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E’ nu cunto… (4). Bagno Vecchio

di Francesco De Luca
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Nella piccola cala di Bagno Vecchio, entrando, a destra, c’è uno scoglio a pochi metri dalla riva. E’ piatto e fuoriesce dall’acqua quel tanto che permette di utilizzarlo come base per depositarvi l’occorrente e sostarvi a piacimento.
Vi andavamo quando portavamo a mare i figli piccoli. Borse, asciugamani, giocattoli, pinne. Tutto lì. Intorno il mare con poco fondale, qualche patella, i rufele (1) nei buchetti… insomma un ottimo posto per il bagno coi bambini.

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Quando entrai con la barca, pur essendo mattino presto, era già stato occupato, La cosa mi urtò. Un bellissimo giorno di luglio, caldo, mare piatto, ideale per goderlo stava già deteriorandosi. Mi infastidiva dover decidere un altro posto dove soffermarmi. Lo so, sembra strano, ma da isolano mi sembrò d’essere stato depredato di un diritto. Mi sentivo padrone dell’isola e vedere negata la presunta mia signorìa dal flusso notevole dei turisti, mi mise di cattivo umore. E’ un sentimento naturale ma da non approvare perché nessuno è padrone di alcunché su questa terra a meno che non si tratti di frutto della propria intelligenza e del proprio operato. Ora, se una cosa è assodata è proprio il fatto che il ponzese si trova a vivere in un luogo la cui bellezza non è da imputare né alla sua intelligenza né al suo operato. Dovremmo esserne soltanto i custodi attenti e fieri.
Mi venne in aiuto la conoscenza del luogo. Girai la prua della barca e mi portai tutto a sinistra dove, poco lontano, si stende una spaziosa piana di roccia grigia, che si protende nel mare formando, dietro, una minuscola insenatura, appartata e riparata. Per i bambini non ideale perché la riva è tutta sassi, di quelli che impediscono il regolare cammino. Mia moglie infatti storse il naso.

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Da giovane le piccole divergenze coniugali si superano facilmente ma in seguito la convivenza amplifica ogni contrasto e rende il vivere insieme una vera e propria opera d’arte. Perché? Perché col passare degli anni bisogna imparare a tollerare, talora a simulare concordia, talaltra a non dar peso, insomma una vera impresa che, se dura, è un’opera d’arte.

La digressione palesa che la mia età si può permettere queste considerazioni e che non è stato poco l’impegno profuso in tale opera. Ora… la curiosità indotta in voi porterebbe a che mi dilungassi sui retroscena di quanto scritto ma… non posso… ho l’esigenza di proseguire la cronaca di quella giornata al Bagno Vecchio.

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Orbene, mentre i familiari si disponevano sulla riva con un certo malumore, io fui attratto da un grottone che si apriva davanti. C’è infatti a pochi passi un ampio vano che ha un’uscita dall’altra parte, sulla cala del Bagno Vecchio. Così chiamato, questo posto, perché ospitava un ‘bagno penale’, giacché vi erano costretti prigionieri che lavoravano per estrarre pietre dalle cave. Queste sono evidenti nella parete della roccia in alto. Sono tagliate in modo regolare e da esse venivano ricavate pietre da fabbrica, le cosiddette ‘pietre di Ponza’. Sto parlando del 1700 e del 1800. Nell’antro, dove mi trovavo, sono ancora evidenti i cerchi di ferro alle pareti, in essi passava la catena che teneva legati i prigionieri.

Negli angoli riposti resti di sterco e da un lato lo scafo di un gozzo. Tutto smangiato nelle murate mentre il trave della chiglia dava spettacolo perché portava ai lati, come costole scarnificate, le ordinate dello scafo. Alcune intatte, alcune divelte, altre rotte. Sembrava una carcassa lasciata alla voracità del tempo. Eppure era stato uno strumento di vita perché con quei gozzi lì, a remi e a vela, senza motore, i Ponzesi trassero dal mare il sostentamento.

Però… come fecero a portarlo in quell’antro che è ad una certa altezza dal mare? Ci saranno volute tante braccia e forze e sive (2) sulle falanghe. E poi… perché portarlo lì? Per farlo deperire in pace? Non è possibile che fosse stato messo a riposo provvisorio. Di solito una barca da usare sta su una spiaggia, vicino ad uno scalo d’alaggio… a portata di mano insomma. Quella, in quello speco, era stata lasciata perché finisse i suoi giorni. E li aveva finiti infatti. Ma… qualcosa era rimasta. Davvero? E cosa ?
C’erano chiodi, corde di vario tipo, legname, materiale portato dal vento, giacché la grotta ha due aperture: una a levante, e quando quel vento mena (3) lì dentro deve essere un luogo dove arriva di tutto.

