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Qualche commento su “L’ile de La Galite” di Achille Vitiello (1)

di Silverio Lamonica

 

Fin da ragazzo ho sentito parlare di quest’isola dal fascino misterioso e, sicuro di interpretare l’opinione dei lettori  del saggio pubblicato a puntate su questo  sito, manifesto il mio plauso all’autore, Achille Vitiello, perché ci ha fornito compiutamente, un aspetto dell’ “Homo Pontianus” molto importante: lo spirito di rapido adattamento a situazioni sempre nuove”. Come ringrazio di cuore il carissimo Dr Biagio Vitiello per avermi dato l’opportunità di consultarlo in anteprima.

 Quando frequentavo l’Università, Facoltà di Pedagogia, in uno dei testi di psicologia studiati, leggevo proprio questa definizione dell’ “intelligenza”: “ la capacità di adattamento a situazioni nuove”. Ebbene, senza falsa modestia, diciamo pure che a noi ponzesi “un pizzico d’intelligenza non manca”.

Ciò precisato, passiamo ad esaminare il testo che dividerei in due periodi:

  1. Dall’insediamento di Antonio D’Arco e famiglia, 1860 circa al 1903, arrivo delle autorità francesi.
  2. Dal 1903 al 1958 quando i galitesi lasciarono definitivamente la loro isola.

a) Primo periodo

Il duro lavoro.
Antonio D’Arco giunge in quest’isola completamente disabitata, con  la sua famiglia. Nei primi cinque anni sono gli unici abitanti di La Galita che, assieme alle altre due famiglie sopraggiunte più tardi, in un tempo assai breve disboscano, dissodano terreni in forte pendio proteggendoli con le parracine (i muri a secco in pietra lavica , dichiarati patrimonio dell’umanità dall’UNESCO) seminano, piantano alberi da frutta, addomesticano i tanti animali che vivono allo stato brado, scavano nella roccia la casa, così come fecero i loro antenati venuti a Ponza nella seconda metà del ‘700. Ma attenzione. I primi abitanti di Ponza si avvalsero anche dei forzati per “piegare l’aspra natura dell’isola alle loro esigenze”. Le famiglie D’Arco, Mazzella e Vitiello dovettero fare tutto da soli, confidando unicamente nelle proprie braccia e “in un tempo assai breve” come osserva in sostanza lo stesso autore.

La dimora: Antonio D’Arco ricava la casa per sé e la famiglia in un costone roccioso, così come i suoi avi e contemporanei usavano  fare a Ponza. Ma Antonio ha una famiglia numerosa, tre figlie e quattro figli che la dimora ipogea, al massimo di due vani e mezzo, non può ospitare tutti, la notte. Occorre evitare la promiscuità, allora ecco il colpo di genio:  botti e barili spiaggiati qua e là lungo il perimetro dell’isola, sono  ottimi rifugi notturni per i ragazzi, adattati come “studio”, si legge nel  testo originale, ma nel senso francese di “monolocali”, con un po’ di paglia per materasso e con il vantaggio di essere “manovrabili” e posizionabili in modo favorevole a seconda della direzione del vento. E qui non può non venirci alla mente il filosofo greco Diogene di Sinope  (contemporaneo di Alessandro Magno), fondatore della scuola cinica assieme al suo maestro Antistene, Sec. IV a. C. i quali praticavano una vita estremamente austera. Ebbene, Diogene viveva in una botte aperta da un lato, era quella la sua dimora! Come unico bene, oltre alla botte presa in prestito dal Tempio della dea Cibele, aveva   una lanterna per “cercare l’uomo” (per saperne di più Wikipedia “Diogene di Sinope”)

Diogene e Alessandro Magno

Insomma Antonio D’Arco, senza saper leggere né scrivere e quindi, senza aver studiato filosofia, trova la soluzione ad un suo problema, scrutando con attenzione l’ambiente che lo circonda, allo stesso modo del filosofo Diogene, vissuto oltre due millenni prima.

