Ambiente e Natura

Il meglio dai media (19). La pandemia e l’altro pianeta, di Bernard-Henri Lévy

segnalato da Sandro Russo

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Un articolo messo da parte quando è uscito e la cui pubblicazione ho  sempre rimandato. Oggi che è domenica, mi è sembrato il momento. Per una pausa di riflessione.

La pandemia e l’altro pianeta 
di Bernard-Henri Lévy

Le notizie cadute nel dimenticatoio della follia legata al Covid: se esiste una graduatoria delle calamità per il genere umano, quasi certamente la fame occupa una posizione molto vicina all’apice. E a oggi nessuna associazione è riuscita a scongiurare questo flagello mondiale

Notizie cadute nel dimenticatoio della follia legata al Coronavirus. Rivolta di precari in un quartiere disagiato di Tláhuac, una delle zone “aride” del Messico, dove non c’è acqua a sufficienza per lavarsi le mani. Due morti e parecchie decine di feriti nella bidonville di Kibera, a Nairobi, durante la distribuzione di farina e olio da cucina che si trasforma in una calca generale e che richiede l’intervento della polizia.
Gli abitanti di una baraccopoli di Città del Capo in Sudafrica erigono barricate lungo le strade: gridano di aver capito l’ordine di “rientrare a casa”, ma di non avere una casa dove andare e, oltretutto, hanno fame.
In India un milione di persone o forse più lascia le città dell’immenso stato dell’Uttar Pradesh, ma anche di Punjab, Haryana, Maharashtra e Gujarat: non è rimasto niente da mangiare. Si incamminano verso i rispettivi villaggi d’origine in lente e lunghe file, prese di mira da bande di sciacalli.
In Venezuela, che quel giorno riportava dieci casi ufficiali di decessi per coronavirus e dove non c’era più posto per curarli da nessuna parte perché dagli ospedali sono state rimosse e razziate tutte le apparecchiature mediche, inizia il saccheggio di grandi magazzini e piccole botteghe negli stati di Bolivar e di Portuguesa.
Si segnalano carestie gravissime in Thailandia, in Congo, a Kinshasa e nello Zimbabwe, in passato uno dei granai d’Africa. Si parla di tumulti provocati dalla penuria di cibo lungo l’Equatore; nel campo di Kabasa in Somalia; nella periferia sud di Beirut, nel quartiere di Hay el-Sellom, i rivoltosi scandiscono: “Non confinateci, dateci da mangiare”.

Perfino in Francia, i prefetti – in particolare quello di Seine-Saint Denis in un carteggio pubblicato da Le Canard enchaîné – ammettono di attendersi presto gravi carenze di generi alimentari che avranno un impatto enorme su decine di migliaia di persone e potrebbero sfociare in rivolte popolari.
Del resto, per rendersi conto di come la distribuzione di pasti caldi dei volontari dei Restos du cœur non abbia mai attirato un numero superiore di persone, è sufficiente passare in Place de la République a Parigi al sabato sera, poco dopo le 19.
Per farsene un’idea, basta recarsi, sempre di sabato sera, nei quartieri a nord di Parigi, alla Porte d’Aubervilliers, dove centinaia di immigrati clandestini in precedenza accampati sulla colline du crack, smantellata a febbraio, adesso se ne stanno in un’area brulla prospiciente la zona industriale Cap 18: tra loro ci sono afgani, somali, qualche libico, un bengalese, alcuni sudanesi. Sembrano smarriti, randagi, sdraiati su materassi a brandelli, immobili come se dormissero: sono altri famelici esseri umani che non trovano più niente di commestibile nei rifiuti delle strade dei dintorni e che le Ong, sovraccariche di lavoro, non riescono più ad aiutare.

Perché parlo di tutto questo?
Perché nel corso della mia vita mi sono occupato di un numero sufficiente di situazioni di emergenza per sapere che, se esiste una graduatoria delle calamità per il genere umano, quasi certamente la fame – con i corpi vivi ma avvizziti, i bambini morti o prematuramente invecchiati, le infezioni agli occhi, la testa che fa male, la necrosi dei tessuti che avanza veloce, gli episodi di rivolta, Coupeau che diceva a Gervaise “se hai fame, mangiati una mano! E tieniti l’altra per domani”, e poi il distacco finale, le ultime apnee e la morte repentina – occupa una posizione molto vicina all’apice.
Perché so, fin dai tempi in cui fondammo Action contre la faim – nel 1979 con Françoise Giroud, Alfred Kastler, Jacques Attali, i radicali italiani Emma Bonino e Marco Pannella, Marek Halter, il dottor Robert Sebbag e altri ancora, una piccola organizzazione ormai cresciuta che gode di risorse e di mezzi d’intervento considerevoli – che né questa né altre associazioni sono riuscite a scongiurare che ancora oggi sul nostro pianeta il flagello della fame uccidesse 25 mila persone al giorno.

E, infine, perché so che il Covid – fermando l’economia all’improvviso, obbligando a una “pausa” la globalizzazione (accusata di tutti i mali e di cui con eccessiva faciloneria dimentichiamo che in trent’anni ha fatto uscire dalla miseria un terzo del genere umano), congelando gli scambi commerciali che hanno interrotto gli approvvigionamenti per chi soffre la fame – fatalmente farà incrementare il numero degli indigenti della Terra.

Più avanti, in conclusione, vi dirò anche in che modo io consideri lo sgomento e la paura che si sono abbattuti sul mondo insieme al coronavirus.
Tuttavia, perché non iniziare facendo notare subito, di fronte a queste notizie d’agenzia che sembrano arrivare da un altro pianeta, quanto vi sia di astratto, di assurdo e – viste le circostanze – anche di scellerato nel dibattito concettuale che colloca chi è al governo nella posizione di dover scegliere tra “la vita” e “l’economia”, ovvero, in realtà, tra i morti da Covid e gli altri?
Come non restare sconvolti dall’enorme sproporzione dei mezzi dispiegati per individuare, sperimentare e naturalmente propagare una cura per un’epidemia nuova e tragica e la tetra indifferenza alla quale sembrano condannate le vittime della più antica pandemia dell’umanità?

A questo proposito, ecco un altro titolo in prima pagina della stampa americana che ci è sfuggito. È stato pubblicato sul Washington Post del 29 aprile.
Mentre gli Stati Uniti, come tutti noi, ricorrono a sforzi sempre più impegnativi per nascondere quei corpi affamati su cui il nostro sguardo non vuole posarsi, si annuncia il lancio di due colossali progetti di ricerca condotti dall’Università della Pennsylvania e dalla Scuola di Igiene e di Medicina tropicale di Londra. Qual è il loro obiettivo? Addestrare cani labrador dal “fiuto eccezionale”, in grado di individuare l’odore del Covid negli esseri umani. Ancora non ci hanno detto a che cosa – o a chi – potrebbe assomigliare quell’odore.

In ogni caso, sono felici di informarci che gli otto cani già addestrati saranno capaci, a velocità di crociera, di individuare fino a 250 casi l’ora. Si tratta di un progetto troppo assurdo per essere vero. Eppure… Ne riparlerò in seguito.

(Traduzione di Anna Bissanti)


(*) Bernard-Henri Lévy [Algeria, 1948, contemporaneo] è filosofo, giornalista, imprenditore e saggista francese

[Da la Repubblica del 9 maggio 2020]

 

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