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Omaggio a Bixio

di Vincenzo Ambrosino
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Caro Bixio,
anche se in ritardo mi hai donato il tuo libro. Da esso ho conosciuto la tua infanzia e il clima in cui è avvenuta la tua maturazione giovanile.
Penso, che esternare i tuoi ricordi sia stata un’operazione molto sofferta e per questo ti ringrazio perché mi ha reso consapevole di qualcosa di molto più grande di una semplice operazione estrattiva.
Tu mi hai descritto un’isola, l’altra parte della mia isola, di cui non avevo compreso che aveva subito un’azione di guerra che è durata 30 anni.
Tu mi hai illustrato la tua infanzia sotto un’occupazione nemica, imposta da una dittatura estrattiva, nelle mani di un regime totalitario economico-politico.
Una guerra, un regime, una dittatura che hanno fatto perdere di significato tutti i principi costituzionali: i diritti di uomini, donne e bambini in quei 30 anni hanno contato meno del minerale che si scavava.
Questi tuoi ricordi mi hanno fatto riflettere e mi hanno fatto tornare alla mia infanzia e poi all’adolescenza e devo dirti, con molto rispetto caro Bixio, che io e te abbiamo vissuto in quegli anni – seppur a pochi chilometri di distanza – in due isole completamente diverse.
La tua parte di isola era in guerra, la mia era in pace. La tua era in un regime dittatoriale, la mia in un regime democristiano.

Bixio bambino ha visto con i suoi occhi innocenti e sognanti una vera e propria guerra. Ha visto sparire case, terreni; ha visto tanti suoi fratelli e sorelle cacciati dalla propria casa che in processione cercavano riparo in chiesa; ha visto gente minacciata, arrestata, maltrattata. Ha conosciuto uomini veri che hanno sfidato le ruspe e la loro legge e poi li ha visti abbandonati da tutti a combattere da soli la lotta per la dignità umana.
Ha visto rivoluzionari della notte evaporare di giorno al primo sole. Ha capito da bambino il significato del tradimento e della disperazione. Ha sentito le mine brillare nelle cave e ha visto correre donne e uomini a piangere un altro minatore morto sotto le macerie. Ha sentito di notte il martello e la sega del falegname che costruiva bare e poi campane a morto e file di uomini dietro la bare che scomparivano oltre la collina. Ha imparato a distinguere la sirene d’allarme della miniera da quella che segnalava la fine di un turno di lavoro. Ha sentito pianti, imprecazioni e ha capito da subito che la vita è fatta di ingiustizie.
Ha visto gente tornare sulla sua isola senza speranze e poi ripartire senza più niente. Ha visto vecchie vestite di nero e bambini con i pantaloni corti salire sull’autobus, cacciati dalla loro terra da una forza troppo superiore alla loro. Non potrà mai dimenticare quei visi schiacciati sul vetro dell’autobus a vedere per l’ultima volta la loro casa-isola sparire.
Ha compreso da subito che cos’è  una dittatura contro la quale non c’è possibilità di opporsi.

Ma quel bambino ha visto anche che il regime, per durare più a lungo, da una parte portava guerra e distruzione, dall’altra portava lavoro.
Infatti c’era anche chi lavorava in miniera. Erano altri paesani: uomini, donne e bambini. Questi combattevano dalla parte del nemico ma erano ponzesi, vicini di casa, parenti, alcuni ragazzini che condividevano con lui i giochi e la stessa giovinezza nell’isola.
Bixio ha visto una madre e un padre che venivano ogni anno sull’isola  a piangere, a pregare e portare un fiore sulla tomba del figlio morto e nei pressi del Forte Papa ha visto che ogni anno che passava “trovava sempre più asparagi”.
Due scene diverse ma che hanno fatto capire al giovane Bixio il senso del morire. Morire è come scomparire per sempre dalla vista e si rimane soli e non resta che piangere e chi ne è capace anche di pregare.

Bixio ha vissuto questa guerra, che era combattuta quartiere per quartiere, casa per casa. Nelle case che rimanevano in piedi si perpetravano altri drammi familiari: tradimenti, abbandoni, tanta misera tristezza. La quotidianità era senza futuro.
Ma il bambino ha visto anche il trasformismo del regime che da una parte portava guerra e distruzione dall’altra anche divertimento e giochi.
E infatti c’era il cinema nel dopolavoro. I padroni usavano ogni mezzo per dividere la gente, li faceva ridere con “Stanlio e Ollio” e poi giocare a carte e a bigliardo e ai più fedeli lavoratori faceva anche dei regalini la domenica.
Ma la sua isola la vedeva inghiottita dalla miniera.
Cala dell’Acqua che era un territorio verde, coltivato fino al mare, pieno di vita e di colori continuava a sparire e tutto diventava macerie sotto gli enormi cingolati delle ruspe che continuavano a scavare senza sosta di notte e di giorno.
Bixio ha capito che cos’è l’ingiustizia perché ha visto con i suoi occhi di bambino, da una parte chi piangeva il proprio dramma – che rimaneva privato – e dall’altra chi, faceva la spia affinché quel dramma potesse continuare ancora a lungo e tutto per un tozzo di pane.
Solo in guerra si vedono, spie, eroi, macerie, violenza, pianti, esodi, abbandoni, distruzione.