Una vera vita da cinico. Nel dissodare i terreni e nel corso del duro lavoro dei campi, il nostro pioniere trova un vero tesoro: una notevole quantità di monete d’oro! (non sappiamo se nel classico baule, oppure interrate qua e là). Al suo posto qualcun altro si sarebbe immediatamente allontanato da quel luogo dal panorama stupendo, ma “fuori dal mondo” e – con quel tesoro custodito gelosamente – avrebbe raggiunto con la famiglia una grande città, magari Napoli, per viverci dignitosamente, “di rendita”. Ma Antonio D’Arco è di ben altra tempra. Conserva quelle monete perché ha una famiglia numerosa da mantenere, con un minimo di decoro. Se fosse stato celibe, le avrebbe lasciate là dove si trovavano, tanto è vero che, sentendo vicina la fine, sotterra un bel po’ di quel “bendidio” che ritiene superfluo. Siamo ben lungi dalla mentalità degli eroi di Stevenson  (“L’Isola del Tesoro”, in cui il pirata Silver John  contende il tesoro al giovane Jim) e di Dumas ( “Il Conte di Montecristo”, dove Dantes usa parte del tesoro ritrovato per punire severamente chi lo ha rovinato); sia gli uni che l’altro anelano ad “una vita più che agiata”.  Antonio D’Arco, invece,  preferisce una vera vita da cinico alla maniera di Antistene e Diogene.

Dal ratto delle… galitesi,  alla società fondata sulla parola data.

Ogni società cresce e progredisce grazie ai suoi componenti che via via si riproducono e si moltiplicano. Con grande senso di humor, Vitiello ci narra di un rapimento incrociato di ragazze, in cui – per questioni d’onore – sono coinvolte due famiglie, tra le prime stabilitesi sull’isola. Del resto, senza autorità civile ed ecclesiastica, il matrimonio tradizionale in loco non è possibile, e poi avrebbe un suo costo! E qui consentitemi un’altra digressione storica: Il ratto delle Sabine. Tutti conosciamo il come ed il perché avvenne quell’episodio agli albori della Civiltà Romana, per cui non possiamo non riscontrare una certa analogia…


Antonio Canova – il ratto delle Sabine

Ma la vita di una comunità senza le varie autorità preposte, può svolgersi regolarmente? Leggendo questo saggio-memoriale sembra proprio di si, almeno in una comunità “al suo nascere” come in questo caso, in cui questo sistema “primordiale” regge alla grande per oltre 40 anni ( dal 1860 al 1903) . Una micro società in cui la parola data vale come cento atti notarili , osserva sagacemente Vitiello. “L’esperimento” è considerato un modello di “ società anarchica, in cui è possibile vivere e convivere senza lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo …” come afferma Umberto Segnini in La Galite, Isola degli Anarchici, riportando le dichiarazioni di un vero anarchico francese che l’aveva visitata verso la fine dell’ ‘800.

Però, a mio avviso, una società “anarchica”, intesa come convivenza pacifica tra più soggetti, senza gerarchia alcuna e fondata sul rispetto reciproco, si è verificata – come esempio più unico che raro – a La Galite, popolata da circa  200 persone ed in un particolare contesto storico. Quando questa cerchia si allarga con elementi esterni, le cose un tantino si complicano; ce lo dimostra l’episodio del giovane pastore che vende l’agnello ai minatori “venuti da fuori”. Questi ultimi insistono che l’agnello pesa 7 chili e non 10 come sostiene il ragazzo. C’è l’intervento dello zio che pesa l’agnello: 10 chili. I minatori – in disparte – minacciano il ragazzo: Te lo pagheremo a colpi di coltello. Interviene lo zio armato di pistola e pugnale riducendo i prevaricatori a più miti consigli. Ma qui usciamo dalla società “idilliaca” degli anarchici ed entriamo in pieno Far West, in cui domina “la legge del più forte” e “dove le pistole dettano legge”.

Ciò dimostra che in una società un tantino più complessa, non tarda a palesarsi l’ Homo homini lupus, per cui escono dalla porta Proudhon, Tommaso Moro, Rousseau … ed entra dalla finestra Thomas Hobbes col suo Leviatano.

Perciò i detrattori delle teorie anarchiche (che per me rimangono utopistiche ed irrealizzabili) hanno avuto ed hanno gioco facile, nel rappresentarle come fonte di disordine e di caos, non tralasciando atti inconsulti ed irresponsabili di certi “anarchici”.

[Qualche commento su “l’ile de La Galite” di Achille Vitiello (1) – continua]

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