Attualità

Piazza Fontana cinquanta anni dopo, una ferita ancora aperta

di Sandro Vitiello

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Oggi si ricordano le vittime della strage di piazza Fontana a Milano; era il dodici dicembre del 1969 (*).
Alle ore 16,37 nella sede della Banca Nazionale dell’Agricoltura in piazza Fontana, a poche decine di metri da piazza del Duomo, scoppiò una bomba ad alto potenziale che uccise diciassette persone.

Banca Nazionale dell’Agricoltura dopo lo scoppio della bomba

Diciassette cittadini inermi che stavano svolgendo le normali operazioni che si compiono quando si va in banca. Era gente normale, non erano obiettivi mirati, al centro di interessi particolari.
Erano uomini e donne che entrando in quella banca non pensavano certo di passare alla storia come le prime vittime di quella che sarebbe stata poi definita “strategia della tensione”.
Per quale motivo bisognava ammazzare quella gente? Bisogna raccontare, anche se brevemente, cos’era l’Italia di quegli anni.

Dopo la seconda guerra mondiale il nostro Paese, uscito distrutto dall’avventura fascista, trovò la forza di rimettersi in piedi.
Gli anni che seguirono furono definiti quelli del “miracolo economico” dove un sostanziale benessere portò ad una crescita sociale anche attraverso i sindacati e con l’istruzione di tanti giovani figli di operai.
Iniziò quindi una stagione di lotte sindacali e studentesche che raggiunsero il culmine nel biennio ’68-’69.

Era un fenomeno non solo italiano, ma nel nostro Paese il mondo della scuola e la classe operaia trovarono obiettivi comuni.
Quel movimento, insieme ad una forte crescita del partito Comunista italiano, metteva in discussione quelli che erano gli equilibri politici e le aree di influenza decisi dopo gli accordi di Yalta, quando i vincitori della seconda guerra mondiale decisero di spartirsi in mondo.
In realtà l’Italia era già in forte fibrillazione già dai primi anni Sessanta.
La Democrazia Cristiana non era più il partito egemone degli anni Cinquanta.
Nel ’63 i socialisti vennero cooptati nel governo e mentre si auspicava un segnale che desse significato al loro impegno a sostenere una nuova maggioranza, il Paese visse una fortissima crisi della quale l’opinione pubblica venne portata a conoscenza solo dopo quattro anni.
Il generale De Lorenzo, capo dell’arma dei Carabinieri, mise in atto un tentativo di colpo di Stato che prevedeva l’arresto e la deportazione in Sardegna, in un campo militare dell’Arma, di oltre settecento esponenti della sinistra e dei sindacati e l’instaurazione di un regime militare.

Giovanni de Lorenzo – generale dei carabinieri

Le trattative per la formazione di un nuovo governo vennero pesantemente condizionate dalle poche informazioni che giravano e Nenni – allora leader del partito Socialista italiano – ebbe a dichiarare di aver udito “quel tintinnar di sciabole”.
Solo nel 1967 il periodico L’Espresso portò a conoscenza di questi gravi fatti: il “piano Solo”.

Nel 1965 a Roma comunque ci fu un incontro che pianificò quello che sarebbe poi successo negli anni a venire. Dal tre al cinque maggio di quell’anno l’Istituto di studi militari Alberto Pollio organizzò un convegno al quale parteciparono gli alti gradi delle forze armate, i servizi segreti militari e civili, tanti giornalisti legati alla destra, imprenditori e studenti universitari.
Alcuni tra i partecipanti divennero tristemente noti perchè furono i protagonisti della “strategia della tensione” e riempirono pagine e pagine delle inchieste giudiziarie che cercarono di far luce sui tragici fatti degli anni a seguire. Parliamo di Stefano delle Chiaie, di Pino Rauti, di Guidi Giannettini, Mario Merlino e di tanti altri.

In quel convegno si parlò di “guerra rivoluzionaria” e di tutti i modi leciti e illeciti per fermare l’avanzata delle sinistre in Italia ma anche in Europa.
Non era tutta farina del loro sacco; alle loro spalle c’erano comunque uomini che arrivavano dall’altra parte dell’oceano. La vicenda “Gladio” negli anni successivi mise in luce questa triste verità.
Quello che successe a Piazza Fontana, a Brescia con la strage di piazza della Loggia, il treno Italicus e poi la strage alla stazione di Bologna nel 1980 avevano tutti la stessa regia.
Pezzi importanti dello Stato e raggruppamenti dell’estrema destra dovevano seminare il terrore con le stragi e accusare le sinistre di quanto succedeva. A Milano questo divenne palese.