Caro Bixio, dalla parte del porto i bambini  giocavano in un ambiente di pace. Le loro strade, le loro spiagge, le loro piazze e le loro case rimanevano in piedi.  Non c’erano pericoli. I loro genitori lavoravano duramente e dignitosamente per il futuro dei loro figli, non certo per la sopravvivenza quotidiana. Le loro madri si incontravano tra di loro il pomeriggio a cucire e a pettegolare tranquille. A scuola si andava sereni e si usciva di corsa per riempirsi le tasche di ghiande e poi giocare alla guerra. I ragazzi del porto giocavano alla guerra, non vivevano in una guerra. Sulle colline nascevano le bellissime ville dei signori del Nord, nel porto arrivavano i primi panfili, i più grandi di noi andavano a ballare al “Marirock”, arrivavano le straniere alla Torre dei Borboni a imparare l’italiano.

Certo anche tu, tra un morto e uno sgombero, tra una minaccia e uno scoppio di una mina, tra un crollo di una casa e l’addio di un amico che spariva, anche tu avrai giocato, ma i tuoi giochi pur belli e spontanei non potevano essere spensierati come i miei.
Caro Bixio tu mi hai raccontato di una guerra che io non ho vissuto, perché quella che tu hai vissuto è stata una vera guerra e questo lo voglio sottolineare per scusarmi e solidarizzare – anche se dopo tanti anni – con tutti i bambini di Le Forna che hanno vissuto, senza avere alcuna colpa, i loro anni migliori in guerra.

Anche la figura del Dottore dalle nostre parti era diversa. Per me era un grande e grosso omone che incuteva rispetto perché era il medico che “faceva le siringhe” ma non lo vedevo come il dittatore che collaborava con il nemico, che difendeva i torturatori della sua gente, che permetteva la distruzioni di case, che permetteva che i suoi concittadini fossero costretti ad emigrare.

Caro Bixio, certo, poi siamo partiti per studiare e ci siamo politicizzati e quando siamo tornati l’isola per noi, non era più la stessa. Non c’erano più paesani che insieme condividevano una vita in mezzo al mare, ma capitalisti e proletari, fascisti e antifascisti, speculatori e ambientalisti. E in questo contesto ideologico la miniera era da chiudere. Le Forna doveva rinascere, il vecchio potere era da abbattere e con esso il Dottore, che doveva sparire.

E la “Piovra” è stata chiusa ma, se tu dopo tanti anni  hai sentito il dovere di portare a galla quelle “memorie dal tuo sottosuolo” significa che quella guerra ti ha prodotto una ferita che non si è rimarginata.
Infatti, non possono ritornare gli anni della fanciullezza che ti hanno sottratto, costretto a vivere una guerra che non meritavi di vivere. Come non la meritavano i tanti bambini, uomini e donne che ora vivono lontani dalla loro isola. Quella guerra che ti ha strappato dall’affetto e dalla compagnia di amici con i quali avevi il diritto di condividere l’esperienza unica che è l’infanzia e l’adolescenza a Ponza. Quello che era un paradiso l’hanno trasformato sotto ai tuoi occhi in un inferno.
E quel paradiso e quell’età non potranno più tornare.

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Sito della Miniera dopo la frana del luglio 2007 (in apertura di articolo: la stessa zona prima della frana)

Ancora oggi che hai l’età dei ricordi sei costretto a vedere quotidianamente quello scempio e a ricordare il passato. Adesso quel territorio è una discarica e quella discarica l’abbiamo fatta noi nel nostro tempo di pace. Neanche noi siamo stati capaci di onorare i caduti di quella guerra, neanche noi siamo stati capaci di dare un senso alle lotte di quei primi eroi.
Uno di questi lo hai ricordato tu nel tuo libro: Peppe De Gaetano che orgoglioso e fiero della sua isola da salvare, rifiutava le lusinghe dei capetti della miniera. Non era facile fare quella scelta, in quegli anni e in quel regime.

Ma diciamocelo con molta sincerità: neanche noi che abbiamo condiviso ideali di giustizia, uguaglianza e rispetto dell’ambiente, noi che abbiamo creduto nella politica come arte di risolvere i problemi… neanche noi siamo riusciti a risanare quella ferita.
Essa grida ancora vendetta.

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Nota della Redazione
Il sito ha dedicato numerosi articoli all’argomento. Se si digita – Miniera – nel riquadro ‘Cerca nel sito’ in Frontespizio, compaiono (quadratini a fondo pagina) 40 schermate di 7 articoli ciascuna = 280 articoli (!). Tutti molto interessanti. Segnaliamo in particolare:

In occasione della serata-Miniera [4] del 18 agosto 2011, a cura della Redazione di Ponzaracconta

Quei bianchi fantasmi [5], di Luigi Aprea, del 22 agosto 2011

Ritratti fornesi. Americo Feola: la pazienza e la tenacia [6], di Giuseppe Mazzella del 9 ottobre 2016 – Il documento originale di opposizione del capofamiglia Agostino Feola alle ingiunzioni della Samip è stato rintracciato ed è parte di una tesi di laurea (di Federica Raddi); letto pubblicamente ad una riunione dei “Ponza-a-Lanuvio-Day” nel febbraio 2011, in presenza di Gilda Feola, la figlia di Americo: leggi qui [7]; porta la data del 14.12.1955. Qui di seguito (in formato .pdf): la lettera-agostino-feola [8]

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Appendice (Cfr. commento di Sandro Russo del 18 novembre)

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