Ambiente e Natura

Un “canto di Natale”, di Capossela

segnalato da Sandro Russo

 .

Mi è piaciuto, e propongo ai lettori, questo racconto di Vinicio Capossela, ripreso da Repubblica on-line di ieri 24 dicembre. Contiene molti temi cari alla poetica del cantautore irpino (terra d’origine dei genitori) e proiezioni fantastiche sul futuro della terra e dell’umanità. Un augurio di Natale meditabondo ma anche poetico.


Luci per la Vigilia: un “canto di Natale” di Capossela

di Vinicio Capossela

Rabdomanti e lavatrici, giostrai e slitte a gas, “pumminali” e creature fantastiche della Pianur: così la ricerca dell’“albero della Cupa” diventa un racconto-presepe (d’autore) E un’allegoria degli spiriti di tutti i Natali

Senza Natale
L’inverno era sparito già da molti anni. In pianura, della stagione del sole morente e poi nascente, era rimasta solo l’umidità, che rendeva biancastri i paesaggi di giorno e umide e fangose le notti.
Della stagione del Natale restavano solo i presepi realizzati con materie di scarto e allestiti tra i campi e le strade. Indicati a pennarello su un cartone sul quale era stata ritagliata una freccia. Umili rappresentazioni di scarto per tenere viva la memoria della stagione delle luci accese, dell’albero, della stella e dei Magi. Ma quelle luci si erano fatte di plastica e non richiamavano più cristiani, abbagliati da altre luci, digitali e fluorescenti. Gli schermi si erano presi tutto.
Il resto, che non apparteneva all’umanità rassicurata, necessitava di un’altra luce per essere trovato. Era nascosta nel torbido della Quantità, nel mondo degli accumulatori seriali, dei sepolti vivi. Nello spazio non urbano della pianura erano disseminati tra le rovine delle cascine, sotto i ponti autostradali, nelle fornaci dismesse. Tra loro andai a cercare la mia luce Cupa, per trovare quelle creature non toccate dal sole, gli scarti dello Sviluppo. I non digitabili che solo affiorano nel racconto o tra reagenti fotografici.

Lo scasso di Ilijevic
“Fin da piccolo desideravo proprio un apparecchio luminoso… di quel genere… uno di quegli alberi a lampadine grosse, subacquee… che facesse una luce da corpus domini, un fuoco fatuo… la luce della Cupa… da mettere sull’albero che si dice tenga su il mondo. Una luce adatta a dirigere le falene, gli uccelli notturni, la civetta… la malogna… questi animali che non ci credono altrimenti alla festa… per attirarli, per fargli fare anche a loro un giro di giostra, che se no rimangono come me… Senza Natale.
“C’è un posto soltanto dove potete provare”, mi dissero. “Una luce del genere… là… allo scasso di Ilijevic… andate da lui che tutto accumula, e se c’è, lì si farà trovare”.
E così andammo nel cuore dell’inverno, laggiù… dopo il fiume… da Ilijevic.

La baracca dove ci accolse era arrangiata con materiale plastico. Da dentro veniva una luce verdastra. Ilijevic aveva un berretto col pelo sulle orecchie, la visiera sulla faccia bislunga. Tutt’intorno, dalla notte circostante, arrivavano incessantemente uomini con cappelli bombati, reggendo sulle spalle portantine sopra le quali giaceva ogni genere di domestici a elettricità.
“Cerchiamo un albero di Natale, a pompa, con bracci pneumatici, e lampadine ad arco voltaico… sottomarine… da profondità… adatto a emanare quella luce della Cupa… che tanto conforta le creature della notte selvatica. Questo soltanto ci occorre!”, affermammo concisi.
“Bene!”, disse Ilijevic, “ne ho tumulati diversi, ma… per trovarli occorrerà traversare il campo per intero… laggiù dall’altra parte della quantità! Perciò venite!”.

Fuori nulla si distingueva di preciso tra la nebbia informe che esalava sia dal cielo che dalla terra.
Stavano una a fianco all’altra, in una distesa spettrale, a filamenti successivi, come un plotone di croci, creature ciclopiche con un occhio solo e parevano ululare. Erano lavatrici di ogni qualità. Bianche e livide, come lenzuola stese. In piedi, sull’attenti!
Tra loro brulicavano gli uomini neri, come formiche con i loro carrelli a becco e sollevavano e dissotterravano.
“Vedete, laggiù… molto più in là è il comparto natalizio… vi troverete, a volerlo, le slitte a gas… le scope da aviazione. Al propano liquido… le renne di plastica… gli abeti luminari… anch’essi tutti! E quell’albero che dite… che non è di carattere semplice, poiché è l’albero che i Pumminali, i licantropi melanconici, si ostinano a tagliare, sottoterra in tutto il resto dell’anno che non siano le dodici notti in cui diventano mannari… poiché essi credono che è l’albero che sostiene il mondo… Giace qui… ammucchiato anche lui… perduto… sopraffatto dalla quantità! Ah… la quantità! Sapeste, sapeste… quanta roba… quanta ne ho vista! Quanta tumulata! Ma perché non me ne è piaciuta una cosa sola? Mi avrebbe lasciato in pace… forse. E invece… In quantità”, rimasticava soltanto. “In quantità!”.

