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Cinema, virus, epidemie e batteri (seconda parte)

di Roberto Pedicino

per la prima parte, leggi qui [1]

Quasi obbligatorio, dopo Matheson, Price e i primi Zombie, parlare dell’inarrestabile filone dei Morti Viventi, ma in quest’ambito vige, rispetto al tema affrontata, la totale confusione. gli Zombie ne La notte dei morti viventi (1968) per George Romero sono il risultato dell’esposizione a radiazioni (nei successivi Zombi, Il giorno dei morti viventi, ecc. si dà per scontato l’assunto), mentre spesso negli apocrifi successivi, i mostri sono generati spesso da un contagio infettivo. Sto parlando di Cabin fever (Eli Roth, 2002), di Carriers (Alex e David Pastor, 2009), di World War Z (Mark Forster 2013) ed altri anche meno interessanti.
Più apprezzabile è Train to Busan (Yeon Sang – Ho, 2016), ma solo per l’ambientazione claustrofobica, spesso sufficiente, insieme alla discreta caratterizzazione dei protagonisti, per fornire almeno un senso alla trama.

A conferire pregio al lavoro di Romero non sono solamente la capacità di infondere ritmo e qualità allo script, ma anche un chiaro intento di critica politica che sostiene la storia: alzando il tiro rispetto a Matheson, mette infatti nel mirino il disfacimento di una civiltà che trova le sue basi nelle contraddizioni del capitalismo, nella vacuità della società dei consumi e nell’orrore dell’omologazione del pensiero. In questo la sua originalità e la distanza che lo separa da chi utilizza il tema esclusivamente per creare situazioni banali, dove l’unico interesse è data dalla successione di sequenze sempre più splatter.

E’ necessario in questa sede ricordare che l’idea romeriana di far nutrire i mostri di carne umana, non sorga casualmente, ma trova riscontro reale nell’abitudine, verificata, di dare, nei riti caraibici voodoo, in pasto la polvere dei morti alle persone da rendere schiave, con lo scopo di indurre uno stato catatonico.

Vanno segnalati anche nel novero dei film “ zombeschi” anche 28 giorni dopo (28 Days Later, Danny Boyle, 2003) e 28 settimane dopo (28 weeks later, di Carlos Fresnadillo, 2007), almeno per la buona qualità della regia, anche se l’idea di velocizzare gli zombie appare un limite per lo sviluppo della tensione narrativa.

Abbandonando Romero e succedanei e tornando al tema iniziale, di livello certamente buono è The andromeda strain (Robert Wise, 1971), i cui protagonisti sono alle prese con un organismo, portato sulla terra da un satellite, le cui caratteristiche sono differenti da qualsiasi altro essere vivente sulla terra in quanto privo di aminoacidi ed acidi nucleici.

Il plot, quasi da thriller, prevede la disperata ricerca di una strategia contro la potenziale diffusione dell’infezione e la difficoltà della medicina ad affrontare un pericolo ignoto.
Elemento questo certamente comprensibile, alla luce di quanto sta avvenendo oggi nella comunità scientifica, alle prese con problemi sia medici che organizzativi, legate soprattutto ad un’emergenza non prevedibile.

Contagion (Steven Soderbergh, 2011) è troppo aderente allo sviluppo degli eventi odierni (provenienza del virus, modalità di trasmissione, difficoltà a trovare il rimedio) per non essere citato, ma la pellicola soffre troppo la sintesi narrativa della seconda parte e anche il cast (Damon, Cotillard, Fishburn, ecc) , pur non disprezzabile, non è sufficiente ad elevare il film oltre lo standard medio dell’industria cinematografica americana. Contagious (Henry Hobson, 2015) rappresenta in quest’elenco un anomalia per il carattere quasi intimista del film e per il ritmo lento che lo caratterizza: in un pianeta devastato dall’epidemia, un padre trascorre gli ultimi giorni con la figlia, destinata alla trasformazione dopo il morso di uno zombie, facendo il possibile per offrirle sollievo prima della completa mutazione. A rendere ancora più insolito il tutto, la scelta di Arnold Schwarzenegger nel ruolo del protagonista che, inserito in una sceneggiatura con molti limiti e dai dialoghi spesso melensi, offre tuttavia un’interpretazione inaspettata al ruolo del padre.

