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27 gennaio. Il Giorno della Memoria

proposto dalla Redazione
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La ricorrenza del giorno della Memoria, il 27 gennaio di ogni anno, ha la sua precipua funzione nel riportare d’attualità e ragionare intorno a quel periodo oscuro della storia in cui la ragione e l’umanità stessa vennero perdute. Quest’anno “ricordiamo” attraverso un bell’articolo retrospettivo di Ezio Mauro, ex direttore de La Repubblica, dello scorso settembre, in recensione di un libro impegnativo di Walter Barberis: “Storia senza perdono”.

Si è stabilito di celebrare il Giorno della Memoria ogni 27 gennaio perché in quel giorno del 1945 le truppe dell’Armata Rossa, impegnate nella offensiva Vistola-Oder in direzione della Germania, liberarono il campo di concentramento di Auschwitz (Wikipedia).

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La memoria e la storia divise dal Male
di Ezio Mauro

Come può un evento come l’Olocausto passare da esperienza personale a ricordo collettivo? E a che prezzo? Con quali rimozioni? Politica e riflessione sul passato nel saggio di Walter Barberis

Come nasce la scintilla della coscienza, che dal fuoco dell’esperienza individuale incendia la memoria collettiva? È un passaggio travagliato, faticoso, pudico ma insieme invadente, soprattutto quando ricordare, condividere, conoscere e sapere riguardano l’indicibile più ancora dell’incredibile. Nulla spiega questa tensione tra il dovere della testimonianza e il tormento del ricordo più della Shoah.
Quando scrisse Se questo è un uomo, Primo Levi pensò che valeva la pena documentare quel che aveva vissuto nel Lager perché «queste cose erano finite».
Nel 1973 aggiunse: «Adesso non sono più finite, bisogna parlarne di nuovo».
«Valeva la pena»: mai come in questo caso l’espressione ricrea la realtà. Pena, cioè angoscia, pietà, sofferenza, patimento.
Questo spiega, almeno in parte, perché nei primi dieci anni dalla fine della guerra prevalse il silenzio, addirittura esaltato da Piero Calamandrei che nella risposta al feldmaresciallo Kesserling («Lo avrai, camerata Kesselring/ il monumento che pretendi da noi italiani/ ma con che pietra si costruirà/ a deciderlo tocca a noi./ Non coi sassi affumicati/ dei borghi inermi straziati dal tuo sterminio/ non colla terra dei cimiteri») ne fa l’elemento fondante della sua epigrafe di denuncia dell’ignominia nazista: «Ma soltanto col silenzio dei torturati/ più duro di ogni macigno».
Per chi aveva conosciuto i campi di sterminio la memoria aveva un peso sproporzionato, non ancora spartito in una condivisione nazionale, non elaborato dalla letteratura, non analizzato culturalmente. Nell’individuo solo, di fronte all’inconcepibile che aveva visto realizzarsi, si mescolavano il sentimento del danno ingiusto e comunque irreparabile, e il sollievo della salvezza patito intimamente quasi come una colpa. E la memoria era un obbligo interiore.

Mancavano addirittura le parole — strage, sterminio di un popolo, genocidio — per dire a tutti quel che avevano davvero visto e subito in pochi, col rischio di non essere creduti, nell’allucinazione del dolore. Era troppo: per essere sopportato, naturalmente, ma ancor più per essere trasformato in un racconto portato in un discorso pubblico che intanto era comprensibilmente dominato dall’epica antifascista, subito tradotta nella letteratura con Cassola, Pratolini, Calvino, mentre lo stesso Levi veniva trascurato da Pavese, Vittorini, Natalia Ginzburg e Giulio Einaudi.
Il racconto ancora silenzioso dei Lager non aveva eroi ma soltanto vittime, e le singole tragedie individuali sopravvivevano solitarie senza dare forma a un’epica nazionale del dolore e del sopruso disumano.

Il silenzio, naturalmente, copriva anche le colpe e le compromissioni, le negligenze e le complicità. Si taceva, dunque, come se il lutto fosse troppo profondo per essere esposto e pronunciato. E intanto gli scampati camminavano nelle strade liberate dell’Italia portando da soli il gravame delle atrocità che avevano incontrato e la responsabilità intatta e intera della memoria.

Da qui parte Walter Barberis nella sua ricognizione scomoda sul percorso del riconoscimento dell’orrore (Storia senza perdono, Einaudi; 2019).
In quegli anni, dimenticare sembrava una risorsa democratica o almeno civile per uscire definitivamente da un’epoca maledetta, per risanare gli Stati, le loro zone d’ombra, la comunità sociale che immaginava un futuro, gli individui.

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Levi
capì per primo che scrivere era più facile, era un affidamento, un’oggettivazione, una presenza-distanza, che attraverso la lettura chiedeva non solo attenzione, ma riflessione. «La scrittura fu come l’acqua, lenta a infiltrarsi nel corpo di una società refrattaria e indifferente, ma inarrestabile. Ci vollero anni. Ma i testi che presero a ragionare sulla Shoah divennero pietre miliari della coscienza civile».

