Ambiente e Natura

L’isola che abbiamo dimenticato: la Galite (5)

di Biagio Vitiello

 

per la quarta parte (leggi qui)

 

dal libro L’ile de la Galite di Achille Vitiello (quinta parte)

La vita quotidiana sull’isola senza autorità legale.

Fino al 1903 non c’è alcuna autorità legale a La Galita, ma la gente in quell’epoca non ne ha affatto bisogno. Rispettano le regole della parola data e tutto fila liscio. Un esempio di tali regole: quando qualcuno comincia a dissodare il terreno ai piedi di una collina, inizia su una data larghezza di terra e, fino alla sommità, tale larghezza viene censita di sua appartenenza.  Nessuno si permette mai di stare di fronte a lui, senza chiedergli il permesso. Si mette a dissodare di fianco  e così via. Così la gente di La Galite non possiede alcun documento di proprietà, e questo sino a due anni prima della fine del protettorato.  Però tra i galitesi non accade  mai la minima contestazione in merito alla proprietà dei terreni. Lì, una parola data vale come tutti i rogiti notarili e, se per sua disgrazia qualcuno venisse meno alla sua parola, diventerebbe  una nullità per il resto della sua vita.


Mia sorella Jeannette con mio zio Silverio Vitiello e il fratellino Toussaint.
Dietro, un albero da frutto in fiore e, accanto, le palette di Barberia

Con l’insediamento di questa popolazione, sull’isola c’è una vita intensa. Verso la fine di Aprile arrivano i corallari del Bastione di Francia, i velieri da Torre del Greco, con cinque o sei barche a bordo ed i velieri-vivaio con i pescatori d’aragoste. I galitesi iniziano ad avere barche, si dedicano sempre di più alla pesca delle aragoste che vendono agli italiani. I pescatori stagionali si sistemano lungo la spiaggia e, spesso, portano con loro le famiglie.

Una di loro, in particolare, è la famiglia  Scarpato ( Sciammereca) di Ponza, che da lungo tempo viene tutte le estati. La donna, Lucia, spesso sostituisce il marito al timone e, nei giorni di festa, organizza le preghiere e le processioni attraverso la Galita, soprattutto per la  festa di  “San Silverio”. La gente di La Galita commercia solo con gli armatori italiani; vendono loro aragoste e coralli e i velieri portano loro il materiale da pesca, cibo e indumenti. Nel mese di ottobre ripartono tutti e i galitesi rimangono soli fino alla primavera. Gli italiani venivano a pescare liberamente fino all’inizio della seconda guerra mondiale. Molti siciliani vengono a fare la stagione della pesca, fanno anche la salagione di gavaroni ( rotunni n. d. t.) sardine e sgombri. Si tengono in disparte dagli altri pescatori ( avann ‘a rott ) e nessuno di loro ha mai provato di stabilirsi definitivamente


il gozzo Maria Annunziata

Tra i velieri-vivai ce n’è uno proveniente dall’isola di Ponza, l’armatore si chiama Michele Conte e i galitesi commerciano soprattutto con lui. Tutte le estati prende le aragoste e porta le merci ordinate, fa i conti solo a fine estate e i galitesi non vedono molto il colore dei soldi. Sembra che Antonio D’Arco, quando arrivò a La Galita  a dissodare la terra,  abbia trovato una quantità assai importante di monete d’oro. Tutti gli anni ne dona qualcuna a quel Michele Conte che gli porta della merce e un po’ di soldi. Un anno, uno dei figli di Antonio si ammala; un pescatore siciliano di Trapani, gli propone di affidargli suo figlio alla fine della stagione, per farlo curare, e glielo avrebbe riportato nella primavera successiva. Antonio D’Arco accetta e dona alcune monete a suo figlio Domenico. Domenico D’Arco resta in Sicilia tutto l’inverno, si fa curare e ritorna a La Galita con la merce e con molti più soldi di quelli che gli portava Michele Conte. Quest’ultimo non avrà più una sola moneta da Antonio D’Arco! Antonio D’Arco utilizza quell’oro unicamente per vivere e non si considera affatto un uomo ricco. Alla fine dei suoi giorni disse:

La terra me le ha donate e, se ne avrò ancora, le restituirò alla terra.

Prima di morire,  seppellisce una parte delle monete che gli restavano. Corsero delle voci che il più giovane dei figli l’avrebbe visto seppellire le monete e, un po’ di tempo dopo la morte del padre, le avrebbe recuperate ricavandone un buon profitto.


Con una puleggia tirano a secco le barche.  

La chiglia scivola su delle ciotole di zolfo e, il mattino dopo, la barca parte come una freccia

Nascite e andirivieni.

Le prime famiglie che arrivano a La Galita hanno tutte tra gli otto e i dodici figli, i quali vogliono sposarsi tra loro. Molto spesso le madri partoriscono nello stesso tempo in cui le loro figlie sono maggiorenni. Così, per esempio, i figli di mia nonna Angela Vitiello: Silverio, Antoinette e Jean, nacquero in contemporanea coi suoi fratelli e sorelle. ( I nuovi nati, nipoti e zii, avevano più o meno la stessa età  n. d. t. ). Mio nonno Achille Vitiello sposò Angela, figlia di Vincenzo Mazzella. I suoi due fratelli maggiori, Luigi ed Andrea, sposano Carmen e Celeste, sorelle di Vincenzo. D’altra parte, a La Galita nessuno divorzia. Si racconta di un unico, spiacevole caso di adulterio. Si tratta di un muratore, sposato con due figli. Un galitese ronzava attorno a sua moglie. Il muratore se ne accorse. I due si picchiarono di brutto e il muratore, gravemente ferito, morì.

Verso il 1900 arriva un’altra famiglia, quella di Antonio Mazzella, detto Bambino. Ha molti figli e si costruisce una bella casa, proprio al di sopra della Marina, la spiaggia su cui i galitesi tirano a secco le loro barche e dove ci sono delle grotte, di cui si servono per depositare i loro attrezzi da pesca ed i barili coi pesci salati, per la pesca alle aragoste.  Questo Antonio Mazzella rimane solo per un breve periodo di tempo durante l’anno. Da allora in poi, tutti gli inverni parte per Ponza o Biserta. Tra le due guerre, si stabilisce definitivamente a Biserta. Rimane solo uno dei suoi figli, Silverio Mazzella detto, come suo padre Bambino. Si sposa Anna, una figlia di Luigi Vitiello ( U Rallone, l’Airone ). Durante tale periodo arrivano altri due uomini che si stabiliscono sulle colline, come eremiti, uno si chiama Giuseppe Tavel, l’altro Palazzolo ( U Palazzuòl ). Vivono solo per lavorare sodo per gli uni e per gli altri, in cambio di un  pasto o di un po’ di soldi.

Mio padre e un cugino alla pesca di arapède [ ? ]e lumache di mare all’Isola dei Cani. Non appena riapriamo gli occhi pensiamo al cibo del giorno. Nell’isola c’è vino ed acqua dappertutto, non è affatto come Ponza che viene alimentata d’acqua mediante le navi cisterne e le bottiglie d’acqua minerale. Tutti i percorsi sono arrotondati e dipinti a calce per il recupero dell’acqua piovana. 

 

 

 

 

 

 

 

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