Virus letale (Wolfgang Petersen, 1995) è un soporifero film che narra, in modo stereotipato, l’inarrestabile avanzata di un virus dallo Zaire agli Stati Uniti a cui si oppongono pochi eroi consapevoli e che utilizza molte facce dell’establishment hollywoodiano per intrattenere gli spettatori: Hoffman fa l’eroe buono, Sutherland il cattivo e Freeman fa il cattivo che si pente. Il film finisce bene perché la cura viene trovata e il cattivo viene arrestato. Messaggio: siamo tutti al sicuro e tutto andrà bene (…già sentita, per caso?).

Blindness (Fernando Meirelles 2008) tratto da “Cecità” di Saramago dopo lunghissima battaglia legata alle garanzie chieste dall’autore del libro, non chiarisce l’origine dell’epidemia. Tuttavia, se non fosse per la dichiarata origine letteraria, potrebbe essere un’altra trasposizione da Matheson e solo per questo motivo trovo interessante citarlo.
Infatti il film non rende minimamente il capolavoro di Saramago e pertanto rientra tra le occasioni fallite, di cui è pieno il cimitero cinematografico.
Titoli ancora meno degni di essere particolarmente approfonditi sono Black death (Christopher Smith 2010) e Le ali della notte (Arthur Hiller – 1979), il primo, ambientato in Inghilterra dove interi villaggi sono decimati dalla peste, ha un taglio fantasy molto di moda, il secondo tipica espressione della fantascienza di serie Z, si svolge in una riserva indiana dove pipistrelli giganti trasmettono una forma letale di peste bubbonica.

Di taglio totalmente documentaristico, ma non per questo trascurabile, è La casa è nera (Forugh Farrokhzad, 1962) impressionante documento sui lebbrosi di Tabriz nell’Iran settentrionale (in alcune parti del mondo la lebbra è ancora un problema grave), che assume valore per l’umanità che trasmette, per l’intensità del testo, letto fuori campo, ma anche per l’atto di implicita accusa alle scelte di emarginazione di tutti i regimi autoritari (ed infatti il lavoro e l’autrice sono stati osteggiati in patria e all’estero).

Chiudo con due lavori totalmente diversi tra loro, ma talmente significativi nel loro ambito, da renderli meritevoli di essere posti come epilogo.
Parlo de L’esercito delle dodici scimmie (Terry Gilliam, 1995) e di La morte della maschera rossa (Roger Corman, 1964).

Il primo, ambientato in un futuro distopico, trova spunto ancora una volta da una catastrofe infettiva che ha sterminato la quasi totalità dell’umanità. Pur appartenendo al genere fantascienza, propone la follia come esito finale del cambiamento delle situazioni ambientali e di convivenza civile. Lo stesso Gillian ha dichiarato che l’interesse della sceneggiatura sta proprio nella sensazione di morte, sogno, sconcerto e rinascita che emana. E infatti nel film stesso viene suggerito “come la distruzione dell’umanità sia il frutto di comportamenti smodati, che i veri saggi sono gli allarmisti e che il piacere dello shopping sia nient’altro che l’ultima ambizione del malato di mente”. Film ridondante e claustrofobico, dotato di un equilibrio narrativo particolare, è diventato “cult” sia per l’abilità del “cuoco” Gillian (*), sia per le suggestioni visive che impone anche ai meno appassionati del genere.