Non solo, divennero anche pietre d’inciampo per chi preferiva occultare, continuava a banalizzare, provava ancora a negare. Una volta scritte, quelle parole non erano eludibili. Pesavano. Pretendevano. C’erano, e non si potevano più ignorare.
Nei libri, attraverso il disvelamento dell’orrore, arrivava anche per chi scriveva e per chi leggeva la domanda fondamentale che ancora ci perseguita: perché? Era la prima reazione della coscienza davanti alla conoscenza dell’accaduto.
Poi, inevitabilmente, la riflessione procede, e dalla realtà esterna dei campi passa a noi stessi, entra nelle zone più buie dell’umanità: com’è stato possibile, com’è potuto accadere, come siamo arrivati fin qui? E infine il terzo passo, quando affiora la responsabilità e la domanda si fa per forza di cose politica: potrà ancora accadere? Quell’evento che era stato unico, tanto da chiedere conto a Dio della sua enormità, avrebbe potuto nuovamente ripetersi?

Così con Anna Frank, Wiesel, Poliakov e Levi l’analisi si allarga necessariamente all’antisemitismo, al razzismo, alle loro origini, alla loro crescita, alla mancanza di anticorpi, al venir meno di una logica dell’umano. Attorno al racconto dei Campi, ecco «un prima, un dopo, un fuori da quel precipizio».

I documenti prodotti al processo di Norimberga articolarono l’accusa, e la illustrarono al mondo spettatore. Ma la svolta fu quando irruppero le persone, testimoniando la passione della tragedia al processo contro Adolf Eichmann a Gerusalemme. «Il tavolo veniva rovesciato — spiega Barberis —, l’impersonalità delle carte e persino dell’uomo in stato d’accusa, con le sue movenze da marionetta, veniva contrapposta alla dolente umanità delle decine di testimoni che sfilavano di fronte alla Corte. Gli ebrei si riprendevano la scena», passando davanti alla gabbia di cristallo antiproiettile che proteggeva il loro aguzzino, i reduci prendevano il loro posto da protagonisti.

Attraverso i libri, le parole, i documenti, i processi, le testimonianze, si passava dall’individuale al collettivo, si disegnava il perimetro della vicenda, prendeva corpo una memoria allargata e condivisa. Reduce, testimone, accusatore e giudice, il sopravvissuto era lui stesso la “prova” dell’accaduto. Perché gli scampati, ricordava Elie Wiesel, hanno da dire su quello che è successo «più di tutti gli storici messi insieme». Ma Wiesel, sopravvissuto ad Auschwitz e a Buchenwald, dice anche un’altra cosa, terribilmente vera: «Solo coloro che vi passarono sanno cosa fu, gli altri non lo sapranno mai».

È qui che tocchiamo con mano il limite della memoria, la parzialità della condivisione, lo scarto tra il prima e il dopo: nella differenza tra sapere e soffrire, comprendere e patire, vivere-morire e raccontare. Chi ha visto coi suoi occhi la Shoah porta impressa nella carne e nell’anima l’estremo della disumanità. Può comunicarla alle emozioni e all’intelligenza di chi lo legge e di chi lo ascolta, ma un conto è essere stati all’inferno, un altro conto è dire com’era. Non è un problema di fedeltà alla realtà, di esattezza del racconto.

Si può essere perfetti nella narrazione, ma la distanza tra l’esposizione all’orrore e la sua ricostruzione resta incolmabile, e segna inevitabilmente anche una distanza tra chi testimonia e chi ascolta. È come se il reale fosse ancora e sempre così incandescente da non poter essere maneggiato, penetrato, distribuito e consumato. Per una volta — ecco dove arriva l’unicità dell’Olocausto — l’esperienza della verità non riesce a essere riprodotta e trasmessa nella sua potente e spaventosa interezza.

Probabilmente, di conseguenza, non può essere intesa per intero. Questo, credo, è il supplizio postumo dei sopravvissuti, essere soli a sapere fino in fondo, a capire attraverso il patire, ad aver visto fin dove arriva il precipizio dell’abisso. Noi, tutti, ascoltiamo, leggiamo, impariamo e conosciamo da una condizione radicalmente diversa, che sposta la qualità della memoria, l’intensità della coscienza.

Soprattutto, noi giudichiamo e condividiamo da un “altrove”, e a posteriori. Questo scostamento dello spazio e del tempo spiega la distanza e la differenza. Che possono almeno in parte essere colmate dall’ingresso della storia, chiamata a sistemare la memoria, a raccordare le esperienze, a spiegare.
Senza la testimonianza di chi ha conosciuto il Lager non sapremmo niente e tutto diventerebbe opinabile. Ma forse, dice Barberis, con quella sola memoria non si completa il quadro. «Il male ha sempre cause molteplici, persino remote, anche se si manifesta con la rapidità e la micidialità di un colpo di fucile. L’occhio non riesce a vedere la traiettoria della pallottola; lo sguardo può fermarsi soltanto sulle conseguenze, sui cadaveri, sulle carni ferite, sulle menti sconvolte di coloro che sono stati colpiti».