Egli si infarnetichiva e continuava, meditativo avanzando nelle nebbie. Oltrepassammo le cucine e poi la divisione frigorifera. I lancieri del raffreddamento! Alti, Slanciati! I piedi soltanto gli marcivano nel fango. Ne aprì uno panciuto e mostrò tutto il paramento. Poi lo chiuse e ritornò ad essere una scatola smaltata piena di pioggia.
Infine, sotto un grande pilone della luce, trovammo il comparto! Come un rabdomante, Ilijevic individuò precisamente lo smottamento da dove sporgeva la punta dell’albero… l’unica parte visibile dell’albero che regge il mondo. In alluminio… rotabile… circondata come da un’aureola affiorava come dalla terra come un rottame.
Subito Iljevic ne ordinò la rimozione. Era davvero l’attrezzo adatto… di quelli che sorreggono il mondo sottoterra, dove si estendeva tentacolare, ed emanava proprio quella luce cupa tanto agognata. La luce adatta a dare il Natale anche alle creature della Cupa.

Il presepe vivente
In qualche modo la punta somigliante a un faro subacqueo fu dissotterrata e accesa e la cupa luce iniziò a spandersi per la pianura. Non tutti potevano vederla, solo gli scarti dell’umanità. Solo chi vagava negli scarti della produzione a consumo. E naturalmente le creature che non si chiariscono allo sguardo… gli spiriti del focolare che avevano perduto il focolare. Che abitavano nelle case coloniche e nelle corti che un tempo avevano ospitate famiglie a decine. Quei templi della cultura della terra che ora erano scarti della pianura ipermercata, divelta da rotonde e centri di commercio e sale giochi. Quelle corti erano diventate ricettacolo di clandestinità e fantasmi. Nemmeno gli animali da cortile più le abitavano, eccetto il Nadermut, l’anatra muta che ancora mutevole razzolava beccando avanzi di rondelle.
Solo le creature della Cupa restavano a riscaldare quei focolari. I dispettosi demoni domestici delle case in rovina e gli uccelli della notte di cui, è risaputo, non valgono nemmeno le penne.

Quella luce li ravvivò e si avviarono a seguirla abbagliati come fosse la stella cometa. Dal Chiavicone si avviarono i Magi: il negro Dum Dum e il suo pappagallo sulla spalla portando in dono un “gri gri”, un amuleto africano animista che porta fortuna alla casa e sfiga a chi ci abita. Si avviò anche Tony Benzina, recando un carburatore di una Regata a gas. E con loro Frankie La Luce, e i suoi registri contabili. Si avviarono le seconde famiglie che stavano ai bar ad ingrossare il fegato con il Pra di Bosso, un lambrusco algofenico, e con quello dimenticavano la famiglia di casa da cui erano fuoriusciti.

Dalla Magreta venne il predittore di catastrofi. Se ne stava nel suo scasso di mobili, pneumatici e ferraglie.
Si avviò Tarasconi, il tozzo uomo di rame, che col rame raccolto riedificava il mondo e ricercava il moto perpetuo. Iniziò a ululare la betoniera e uscì il pastore dal Chiavicone.
“Stanotte gela”, diceva in un sibilo. Il pastore che pascolava senza greggi tra catrami, guard rail e tangenziali, venne subito perché i pastori furono i primi a essere investiti dalla luce della stella. Non atterrirono nel timore e godettero della nuova nascita del mondo. E poi i Lupomini, i Pumminali, i mannari versipelo, quelli nati la notte di Natale che, per l’insolenza di essere nati nella stessa notte del Salvatore, subivano la trasformazione lupina, e si imbestiavano cercando refrigerio nelle pozze.
Correvano per cimiteri e sepolcri sbranando via i ricordi della loro obliata umanità. La luce arrivò agli accampamenti dei giostrai. Le loro creature tentacolari abbandonate e ferme nella nebbia dell’inverno, arrugginite di pioggia, presero a girare. Il polpo, la piovra meccanica, il castello fantasma.
Accorrevano alla stella dell’albero della Cupa, formando sotto il suo cono un presepe di scartati. Non c’era asino e bue, né stalla per scaldare il bambino. Solo i fornelli elettrici attaccati a una batteria da camion, e la luce Cupa.
Tutto l’accampamento di Iljevic ne fu invaso. Le lavatrici, i frigoriferi, i televisori e i domestici elettrificati che avevano servito nelle case e casa non avevano più, accolsero la luce Cupa e la ricambiarono. Gli oblò ripresero la lumescenza e il campo intero la propagò nella notte, fino ai giostrai, fino ai canali del delta del grande fiume, fino al Po morto di Ferrara e ancora oltre.
La speranza, in quella luce, era venuta infine anche per gli scarti non solo per gli scartati della terra. Per le plastiche e gli scassi, per le bacinelle, i rottami e i bulloni. Per tutto l’ammasso di Quantità che la società a consumo produceva a milionate e subito espelleva. Ai catasti e ai rottamai arrivò la Luce, e a tutta l’umanità che ci trovava riparo dentro. L’umanità delle plastiche e delle lamiere. L’umanità clandestina che ci bruciava dentro per un fornello a gas lasciato acceso. Tutti loro ne furono investiti e nessun altro la vedeva.
Una musica di scarto si levò sulle lamiere e un gorgoglio come uno scarico, come un flusso di un milione di Lavamax in centrifuga si accese. E fu su tutta la terra, che si aprì come un condotto fino a laggiù dove i Pumminali avevano infine segato l’albero che reggeva il mondo.

Di tutti loro restarono le fotografie che Vito, il tumulatore di immagini, volle raccogliere sulla lastra fuliginosa, perché, come le viti, gli attrezzi e i bulloni, e le bollette e le multe pagate, andassero a lasciare traccia di sé, una volta inghiottite nel torbido della Quantità.

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