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Girovagando per la storia (2)

di Pasquale Scarpati

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Per la puntata precedente, leggi qui [1]

Quell’isola lì, ultima da Oriente ad Occidente di una serie di isole, messe in fila, oltre la quale non c’è che il vasto Pontus (mare aperto) era proprio atta allo scopo: luogo di esilio. Fin da allora quello sarebbe stata il suo destino!
Era distante ma non troppo dalla Città. Perché dunque non inviare lì qualche membro di quella famiglia sannitica: gente piuttosto riottosa? E perché no, dare loro eventualmente la sua gestione? Da una parte non avrebbero potuto nuocere più di tanto (a causa dell’esiguità del territorio), dall’altra si sarebbe potuto mettere alla prova la loro lealtà verso lo Stato romano in caso di necessità come avvenne in occasione delle prime due guerre puniche.

Ma, a quanto pare, non ci si fidava molto perché, nonostante il valido aiuto e nonostante fosse un importante approdo, gli abitanti ottennero la piena cittadinanza soltanto dopo la guerra Sociale o Italica, insieme per l’appunto ai Sanniti e alle altre popolazioni italiche che fino a quel momento ne erano state escluse. Degli abitanti dell’isola, allora, non ci si fidava mai abbastanza!

Pertanto chi sarebbe andato a “governare” (sic!) quell’isola, avrebbe mai potuto abitare in una grotta o in una capanna? Dove, quindi, avrebbe potuto far costruire la sua dimora? Non certo sulla parte esposta a nord e troppo scoscesa, non certo sopra quelle colline che oggi chiamiamo Trebbiente o Pagliaro, troppo distanti dal mare e piene di boschi (fino a che non sparirono per i numerosi tagli fatti dai Romani, ancor prima di quelli fatti dai nostri avi), ma su una collina baciata dal Sole fin dal primo mattino e vicina ai due approdi: Chiaia di Luna e Santa Maria.
Di là si domina una vasta porzione di mare, si può vedere chi arriva da oriente ed aspettare gli eventi. Ovviamente una “villetta” con tutti i “confort” e molte dependance, tra cui anche un murenario dove si allevano murene che hanno un costo elevato perché i cives ne sono ghiotti; da inviare, quindi, al mercato di Roma e ricavare qualche soldino. Lì si aspetta e si spera. Gli eventi non tardano ad arrivare.

Dopo la guerra sociale, sconfitto ed ucciso Ponzio Telesino da Silla, che infierì crudelmente soprattutto contro i Sanniti, la Penisola divenne un unico stato. Ma ben presto scoppiarono le guerre civili. Ognuno cercò appoggi da tutte le parti. Ognuno strizzò l’occhio e la spada, nessuno fece più caso ai Ponzio, anzi cercò il loro appoggio. Non sappiamo con precisione con chi stettero. Certamente non stettero con Silla che si era dimostrato oltremodo crudele nei loro confronti e nei confronti della loro popolazione; più probabilmente seguirono G. Mario ed in seguito Cesare, suo nipote, infine Ottaviano ( poi Augusto). In pratica divennero cesariani. Entrati nelle grazie del vincitore di Azio (rimasto unico signore della res publica) si stabilirono stabilmente a Roma. La “piccola” dimora in quell’Isola che, per ironia della sorte (o forse non a caso) già portava il loro Nomen, forse era già da tempo abbandonata. Quella, oramai fatiscente, (si sa il mare rosicchia tutto in breve tempo) fu requisita o acquistata (con pochi denari) da Ottaviano il quale, anche se continuamente con il naso otturato dal… raffreddore, aveva il…. fiuto per gli affari di tutti i tipi (anche e soprattutto quelli di Stato). Quella costruzione, infatti, come quella della vicina Pandataria (Ventotene), gli serviva quale dimora per gli eventuali, riottosi rampolli della famiglia o presunti tali. Così essi venivano allontanati da Roma ma in una località non molto lontana. Restavano, infatti, sempre sotto il controllo di papà (il princeps) o degli altri che si sarebbero succeduti al governo. Non avrebbero mai potuto pensare a… colpi di testa. Come ad esempio organizzare eserciti in Oriente o in Occidente attraverso vaste clientele e re accondiscendenti come era successo per G. Pompeo e M. Antonio. La fiducia sì, ma fino ad un certo punto!

Un membro della famiglia dei Ponzio fu inviato quale prefetto (rango inferiore rispetto al governatore) in una regione un po’ rognosa: la Giudea. Forse perché nonostante tutto non si fidavano molto o per ricompensarlo in parte della svendita della “casetta” sull’Isola oppure per punirlo di qualche sgarbo e tenerlo lontano dalla Città.

Costui era soprannominato Pilato. Per avere questo soprannome doveva saper usare frequentemente e bene il pilum (giavellotto). Per usarlo di frequente doveva essere un uomo dal carattere piuttosto irruento ed istintivo. Probabilmente questa sua dote non la evidenziava soltanto nel Campo Marzio ma anche e soprattutto al di fuori di esso e non solo in battaglia! Per questa sua “dote” Tiberio lo ritenne l’uomo adatto a tenere sotto controllo e nello stesso tempo a stuzzicare i sempre riottosi Giudei (perché si sa spesso la politica aveva una doppia faccia: una specie di tira e molla). Egli si dimostrava un rude soldato: tenace e sordo, senza compromessi. Tiberio non avrebbe potuto scegliere un uomo migliore o peggiore a seconda da che parte si vede!