La maschera della morte rossa appartiene invece al filone classico dell’horror anni ’50 – ’60.
Il principe Prospero, signore di una regione spopolata dalla peste, si barrica con gli amici nel proprio castello, illudendosi di sfuggire al contagio e al destino. Il messaggio è chiaro e rimanda al film con cui abbiamo iniziato (Il settimo sigillo): la morte mette tutti sullo stesso piano. Privo di qualsiasi ambizione filosofica e spirituale bergmaniana, il film ha tuttavia una sua dignità per la matrice letteraria (Edgar Allan Poe) e per i tratti simbolici del racconto: l’idea che il castello con tutti i suoi beni rappresenti la vita di ciascuno, le stanze del castello equivalenti all’età della vita stessa, la presunzione di escludere gli altri, i diversi, gli appestati e di non condividerne la sorte.

IMMAGINE

Per completare l’excursus fin qui seguito – perdonate, ma ho una deformazione professionale che mi impone di trarre una qualche conclusione al termine di un lavoro -, direi che ancora una volta diventa lampante come un opera d’arte assuma tanto più valore quanto più, al di là della tecnica e del fascino del racconto, venga utilizzata per raccontare altro.

Mi riferisco chiaramente al lavoro di Bergman, per quanto riguarda la necessità dell’esperienza filosofica ed introspettiva degli uomini di fronte all’ignoto. Necessità che diventa oggi manifesta a tutti, nel momento in cui ci vengono precluse le abitudini quasi autistiche a cui cediamo nelle condizioni di presunta “normalità”.

Mi riferisco agli horror quando non si limitano a mostrare arti strappati e corpi sventrati, ma sviluppano angoscia e terrore mostrando la solitudine dell’uomo in circostanze avverse – non si tratta di questo quando dobbiamo convivere con nostri simili di cui non comprendiamo il linguaggio e le abitudini di vita? -, costringendolo a liberarsi di stereotipi di cui spesso non conosce neppure il significato.

Mi riferisco alla fantascienza e specificatamente a lavori come quello di Gillian che, pur utilizzando un genere solitamente di serie minore, riesce, senza dare risposte ed evitando il lieto fine, a mostrare la schizofrenia dell’uomo tra delirio complottista, ambizioni ecologiste e follia consumistica.
Immagino che il Coronavirus non sarebbe molto felice nel sapere che le infezioni possono essere utilizzate anche a scopo ludico-culturale. Ma tant’è, si rassegni pure. Non sa il poveretto che siamo fatti della materia di cui sono fatti i sogni (..).

Alla fine, e chiudo davvero, mi corre l’obbligo di ringraziare per il sostegno Tano Pirrone, l’ispiratore e Paolo Versacci, prezioso suggeritore, ambedue colti cinefili.

Un affettuoso saluto a tutti,
Roberto

[Cinema, virus, epidemie e batteri (2) – Fine]

(*) – L’antecedente dichiarato de L’esercito delle 12 scimmie è un film culto francese del 1962 (La Jetée, di Chris Marker): un capolavoro assoluto, una pietra miliare del cinema fantastico che paradossalmente non è fatto di immagini in movimento (tranne che per una brevissima sequenza), ma di fotogrammi staccati legati da una voce narrante (leggi qui [2]).

(**)“We are such stuff as dreams are made on, and our little life is rounded with a sleep”. [Noi siamo fatti della stessa sostanza di cui son fatti i sogni; e nello spazio e nel tempo d’un sogno è racchiusa la nostra breve vita (W. Shakespeare, La tempesta, atto IV, scena I)]


Nota
(a cura della Redazione)

Oltre a queste due puntate appena pubblicate, di Roberto Pedicino, sul sito sono presenti altri articoli sul cinema catastrofico e sulle pandemie. Precisamente:

Di Sandro Russo, del novembre 2015: Storie da fine del mondo [2]
Di Nazzareno Tomassini del marzo 2020: Momenti pestiferi [3]
Di Sandro Russo del marzo 2020: Passato e attualità delle epidemie. Sprazzi medici e cinefili [4] (a questo articolo sono acclusi due file .pdf sul tema, pubblicati su www.omero.it [5] – Scuola di Scrittura in Roma
Di Nazzareno Tomassini, ancora del marzo 2020: Sulle tracce di altre pestilenze [6]