Tocca alla storia l’onere della prova, attraverso un’indagine per arrivare ad una spiegazione inconfutabile, quasi scientifica, dell’accaduto, cercando appunto il prima e il dopo, il quando, sapendo di dover infine rispondere alla domanda che tutto sovrasta, il perché.
Memoria e storia sono entità diverse, con compiti e ambiti distinti anche se non separati, com’è evidente. La memoria, anche quando viene introiettata, condivisa e addirittura esposta da una comunità che vi riconosce un carattere della sua storia rimane una scheggia «inesorabilmente individuale e instabile», un frammento, mentre la storia è un disegno, un percorso d’indagine che ha l’ambizione non soltanto di ricordare e nemmeno di testimoniare, ma di comporre ricordi e testimonianze in un flusso, recuperando antecedenti, proiettandosi sulle conseguenze, alla ricerca di una ragione di ciò che è avvenuto e i testimoni hanno già raccontato.

Dagli anni Settanta incominciò quella che fu chiamata “l’era del testimone”, con un rovesciamento dello schema praticato nel primo dopoguerra, quando la memoria e il racconto si appoggiavano alle spalle degli eroi: adesso protagonista era la vittima, cui era affidata la testimonianza che ricreava immediatamente la realtà, dando spazio soprattutto alla rivelazione dell’orrore nazista, che generava la condivisione di una forte emozione.
Ma per una comprensione corretta dei fenomeni, avverte Barberis, oltre all’emozione c’è bisogno della ragione. Serve una sintesi, che aggiunga al racconto del male una ricerca oggettiva delle sue cause, uscendo necessariamente dalla retorica a fin di bene che ad esempio definisce “mostruoso” l’Olocausto, quando invece conosciamo il mostro come una creatura eccezionale, quasi mitologica se non leggendaria, dunque qualcosa che irrompe per un caso straordinario: mentre il Lager può al contrario ripetersi, perché Levi ci dice che è sempre laggiù, dove si compie la sperimentazione più estrema del nazionalismo e del razzismo.

Fuori dalla storia, dunque, l’esercizio della memoria è sterile, fine a se stesso. Così bisogna guardarsi dall’abuso della memoria, che la banalizza, bisogna scartare i falsi testimoni, impostori «che si sono impossessati di uno statuto vittimario altrui», e il libro cita millantatori, mitomani e profittatori, negando che un messaggio moralmente e civilmente utile e pedagogico per le giovani generazioni possa appoggiarsi su una menzogna tanto più vergognosa in quanto costruita su una materia così delicata, sensibile e dolorosa.

In più bisogna sapere che la vittima non è l’unico soggetto che conosce la Shoah: i carnefici sono l’altra metà dell’orrore, e la loro testimonianza è utile come quella delle vittime, perché spiega il funzionamento della macchina concentrazionaria ma in parallelo rivela la discesa agli inferi degli aguzzini, il loro opportunismo efficiente, la partecipazione.

E qui nasce l’ultima questione. Perché il disvelamento della tragedia, la sua documentazione, il suo diventare storia porta i carnefici a cercare una conciliazione con le loro vittime. Barberis è netto: per quale ragione una vittima dovrebbe concedere un “dono” al suo assassino — dice — rimane misterioso. «Solo il Dio della Bibbia può perdonare. Chi altri ha il diritto di farlo, con quale autorità? Il perdono è la più alta forma di amnistia, e l’amnesia è la sua diretta conseguenza. Cosa può guadagnare la società dall’occultamento pacificatore del suo torbido passato?» È a questo punto che ho qualche dubbio.

Perché il dovere di giudicare, dopo aver conosciuto l’orrore, è senz’altro un obbligo perenne, soprattutto nei tempi che stiamo vivendo. Ma forse bisogna distinguere tra la coscienza collettiva e quella individuale. Ora che la rivelazione della memoria sulla Shoah è avvenuta, e la memoria è diventata storia, la comunità repubblicana ha sicuramente la responsabilità di custodire la verità, e il giudizio morale, politico e civile che ne discende, e non può certo disporre del perdono al posto dei sopravvissuti. Ma se la storia è compiuta, la questione del sopruso, del danno, dalla condanna e financo del perdono tornano nella coscienza personale degli scampati. E lì noi ci fermiamo, perché solo loro sanno.

Il libro
Storia senza perdono di Walter Barberis (Einaudi, pagg. 96, euro 12). In libreria

 

 

[Da la Repubblica del 16 settembre 2019]