Quello riuscì a tenere in pugno militarmente quella zona che di lì a poco si sarebbe ribellata ma subì tre sconfitte “diplomatiche”: tre mosse sbagliate.
La prima fu quando dovette retrocedere dal mettere le effigie del princeps nel Tempio (non c’era cosa peggiore che retrocedere dalle proprie iniziative dopo averle sbandierate a destra e a manca! Ma questo accedeva soltanto in quei tempi né lui aveva la statura di G. Pompeo che aveva profanato il Tempio entrandovi a cavallo).
La seconda fu quando lasciò agli astanti (non al popolo) la scelta tra un certo Gesù ed un tal Barabba. Praticamente offrì al Sinedrio la morte di Gesù su un piatto d’argento e nello stesso tempo fu costretto a liberare uno zelota, acerrimo nemico dei Romani. A nulla valse la puerile motivazione addotta per la Crocifissione del Galileo e nemmeno di averlo mandato da Erode che era il suo re, il quale opportunamente e furbescamente, in senso metaforico, se ne lavò le mani.

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Gli rimandò, infatti, “la patata bollente”. Lui, pare, che se le sia lavate quasi a giustificarsi della sua azione. Ma giustificarsi perché? E nei confronti di chi? Era una problema interno ai Giudei, a lui spettava soltanto comminare la pena nei confronti di uno che non era neppure cittadino romano. Semmai avrebbe dovuto e potuto guadagnare tempo se non altro per valutare la situazione. “De imperio”, ad esempio, avrebbe potuto sospendere momentaneamente il processo. Se, infatti, avesse rinviato il processo e se avesse approfondito le indagini, avrebbe scoperto che quel Nazareno, proprio perché Galileo, era Uno a cui non importava nulla delle sottigliezze, degli intrecci o degli intrallazzi della politica. Anzi, visto da una certa angolazione, sarebbe potuto sembrare quasi quasi un…. filo romano . Quello, infatti, non solo aveva accettato anzi imposto tra i suoi seguaci un odioso esattore delle tasse per conto dei Romani: un pubblicano (tal Matteo) e in una sua parabola aveva “redento” un altro pubblicano nei confronti di un fariseo (ligio osservante della legge) ma ad una domanda capziosa da parte dei suoi avversari, aveva osato rispondere: “Date a Cesare quel che è di Cesare…”.

In realtà il Galileo era osteggiato non tanto per essere “tiepido” nei confronti di Roma, quanto per la sua dottrina non proprio ortodossa (imperniata sui Profeti più che sulla Legge) e per avere, a volte, dei modi un po’ “bruschi”. Aveva, infatti, cacciato in malo modo i mercanti dal Tempio che, certamente, contribuivano al suo sostentamento. L’accusa di essersi proclamato re dei Giudei, infatti, non era suffragata da niente (oggi diremmo non stava né in cielo né in terra; o forse no…) se non da alcune parole forse anche pretestuosamente mal interpretate nell’ambito del contesto di un qualche Suo Insegnamento. Ma le parole, in quel tempo lontano, erano interpretate a seconda dei casi e delle esigenze. Potevano, infatti, essere rudi, grezze, attorcigliate come cima di una nave, oppure dolci, spalmate come morbido burro sul pane. Oggi… chissà!

Quelli che erano accorsi al processo chiedendo a gran voce la condanna capitale, infatti, erano pochi e chiassosi facinorosi ben conosciuti e strumentalizzati dai capi del Sinedrio, oggi diremmo la claque.

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Gli altri: i più “si facevano i fatti propri” come spesso accade; poi vi erano quelli che, pur appoggiando il Galileo, avevano paura e si erano nascosti; qualcuno, più coraggioso o più curioso, si era presentato ma se conosciuto come seguace del Galileo (che già erano tollerati) era stato malmenato; se invece era uno sconosciuto era stato allontanato con vari pretesti, a meno che non avesse data chiara dimostrazione di stare dalla parte di coloro che volevano la morte del Galileo. Che era accusato fondamentalmente di blasfemia; incriminazione ottenuta oltretutto anche attraverso una domanda “insidiosa” ed illegale postagli dal sommo sacerdote, Caifa. Questo “delitto” però, si configurava come un reato interno agli Ebrei.

Pilato avrebbe poi potuto chiedere agli stessi membri del Sinedrio come mai avessero istruito un processo notturno non consentito dalla loro legge; avrebbe dovuto ascoltare quindi le loro motivazioni, e prendere poi le opportune decisioni. Ma lui, uomo d’armi e irruento, a queste “ sottigliezze diplomatiche” non faceva caso e “si lasciò costringere” a chiudere il caso nel peggiore dei modi agli occhi di Roma. Praticamente accontentò la maggioranza del Sinedrio (ad eccezione di Nicodemo e Giuseppe D’Arimatea: tiepidi sostenitori del Rabbi e probabilmente quelli che riferirono agli Apostoli come si era svolto quel processo (notturno e a “porte chiuse”) ma non il popolo.
Nel contempo scontentò il Senato Romano liberando Barabba, nemico conclamato di Roma essendosi macchiato di uccisione di un soldato che militava sotto l’aquila romana. L’unica persona che gli chiese di procrastinare la condanna fu la moglie; la quale, dietro la Pietà verso quell’Uomo, intuì, come tutte le donne, in quale “strettoia” il marito si sarebbe andato a cacciare.

Dai suoi superiori, infatti, l’atteggiamento di Pilato fu interpretato come atto di sudditanza o meglio ancora di debolezza nei confronti del Sinedrio; nello stesso tempo, però, scontentò lo stesso i Giudei perché avevano visto mandare al supplizio capitale una persona fondamentalmente innocente: senza una valida motivazione e soprattutto attraverso un processo illegale (…la gente, in quel tempo, lo capiva).

Praticamente Pilato scontentò tutti.

[Girovagando per la storia (2) – Continua]