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Mia moglie intanto mi chiamava. Voleva indurmi ad andare via da lì perché i figli piccoli trovavano difficoltà a muoversi fra i ciottoli. O stavano in acqua oppure… si lamentavano. E lei amplificava questo malumore. Lo supponevo e… facevo finta di non sentire. Rovistavo con gli occhi il terreno. E… fra la terra intravidi un ferro. Era una cucella (4). Quell’arnese che serve per lavorare le reti o per costruire le nasse. Alle estremità dell’arnese ci sono due forcine che trattengono il filo per ammagliare o per annodare. La prendo. E’ di ferro. Come di ferro? Non è possibile… le cucelle tradizionali sono di legno. Un legno morbido e flessibile. E perciò incapace di resistere nella terra umida. Marcisce presto… Quella era di ferro arrugginita. La presi. Quasi soddisfatto del ritrovamento ridiscesi fra i miei.

Mia moglie mi dimostrò in modo visibile il suo disappunto. L’approdo era buono ma inadatto ai bambini. Eppoi, sebbene riparata, quando passavano i grossi motoscafi le onde provocate, quelle maledette onde, agitavano lo scafo della barca e il gambo del fuoribordo toccava gli scogli. Insomma era avvelenata.
– Va bene – dissi – si cambia.
– Come mai tutto quel tempo nel grottone? – chiese.
– Niente… ho guardato un po’ in giro… ho trovato questo oggetto…” – e mostrai la cucella.

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La barca procedeva verso lo sperone del faro della Guardia. Un rampino di roccia che si protende nel mare con gli uncini, il faro sopra severo e avvilito.
– Mamma, mamma… guarda là… le caprette. Punti bianchi e neri si muovevano sulla scarpata della scarrupata (5) ma io…dovevo badare alle onde trasversali provenienti da destra e da sinistra, per il passaggio dei motoscafi maledetti e poi… stavo pensando ad alcune cose che riguardavano quel relitto e il suo proprietario e la loro vicenda.
L’indomani, a terra, cercai qualcuno che potesse ragguagliarmi. Pensai a Silverio ’i Maurino, meccanico e fabbro, figlio di fabbro. Gli feci vedere la cucella di ferro e lui, senza esitazione: “E’ ’i Ninotto capatonna”.
– E chi è? – mi venne spontaneo.
Pateme ( 6)iniziò – lo conosceva bene. Gli forgiava quel tipo di cucella perché le altre, quelle di legno, a lui si rompevano nelle mani. Era di sopra Giancos. Io me lo ricordo appena. Nel dopoguerra ha lasciato Ponza ed è emigrato in America. Ha un figlio… ogni tanto viene. Ha la casa. Il gozzo che hai visto è il ‘san Cristoforo’. Lo mise nel grottone del Bagno Vecchio per toglierlo dalle intemperie e… invece è andato a morire lo stesso. Anzi… lo mise lì perché quel grottone è di proprietà della moglie, di sopra gli Scotti.

L’arcano era stato svelato. Da buon ponzese Ninotto capatonna aveva cercato di salvaguardare l’attività primaria svolta a Ponza, nel caso la sua andata a New York fosse fallita. Perché era a Ponza che voleva tornare.

Seguii un’idea balzana ma possibile con i mezzi telematici. Scrissi su facebook: – Ho trovato la cucella di ferro di Ninotto capatonna. Se qualcuno è interessato si metta in contatto con me”. Dopo qualche giorno ricevetti questo messaggio:
“cucella bella
ch’a ruzza magna
pe’ me tu si’
’a meglio cumpagna (7)
– Era la strofa che mi ripeteva mio padre – mi rispose Salvatore, il figlio di capatonna Adesso non c’è più e io a Ponza ho venduto casa… non vengo.

[7]

Il Bagno Vecchio sta là, col suo grottone e dentro il relitto che si sfalda di anno in anno. La bellezza del posto è un regalo della natura. Intessuto con le storie degli isolani quel posto acquista più fascino. Specie se ci si va di buon mattino e ci si appropria dello scoglio a mezz’acqua che sta a destra, entrando.

 

Note
(1)
– lumache di mare;
(2) – sego ovvero grasso per ungere i pali sui quali scorre lo scafo;
(3) – infuria;
(4) – strumento di legno con avvolto il filo per intessere le reti;
(5) – falesia da cui si staccano massi;
(6) – mio padre ;
(7) – cucella bella – che la ruggine mangia – per me tu sei – la migliore compagna.

Per le immagini: le prime tre foto dell’articolo dal blog Frammenti di Ponza. Lo scheletro della barca all’interno della grotta, di Silveria Aroma