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La casa del silenzio

di Tano Pirrone

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Il vecchio quartiere in cui abito è diviso da una strada in discesa; da una parte, la zona più prossima a Porta Pia è più popolare, ci sono le case cresciute attorno alla Birreria Peroni, che qua si era trasferita dai pressi di piazza di Spagna fra il 1898 e il 1922. Erano, per la maggior parte, abitazioni di chi prestava lavoro alla Birreria e nei ministeri vicini.

Dall’altra, agli inizi del secolo, furono costruiti i palazzi che ospitarono i gradi più alti delle gerarchie ministeriali. Begli edifici, in un contesto urbanistico curato ed efficiente. In stile umbertino, li contraddistingue, quel modo di essere e di occupare lo spazio proprio dell’architettura torinese, e piemontese in genere, elegante, ma austera, senza nessuna concessione a inutili decorazioni (salvo i magnifici villini di Coppedè di via Savoia e di via di Villa Albani); strutture architettoniche e sistemi urbanistici specchio fedelissimo dell’animo piemontese, di chi, dalle montagne della Savoia, venne a prendere i pezzi dell’Italia, facendone, in qualche modo, una nazione.

Il vecchio quartiere al di qua della via in discesa è più silenzioso; confina con Villa Albani e su via Savoia, che sale da viale della Regina fino a via Salaria, affacciano palazzi e villini di gran pregio.
In questi giorni, come tutta Roma, è silenziosissimo, solo qualche raro autobus, quasi sempre vuoto o con pochi passeggeri sparsi. Un silenzio imbarazzante, che mi costringe a pensare ad altri silenzi memorabili. Ricordo, fra essi, un silenzio liquido, non freddo, separato, ma come colato dall’alto, a formare una pellicola trasparente, bolla vitale, silenzio assoluto, senza fruscii, stormire di foglie, transiti di aerei, frusciare d’ali: l’ho vissuto in Sardegna, sul Monte Limbara.

Poco più di mille metri ma la sensazione di stare in comunione col luogo, le sue pietre, i massi, la vegetazione e di sentirsi parte di un tutto, immerso in quest’aria impastata di silenzio, un silenzio trattenuto, frutto di scelta, di rispetto, linguaggio antico e naturale dei luoghi. Il silenzio del monte Limbara, cinquant’anni fa, un ricordo stivato nei recessi più profondi, che ogni tanto riemerge. Oggi è richiamato dall’innaturale, salvifico silenzio che custodisce la nostra consapevole quarantena, per non darla e per non prenderla, perché è giusto per noi ed è giusto per gli altri.

Il silenzio evoca silenzi e cerca complici. Dagli scaffali, dai cassetti dai pacchi semisepolti esumo appunti, dépliant, ritagli di giornali, note, opuscoli, una quantità di notizie che escono da un nascondiglio e disegnano percorsi, scenari, collane di storie. C’è di tutto; ed è opportuno approfittarne.
Fra i primi ad uscire dalla pila, e perfettamente legato al tema del silenzio, un dépliant: stampa fatta in casa su foglio A4 fronte retro, impostazione non ricercata, ma chiara, com’è chiara la scrittura, in perfetto italiano.
È la presentazione della “Cappella del silenzio” nella porta di Brandeburgo, che ricordiamo squarciata dai bombardamenti, al termine del viale dei Tigli. Berlino.

Sul lato destro della Brandenburgisches Tor, con le spalle alla piazza, si accede in un piccolo locale. La porta, dopo aver permesso l’ingresso o l’uscita, rimane ben chiusa e comprime il silenzio nel poco spazio, perché chi vuole ne usufruisca. Berlino non è una città rumorosa, ma là il silenzio è completo e permette al visitatore di reclinare in se stesso, cogliere una pausa, riprendere fiato, concedersi una riflessione.

Nel silenzio è insito
un meraviglioso potere
di osservazione, di chiarificazione,
di concentrazione sulle cose essenziali.
(Dietrich Bonhoeffer)

Questo pensiero occupa la quarta pagina, l’ultima, del foglio A4 piegato. Chi era, cos’era stato l’autore, cui la camera è dedicata; ce lo dicono i dizionari di storia: Dietrich Bonhoeffer fu un teologo luterano tedesco, protagonista della resistenza al nazismo, morto impiccato nel lager di Flossembürg.

