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I consigli di Dante sulle parracine

di Dante Taddia

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Estrapoliamo dai Commenti in cui era stato in prima istanza confinato (leggi qui [1]), questo scritto di Dante Taddia – geologo di grande esperienza – dal Mozambico, il posto più recente in giro per il mondo, dove sta “facendo strade”.
E’ emblematico dei tempi in cui viviamo che le nostre più cospicue professionalità siano disperse per il mondo e non vengano propriamente utilizzate nei modi e per i luoghi che più amerebbero contribuire a migliorare.

S. Russo

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Era da un po’ che volevo far sentire la mia voce di tecnico per un problema che in questo periodo si sta facendo decisamente drammatico e ringrazio Sandro, frate ’i purpe (*), che mi offre lo spunto della manutenzione  e costruzione delle parracine e allagando (non è un refuso ma voce del verbo allagare) il discorso dalle conseguenze della pioggia, tanto per restare in tema  umido. Ho sempre sostenuto  che “Ponza è un’Italia in sedicesimo” e una volta che risolveremo i problemi di  Ponza avremo il risultato positivo per risolvere quelli dell’Italia… e viceversa.

[3]

Parracine a Ischia

Mi riferisco proprio all’uomo con la zappa che il buon Michele Serra, ridacchiando compiaciuto, sostiene essere  due “entità ” che unite possono fare moltissimo per preservare il nostro ambiente. Dopo i mega-galattici  progetti delle varie dighe dai nomi altisonanti, che non faccio per evitare  sgradevoli commenti dei colleghi tecnici che hanno partecipato alla progettazione ed esecuzione, quelle delle iper-strade a otto corsie, dei viadotti che sfidano il cielo, (e che restano poi senza la minima manutenzione)  ecco che si affaccia nel corso di importanti meeting con i vari finanziatori mondiali la timida proposta, direi forse  troppo semplicistica ma  realizzabilissima ed economicissima, della figura del “cantoniere”.
Sì avete letto bene, il “cantoniere”, l’uomo con la zappa che per decenni ha curato  la manutenzione “giornaliera” della nostra rete stradale “tenendo pervio il fosso, pulita la canalina, sgombero il tubo di cemento” evitando smottamenti, allagamenti, pianti e stridor di denti, tanto per andare in rima e commentare le sciagure ormai giornaliere che, con parola altisonante e di recente conio, si attribuiscono al “dissesto idro-geologico” (sarebbe meglio definirlo “dissesto mentale-logico”).
È proprio durante quei meeting in cui si parla del futuro, vedono un onnipresente uomo-con-la-zappa troneggiare sullo sfondo dell’alba radiosa di un prospero avvenire. E questo futuro è la scoperta “dell’acqua calda”, non perché causata da un innalzamento anomalo della temperatura del globo che sta sciogliendo i ghiacciai e sommergendo centinaia di isolette sparse nei vari mari, ma di acqua calda come è intesa nel proverbio.
E “l’acqua calda” che si è scoperta prevede che nei grandi cantieri dove ci sono dozers, escavatori e simili possenti macchine a smuovere terra e roccia, sia obbligatoria la presenza di un uomo con la zappa che, incaricato di lavorare su un solo chilometro di strada, la mantenga giornalmente in perfette condizioni di drenaggio al costo di qualche dollaro; un’inezia al confronto delle centinaia di migliaia spesi per realizzare la faraonica opera cui basta una pioggia battente d’una nottata per vederla liquefarsi trascinando via tutto il manufatto di cui il “bipede umano” ha pensato nella sua grande stoltezza di corredarla.
Eccolo il futuro di ieri che arriva per un domani migliore: – Date una zappa in mano a ogni studente, portatelo a vedere come funziona il monte, come funziona l’Italia – dice sempre il buon Serra; permettetemi una parafrasi, diamo ’sta famosa zappa non sui piedi ma in mano a chi di qualunque colorazione politica vesta la sua giubba parla e straparla su Ponza, solo in teoria ma cercando di fare anche qualcosa di pratico, non lo nego e gliene do atto, ma che spesso resta solo un esercizio di carattere epistolare.
– Se è una mania – dice sempre Serra – pazienza. Vale la pena passare per maniaco: servizio civile obbligatorio, di leva, per tutti, badile, zappa, piccone e stivaloni per ogni abitante di questo Paese: capi che insegnano – facendo, aggiungo io, dato che s’impara molto di più con l’esempio – e un esercito di soldati che impara. Cambierebbe l’Italia, cambierebbe dalle sue radici – e l’isola Ponza, un sedicesimo dell’Italia, ne avrebbe giovamento, aggiungo sempre io.
Mi voglio riferire poi alle parracine con un’esperienza diretta, desunta da un mio lavoro fatto ad Haiti. Le parracine sono fatte localmente con le conchiglie  delle “tofe” come sono chiamate a Ponza, gasteropodi simili al Buccinus communis o allo Strombus bubonius che costituisce con una saporitissima salsa piccante uno dei piatti nazionali più apprezzati. I finanziatori internazionali si sono accorti che i vecchi capaci di costruire un elegante e duraturo muro a secco – a Ponza songh’ i parracine – non ci sono più, e i giovani non ne conoscono neanche il nome.
Mi sono armato di pazienza e di spirito ecologico e ho insegnato come poter “costruire” una parracina: utilizzando gabbioni ecologici, che riempiti di materiale roccioso reperibile sul posto e lasciando spazi liberi per la terra su cui fare attecchire le piante, si sono dimostrati un eccelso sistema di “parracinare” (spero vi piaccia il neologismo) ecologicamente il territorio e far sembrare alla fine un paesaggio tutto naturale dove il supporto meccanico, il gabbione iniziale, viene fagocitato dalla lussureggiante vegetazione garantendo stabilità alle scarpate, protezione agli smottamenti e corretto defluire delle acque meteoriche di scolo grazie a uomini con la zappa che mantengono sgombri i canaletti scavati all’uopo. Ponza avrebbe bisogno di qualcosa del genere.

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Terrazzamenti e vigneti alle Cinque Terre (Corniglia)

Ricordo infine che in Italia, alle Cinque Terre, moltissimi studenti hanno costruito parracine in cambio di qualche giorno di ospitalità nella stupenda cornice del mare ligure. E in quanto a mare, noi a Ponza non siamo certo da meno.

(*) Nota
Dante si riferisce a un’avventura che ci è capitata insieme quando eravamo giovani. Ci mettemmo nell’impresa di stanare un polpo, dietro la caletta, sul versante di fuori della scogliera; con un remo che portammo a fondo per fare leva (erano comunque meno di dieci metri). Dai e dai, sali e scendi, non ricordo neanche più se il polpo poi lo prendemmo; quel che ricordo è che alla fine entrambi sanguinavamo dalle orecchie. Da allora siamo “fratelli di porpo” (S. R.).