campane annunciano il vespro. Hanno un suono mesto e privo di entusiasmo. C’è un solo prete straniero e forse anche lui sentirà nostalgia per il suo paese o per i suoi cari e non mi arriva la sua energia.
Neanche le campane sono più quelle di una volta quando le persone ci invitavano a stare in silenzio perché loro dovevano contare i rintocchi. Due rintocchi… tre rintocchi…lenti e neri, annunciavano la morte di qualcuno. Dal numero dei rintocchi si capiva se era morta una donna o un uomo.
Poi sentivo i brividi sulla pelle quando le campane suonavano a distesa nel momento in cui le statue di Gesù, della Madonna o dei Santi entravano in chiesa dopo la processione o in occasione delle sante messe. Mi sembrava suonassero più forte e il loro suono arrivava a tutti e ci piaceva ascoltarle in silenzio.
Ora suonano pigre e senza grande forza sia quando suonano a lutto che a festa e fuori stagione ne metto solo l’energia e l’emozione che un tempo procuravano a tutti noi.

“Fuori stagione”, senza dubbio, metto anche il suono dell’orologio della chiesa. Scandiva il tempo in quarti d’ora ed era utile alla massaia e al contadino, al medico e alla maestra, agli uomini del bar e agli innamorati.
Serviva anche a noi bambini ma i suoi ritocchi erano sempre rafforzati dai richiami delle nostre mamme che urlavano a squarciagola il nostro nome alla finestra aggiungendoci subito una minaccia qualora non fossimo stati puntuali nel tornare a casa.

Mi sembrava sempre dipendesse dai rintocchi che, soprattutto le cene fossero sintonizzate, per tutti, allo stesso orario ed era una gioia sentire il rumore delle posate e il chiacchiericcio dei vicini di pianerottolo o il rumore delle sedie che s’accostavano al tavolo dei vicini che abitavano sopra di noi.
Mi piaceva pensare che tutti fossero al sicuro in casa soprattutto nelle sere tempestose con il caminetto che ci scaldava le spalle e ci gelava i piedi mentre mangiavamo e che, quando finivamo di cenare e ci giravamo per ascoltare un po’ di chiacchiere, scaldava ciò che prima aveva gelato quasi volesse farsi perdonare.
Oppure nelle sere d’estate, quando fuori era ancora giorno e ingurgitavamo velocemente la cena così che potessimo andare ancora a giocare giù in strada prima che facesse buio.

Sono “fuori stagione” i materassi di lana, i cuscini con le piume, le coperte di lana e i lenzuoli di fustagno. Tutto è stato sostituito con biancheria moderna colorata e a fiori e con i cuscini e materassi anallergici. Molte donne non usano più neanche le lenzuola ricamate e sono lì, all’interno dell’armadio, sostituite da lenzuola colorate o a fiori che non hanno bisogno di ferro da stiro e che si asciugano velocemente.

Non servono più neanche per fare gli altarini in strada o per metterle nei balconi e alle finestre durante la processione del Corpus Domini.
Se penso a tutto il tempo, la pazienza, la gioia impiegata nel ricamarle mi viene da piangere, ora, nel vederle riposte dentro l’armadio!

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Metto “fuori stagione” le fuitine o fughe d’amore, vere o finte, quelle in accordo con i genitori onde evitare costi di pranzi esosi o quelle decise da due innamorati perché i genitori non avrebbero mai acconsentito al matrimonio.
Mi sembra di sentire i loro palpiti e le loro risate, i pianti e le paure, la gioia e il pudore dei più intimi piaceri e quei brevi attimi di felicità che ti regala l’amore.

“Fuori stagione” è pure il tempo che è passato e che non sembra assomigliare affatto al tempo in cui viviamo con queste mani che parlano con la tastiera e con la memoria tecnologica e non più realistica come quella che ci raccontavano i nonni accanto ai caminetti accesi.
“Fuori stagione” sono anche le mezze stagioni che, faticosamente, entrano dentro l’Estate e nell’Inverno regalandoci momenti della loro presenza con boccioli di fiori in inverno e qualche vento dal nord che arriva, a sorpresa, durante una serata d’agosto.
“Fuori stagione” sono anche i pianti in processione, le preghiere chiuse nelle chiese, il pregiudizio che continua a imperare nonostante la modernità.

Mi affaccio alla finestra di quella che una volta era la mia stanza da ragazza. Giù in fondo vedo una stradina che una volta chiamavano la stradina del trenino. E’ una fila di casette basse e colorate che sembra un trenino di vagoncini con i finestrini e mi sovviene il ricordo delle giostre che arrivavano nel retro della scuola elementare appena sotto la stradina del trenino.
Mi cullo in questa immagine che sa di favola o di un pezzo di pellicola felliniana o di Tim Burton e mi fa bene pensarla. Non riesco a collocarla in nessuna stagione né fuori stagione. La sento possibile.

Forse “fuori stagione” potrà sembrare questa mia nostalgia che non arriva ai giovani, impegnati come sono a costruire sogni e a risolvere i primi problemi esistenziali, ma che potrà arrivare solo a coloro che hanno già vissuto il tratto più lungo della vita.
Quella nostalgia che dipinge a colori anche il bianco e il nero, che sa associare a note ed odori, ogni momento vissuto.
Una nostalgia che cammina con il tempo spudorato e veloce, che cresce con la mia età.
Un tempo presente “fuori stagione” perché è il tempo che non si riesce a trattenere. Nel momento in cui lo si afferra è già passato ed è bene che lo si riesca a fissare prima che diventi nebbia.

Tempo che va e tempo che viene e che va… che va… che va.

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Nota
Tutte le foto di Maenza, tranne quella di copertina, sono di Alessandro Pucci