Uno che non si tirò indietro e tornò dagli Stati Uniti, dove si era rifugiato, per compiere il suo dovere di uomo libero: lottare contro la tirannide nazista. A chi lo rimproverava di esporsi troppo rispose:
«Quando un pazzo lancia la sua auto sul marciapiede, io non posso, come pastore, contentarmi di sotterrare i morti e consolare le famiglie. Io devo, se mi trovo in quel posto, saltare e afferrare il conducente al suo volante»

Nel 1954, il Segretario Generale dell’Onu, Dag Hammarskjöld, fece predisporre per i dipendenti, una stanza di meditazione.
L’idea di creare al centro di Berlino una stanza del silenzio “interconfessionale”, è nata poco tempo dopo la caduta del muro (novembre 1989), come frutto dell’iniziativa di un piccolo gruppo di cittadini per dar forma ad un luogo del silenzio, aperto a tutte le persone credenti o no per una pausa di preghiera o di riflessione. Il luogo fu scelto proprio dove si ergeva la frontiera fra i blocchi.
Serve, il luogo – umile, lontanissimo da ogni sfarzo o caratterizzazione -, a dare la possibilità a chiunque, indipendentemente dalla provenienza, dal colore della pelle, del sesso, dell’ideologia, della religione, di entrare e soffermarsi in silenzio. Per restare in compagnia di se stesso, in accettazione di un invito alla tolleranza e alla fratellanza tra gli uomini, tra le nazionalità e le ideologie; esortazione continua contro la violenza ed il razzismo, come passi, primi e piccoli, verso la pace.

Un buco. Una insolita miniera di silenzio, ricavata nella Porta di Brandeburgo, eretta oltre due secoli fa in stile neoclassico sul lato occidentale del Pariser Platz. Una polla di silenzio, che oggi riemerge per caso, legandosi a catena col nostro silenzio di oggi, forse forzato, ma che dobbiamo usare al meglio, per essere cittadini migliori e uomini adeguati alle sfide che ci aspettano.
La nostra età (la mia, intendo, e non solo) non consiglia di intraprendere cammini impegnativi, ma possiamo essere almeno tedofori, per qualche tratto, di un sogno di pace, libertà, fratellanza ed uguaglianza, con il quale, solo, possiamo pensare di costituire una Comunità Europea, transnazionale, casa di tutti i cittadini europei, nel segno forte dei Padri fondatori.

1 Comment

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  1. Gianni Pianalto

    24 Marzo 2020 at 08:22

    La stanza del silenzio. Mi attrae e m’intimorisce l’idea di entrarvi. Mi attrae perché sento che in quel nulla, in quel vuoto di forme di suoni e rumori potrei scoprire l’incognito, l’irrazionale, l’illogico. Potrei rischiare di perdere la forza delle certezze che per una vita mi hanno raccontato ciò che era giusto e ciò che era sbagliato. Potrei perdere i riferimenti e le distanze e le misure delle pareti che da sempre hanno sostenuto l’architettura delle mie convinzioni e hanno sorretto il tetto della mia stessa identità. Potrei scoprire anche che tutto questo silenzio è fuori dalla mia portata, dalla mia capacità di tutto razionalizzare, tutto comprendere, tutto ordinare, tutto riporre al proprio posto. E, per le stesse ragioni, tutto ciò mi spaventa.
    Ma se ora rileggo le mie paure, immediatamente ogni spavento svanisce, le ho esorcizzate, perché ogni motivo di paura è diventato solo un orpello obsoleto che mi tiravo dietro, non so neanche perché, e che ora giace lì a terra inanimato, in silenzio.
    Senza accorgermene, ho oltrepassato la soglia e sono entrato nella stanza. Un senso di leggerezza mi pervade, di libertà, di meraviglia. Ora non vedo più le pareti della stanza e scopro che lì fuori c’è un mondo con nuove forme e colori e valori non più paludati di tutte le divise, gli orpelli e le maschere che ingombravano la mia mente.
    Poi una voce rompe il silenzio “è ora di andare” chiama, e con uno strano rammarico mi accingo a seguirla, ma so che presto tornerò nella stanza del silenzio perché ora non ho più paura.
    Un saluto a Tano che ci offre sempre motivi di riflessione.

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