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L’albero, Veruccio e le paure

di Pasquale Scarpati

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Ciò che ci spaventa non sono tanto le guerre o altro ma l’incertezza. Ci piace sapere, possibilmente in anticipo, dove poggiare i nostri passi, meglio ancora se il sentiero lo conosciamo già. Ripetiamo così le medesime cose, nella vita come nel lavoro.
Così nell’Isola, ad esempio, si presuppone sia la stagione turistica sia quella invernale. Già si pensa ai pontili e alle barche ormeggiate; si pensa al via vai ossessivo a cui subentra il silenzio dominante. Ambedue privi di comunicazione lunga e diretta. Sembrano stagioni immutate ed immutabili.

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Quand’ecco qualcosa che, all’improvviso, sconvolge tutti i piani.
Qual è la paura? Quella del futuro, quella di dover pensare a qualcosa di veramente nuovo.
La paura ci attanaglia, non ci fa più vivere sonni tranquilli. Perché non ci piace brancolare nel buio o stare come in una barca in mezzo al mare in tempesta, in una notte senza luna e senza stelle, senza nessun punto di riferimento neppure una fioca luce di una lanterna lontana.
Le certezze vengono meno nonostante le mille assicurazioni.
Navighiamo a vista ma senza vedere, scrutando nel buio e aguzzando la vista. Ma non abbiamo molta fiducia in essa, abituati, come siamo, ad avere la tecnologia a portata di mano che fino ad ora ci ha dato tutto e subito e sembrava invincibile. Invece neppure lei ci aiuta abbastanza, anzi abbiamo paura che faccia confusione. Abbiamo paura, inoltre, che la nostra vista non sia troppo buona, che un altro ci sopravanzi. Non sappiamo, insomma, come comportarci per cui siamo presi dalle ansie e dalle paure.

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D’altra parte una vocina ci dice di stare tranquilli e di avere fede. Di credere, che certamente sorgerà l’alba e poi l’aurora. Ma lo stesso abbiamo paura perché, quando sorgerà, non sappiamo dove la corrente ci avrà trascinati dove toccheremo terra. Avremo paura di doverci di nuovo rimboccare le maniche e ricominciare tutto daccapo. Ma questa è l’ultima delle paure perché, abbandonate le tramontate certezze, ognuno ricomincerà per una propria strada possibilmente facendo tesoro dell’esperienza del passato.
Non tutto però cambierà. Certe cose devono restare per forza: è la base da cui ripartire. Cambieranno le prospettive e con esse le idee.
Potrebbe cambiare, ad esempio, anche il turismo: dappertutto. Estendendo, a proposito dell’Isola, anche la stagione turistica con l’interrogare ed illustrare la natura, le antiche pietre, gli antichi scritti e le antiche usanze anche culinarie.
Si potrebbero evitare gli assembramenti…

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Questo pensavo appoggiato al muretto da dove lo sguardo può abbassarsi ad ammirare il mare cristallino e ’a schiena ’i ciuccie dall’alto della falesia e la costa che degrada verso il Fieno e, dopo che si è saziato di quella miriade di colori, può allungarsi su su per le colline verso i Conti e le piccole valli con le catene coltivate o desolatamente abbandonate. Osservare le ginestre ed i filari di vite messi in ordine, immaginare gli asini che brucano l’erba scodinzolando la coda per cacciare via le mosche che, numerose, li aggrediscono punzecchiando le zampe già segnate da piaghe invano protette da luride pezze: un tremito ne pervade una che poi brevemente si solleva in un movimento nervoso. Ma quelle prima si allontanano, poi, imperterrite, si avventano di nuovo sul sangue che rosso riga gli stinchi.

Assorto in questi pensieri non mi accorgo della presenza di Veruccio.
Il mio sguardo forse gli appare ansioso e preoccupato per tutto ciò che sta succedendo.
Mi guarda con occhio placido e pacatamente inizia a dire: – Non ti preoccupare. Lo vedi, laggiù… c’è un albero che nel rigore del grigio inverno ha perso le foglie. Tu, adesso, puoi vedere ed osservare le sue forme nella loro interezza. Puoi notare, cioè, com’è fatto realmente. Puoi notare che un ramo si allunga verso l’alto e pare che voglia rivolgersi al cielo in una muta preghiera; un altro si spinge verso l’esterno e, come i giovani lasciano il tetto dei genitori per inoltrarsi nella loro vita, così quello sembra quasi volersi creare una sua nuova esistenza fuggendo dal ramo che pure lo alimenta; un altro, piccolino, semi nascosto tra due rami grossi e nodosi, pare timido e sembra dire: lasciami in pace; altri ancora, molto sottili, si intrecciano e si accavallano per darsi forza tutti insieme forse perché consci della loro fragilità. Quelli più grossi che assomigliano a zampe di elefanti sono anche costellati da buchi di diverse dimensioni forse nidi di formiche o di altri insetti.