Chi poteva aver messo la bomba a piazza Fontana? Gli anarchici, ovviamente.
Erano quelli più deboli, peggio organizzati, spesso usavano un linguaggio forte, contro lo Stato e i padroni.
Vennero arrestati Pietro Valpreda e subito dopo Pino Pinelli. Il mostro venne sbattuto in prima pagina e le opposizioni di sinistra additate come complici di quel massacro.

Dopo i primi giorni di sbandamento e soprattutto dopo la morte di Pinelli, volato giù da una finestra della questura di Milano, ci fu un forte moto d’opinione che contestò con forza le indagini sulla strage e il racconto fatto dalla questura di Milano che raccontava di un Pinelli reo confesso che si sarebbe suicidato.

Giuseppe “Pino” Pinelli con la moglie Lidia e le due figlie gemelle Claudia e Silvia

Nacque quella che venne poi definita la controinformazione dove nomi importanti del giornalismo e altri che avremmo imparato a conoscere in seguito, piano piano raccolsero tutte le informazioni che scagionarono prima Valpreda e in seguito raggiunsero i veri colpevoli.

Freda, Ventura e la cellula veneta di Ordine Nuovo vennero accusati in via definitiva dalla Cassazione nel 2005 come ideatori della strage. Non punibili comunque perché erano stati assolti in via definitiva in appello a Bari.
Nessun condannato come autore materiale della strage.
Un processo che si perse in mille rivoli e che finì con l’arrivare addirittura a Catanzaro.

La Storia ci consegna un quadro chiaro di quello che avvenne in Italia negli anni settanta. La strategia della tensione fu pensata e gestita da pezzi dello Stato in combutta con organizzazioni di estrema destra, figlie di quel fascismo di cui l’Italia non si è mai completamente liberata.
Basti pensare che il questore di Milano nei giorni di piazza Fontana era quel Marcello Guida che durante il fascismo era direttore del confino di Ventotene.
Pertini – allora presidente della Camera – in visita a Milano si rifiutò di stringergli la mano perché Pertini non dimenticava e perché Pertini non credeva che Pinelli si fosse suicidato.

Sandro Pertini

Note
(*)Il dodici dicembre del 1969 le bombe erano cinque. Tre a Roma e una a Milano – oltre a quella di piazza Fontana – in piazza della Scala, che fortunatamente non esplose. A Roma ci furono tre attentati che provocarono 18 feriti, il primo alla Banca Nazionale del Lavoro in via di San Basilio, il secondo a Piazza Venezia e il terzo all’Altare della Patria.

2 Comments

2 Comments

  1. Biagio Vitiello

    12 Dicembre 2019 at 07:47

    Sandro Vitiello ha dimenticato, a proposito della strage di Piazza Fontana, di citare un altro “impunito”: Delfo Zorzi che vive indisturbato in Giappone dove ha cambiato persino nome e cognome.

  2. Sandro Russo

    13 Dicembre 2019 at 07:07

    Imperdibile l’Amaca di oggi, da la Repubblica:

    Una vittoria lunga 50 anni
    12 dicembre 2019

    di Michele Serra

    L’impressione è che il cinquantesimo della strage di Piazza Fontana abbia restituito alla memoria collettiva, alla dignità delle vittime, all’infamia dei bombaroli, più di quanto ci si potesse aspettare: a cominciare dalla semplice, emozionante cerimonia milanese con il sindaco Sala e le figlie di Pinelli, diciottesima vittima della strage.

    Forse ci lamentiamo un po’ troppo di noi stessi, delle scuole che non insegnano, degli scolari che non imparano, della tivù che rintrona, dei social che avvelenano, dei giovani che non si informano, del tessuto sociale sdrucito. Molto di quello che ho letto e sentito, a proposito del 12 dicembre, parla di persone (tante persone) che hanno memoria, coscienza, strumenti per capire, voglia di parlare e di ascoltare. Parla di una comunità che ricorda benissimo; e conosce, capisce, giudica. E a conti fatti, insomma, qualche insegnante ha insegnato; qualche giornalista ha raccontato; qualche scrittore ha scritto; qualche politico ha tenuto il punto.

    Esiste dunque, e parla, e agisce, “la democrazia italiana”, della quale siamo eternamente al capezzale, dottori magari non richiesti. Esiste ed evidentemente ha vinto, visto che, mezzo secolo dopo, possiamo ben dire che è in odio alla democrazia italiana che i neofascisti piazzarono le bombe. Non ce l’hanno fatta, nonostante l’appoggio scellerato dei traditori di Stato, e dello Stato, che li hanno protetti e forse ispirati. Dunque abbiamo appena celebrato, insieme al dolore rinnovato per le vittime, una vittoria della nostra democrazia. Un minimo di felicitazioni possiamo farcele, forse.

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