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Il tronco: una favola d’altri tempi

di Pasquale Scarpati
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Ai cari nipotini… di tutto il mondo

“C’era una volta, in un paese dove le stagioni si alternavano in modo irruento tra piogge, rovinose, scroscianti e sole cocente, un tronco d’albero, pesante, ma bello. Esso veniva trasportato in spalla da cinque uomini che, secondo alcuni, appartenevano ai cinque continenti, secondo altri, appartenevano allo stesso paese: non si sa.

Dopo un po’, il primo, quello che stava in coda, pensò: “E se abbasso un pochino la spalla così da faticare di meno!?” E così fece. Quello che lo precedeva, sentendo che il tronco era divenuto più pesante, pensò: “Abbasso anch’io un pochino la spalla così non mi affatico tanto”. E così fece.
Il terzo, quello che camminava davanti, sentendo il peso aumentare, pensò: “Mo abbasso pure io la spalla!” E così fece.
Il quarto, avvertendo che il peso era diventato eccessivo, pensò: “E che, io sono più scemo degli altri!?” ed abbassò anche lui la spalla.
Il quinto, ovviamente non ce la fece a sopportare tutto il peso e di colpo abbassò la spalla, dolorante.
Così il tronco rotolò a terra e lì giacque.

Al che, immediatamente, tutti cominciarono a litigare addossando la colpa gli uni agli altri. Avvenne un parapiglia: urla, spintoni; giunsero persino alle mani ed uno di loro sferrò un tremendo pugno ad un altro. Ma il tronco rimase sempre lì. Dopo un po’, stanchi del litigio e soprattutto perché nessuno voleva “dare soddisfazione” all’altro, ognuno scelse la propria strada.
Il primo, quello che aveva iniziato ad abbassare la spalla, andò via, sparì e non se ne seppe più nulla. Il secondo, cominciò a chiamare a gran voce qualcuno che lo aiutasse; ma gli altri tre, per ripicca, facevano finta di non sentire. Dopo un po’ si presentarono alcune persone, ma, come videro la grandezza del tronco, ognuno accusò una patologia a suo dire invalidante per quel lavoro. C’era, infatti, chi diceva che aveva un’ernia al disco, chi un’artrosi all’anca, chi al ginocchio, chi alla spalla, chi aveva la pressione arteriosa alta e non poteva fare sforzi; c’era anche chi non accusava alcuna patologia ma temeva lo stesso perché pensava: “Con lo sforzo mi può succedere qualcosa”.
Rimasero, pertanto, a guardare. Dopo un po’ alcuni andarono via; altri si fermarono lì, forse in attesa di rinforzi o di qualcuno che facesse il lavoro al loro posto (…come la famosa mosca che stava poggiata sulle corna del bue al lavoro nei campi. A chi le chiedeva cosa stesse facendo, rispondeva candidamente: “ariamo!”). Il terzo rimase lì ad imprecare e a bestemmiare: se la prendeva contro la mala sorte; se la prendeva contro il cielo; se la prendeva contro tutti ma non proponeva niente di concreto. Ad un certo punto forse impazzito, imprecando ad alta voce, prese una scure e cominciò a tagliare tutti gli alberi che stavano nelle vicinanze, anche i teneri germogli: insomma fece uno scempio. Il quarto, quello che aveva ricevuto il pugno, forse rintronato, non riusciva più ad articolare parola, biascicava; anzi nel parlare usava soltanto i verbi al futuro. Così invece di dire “faccio” diceva “farò”; invece di dire “presento” diceva “presenterò” ; invece di dire “attuo” diceva “attuerò” e così via; ma era un futuro molto incerto ed imprecisato. L’ultimo, forse quello che ci teneva di più a portare ed a salvare il tronco, si sedette su una pietra che stava lì vicino e cominciò a piangere ininterrottamente e a lamentarsi come se avesse mal di pancia.
Qualcuno si avvicinò e gli disse parole di conforto. Ma soltanto parole: nessuno si propose per aiutarlo a rialzare quel tronco. In verità qualcuno gli accennò qualcosa in merito ma nello stesso tempo non troppo velatamente gli fece intendere che avrebbe voluto essere lautamente ricompensato. Ma quello o perché non aveva come ricompensarlo o perché non voleva, fece “orecchi da mercante” e pertanto rimase lì con le sue lacrime.

[2]

“Ed il tronco?” – chiedono all’unisono i nipotini.
“Arrivò la pioggia e lo flagellò; arrivò il sole e lo bruciò. Arrivarono le formiche in gran numero e ci costruirono le loro case o per meglio dire i loro nidi. Arrivarono i tarli e gli scarafaggi. Questi ultimi, essendo necrofagi, ripulivano tutto al suo interno. Dopo un po’ di tempo passarono di lì altri uomini e videro quel tronco che in apparenza si presentava ancora intatto in tutta la sua bellezza. Pensarono, pertanto, di alzarlo e di portarlo da qualche parte per non farlo rovinare. Ma, non appena lo toccarono, quello fece: “Crac” e si spaccò, lasciando tutti a mani vuote; anzi no impregnate di puzzolente segatura e pezzettini, piccoli piccoli, di legno scuro, marcio”.

A questo punto il più grandicello dei nipotini sgrana gli occhioni e dice: “Nonno, ma senza alberi come facciamo?”. 
Le altre due si rattristano al pensiero che gli uccellini e gli scoiattoli non avranno più le loro case. La più piccola si mette a piangere perché dice che non potrà più mangiare le ciliegie e i mandarini di cui è ghiotta.

Ma li ho rincuorati dicendo: Non vi preoccupate, perché questo succedeva tanto tempo fa, in un paese lontano lontano… ma se dovesse succedere anche da noi – aggiungo sorridendo – dovete sapere che gli alberi si possono piantare di nuovo… anche se poi bisogna curarli facendoli crescere sani e robusti, così i rami frondosi ospiteranno gli uccellini e daranno cibo e aria salubre agli esseri viventi”.
“Dovete sapere, poi, che le chiome degli alberi frenano la violenza delle piogge scroscianti, i loro tronchi frenano lo scorrimento veloce ed impetuoso delle acque, le radici frenano lo scivolamento dei terreni verso valle, così essi non franano”.
“Perbacco – è intervenuto un uomo dall’occhio vivace – non è difficile evitare i disastri: basta cambiare una… vocale!”.
Scoppiamo a ridere: questa “acuta” osservazione ci fa riprendere il buon umore. I bimbi si rasserenano e riprendono tranquillamente a trastullarsi e a giocare.
Gli studiosi asseriscono che ciò sia importante ed in relazione soltanto alla loro età. “Almeno così si pensa e si spera…” – ha mormorato una vocina nell’animo di… Pasquale