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L’albero adesso si mostra a te nella nudità della sua bellezza. Ti è stato donato: tu puoi, con la tua fantasia e la tua creatività, adornarlo come meglio credi oppure puoi lasciarlo così com’è, se ti piace. Tale è. Non ci sono, infatti, foglie che se da una parte lo abbelliscono, dall’altra possono nascondere la realtà. Esse nascono di qua e di là in primavera con l’ingrossamento delle gemme. Piccoline danno all’albero un’altra bellezza perché lo punteggiano ed i colori si alternano. Sbocciano , altresì, i coloratissimi fiori che, fragili, tremolano e si aggrappano al ramo, ma sono talmente delicati che basta un soffio di vento o uno sbalzo di temperatura per farli volar via o morire. Così il frutto svanisce. Le foglie, intanto, crescono e si infoltiscono celando ciò che realmente le sostiene. Sotto l’impetuoso vento di maestrale o di ponente o di levante fluttuano, quindi, a destra e a manca. Il vento le sferza e, se è troppo impetuoso, potrebbe far spezzare il ramo a causa della loro resistenza. Anche tutto l’albero potrebbe essere danneggiato se non divelto.
Ma, quando dal mare si alza e scivola sul terreno la lieve brezza che mitiga la calura, le foglie stormiscono, mormorano, bisbigliano. Offrono ricettacolo agli uccellini ma anche agli insetti. Danno ombra agli uomini e agli animali e nello stesso tempo fanno vivere l’albero. Insomma lo fanno crescere e sembra, altresì, che lo rendano più bello. In realtà l’uno non può stare senza le altre: le foglie lo nutrono ma l’altro le sorregge. Ma mentre il primo, se ben curato, è destinato a durare per tanti anni se non per molti secoli , specialmente se possiede radici salde e profonde, quelle sono destinate, in breve tempo, a diradarsi e a cadere per lasciare il posto alle altre che verranno. Ma se, durante il freddo inverno, non si interviene con la carezza della potatura, le nuove foglie ed i nuovi frutti saranno sempre più piccoli e malaticci.
Bisogna, però, saper potare: bisogna che le lame delle forbici diano un tocco sapiente, bisogna osservare la gemma che rigogliosa crescerà, bisogna che l’albero venga indirizzato secondo l’umana volontà in modo che dia foglie più robuste e frutti più grossi e succulenti; sempre comunque nel rispetto della natura dell’albero stesso.
Abbi fede, quindi: dopo lo spoglio inverno, verrà una più folta e meravigliosa primavera e a seguire l’afosa stagione estiva, poi l’umido autunno che colora le foglie e le fa cadere e di nuovo l’inverno. Ma lui, paziente, rimane sempre lì, ben piantato.

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Mentre Veruccio parla mi sono chinato ad osservare un filo d’erba che ostinatamente ha resistito al vento marino o a quello, freddo, che cala giù da Trebbiente. Mi chiedo come mai, lui solo, pur sembrando così fragile, abbia resistito al freddo e alle intemperie. Penso: – Avrà una forza innata, ma nello stesso tempo non posso escludere che gli altri fili prima di morire abbiano sparso dappertutto il loro seme. Trasportati dal vento attecchiranno e cresceranno per ogni dove generando altri semi. Non possono dimenticare le loro origini fino a che il tempo non seccherà anche loro.
Ora, in merito a ciò, voglio ascoltare anche il pensiero del mio acuto interlocutore. Però, quando mi sono alzato, non l’ho più visto: sparito. Ho allungato l’occhio a monte e a valle: nulla.

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Penso: – Cosa mai avrà voluto dire? Mah …prima o poi lo incontrerò di nuovo e glielo chiederò.
Mille pensieri affollano la mente, spaziano dappertutto, fanno però una gran confusione come una matassa ingarbugliata.
Ma il sole mi dice che devo rientrare a casa dove mia cugina mi aspetta non senza aver preparato qualche calamaro ’mbuttunato” o qualche saporito merluzzo oppure, meglio ancora, quattro semplici, saporiti rutunni (merce introvabile dove abito). Pregusto già il tutto, ma soprattutto le quattro chiacchiere che ci riportano indietro nel tempo e ci portano nella presente situazione, in un continuo andirivieni .
Mi affretto perché sicuramente è anche un po’ preoccupata dal momento che non ho con me l’onnipresente telefonino: pregustando “la Panoramica”, ho trovato il modo di lasciarlo da qualche parte!
– Meglio così! – pensa Pasquale