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I bambini e le favole (4). Origine, significato e funzione della fiaba

di Patrizia Montani

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“…Una sottile, elegante ragnatela”
(V. J. Propp)

I bambini di oggi amano i cartoni animati, li guardano in solitudine su tablet o telefonini, armeggiando abilmente con entrambi i loro minuscoli pollici; qualche volta ascoltano favole moderne, un po’ artificiali e politicamente assai corrette, che parlano di principesse intelligenti e lupi pentiti. Più in là negli anni comunicano sui social avvalendosi di avanzate tecnologie e di un rudimentale linguaggio.

Bruno Bettelheim (1903-1990) nel suo libro “Il mondo incantato” sostiene che gli esseri umani raggiungano la maturità psicologica soltanto trovando il senso della propria vita, processo graduale di sviluppo parallelo dell’intelletto, dell’emotività e delle loro interazioni.
Perché ciò avvenga, il bambino deve avere la certezza degli affetti, il supporto dell’ambiente e della letteratura.
Le favole moderne non servono a questo scopo, istruiscono, divertono o fanno entrambe le cose, ma non hanno alcun accesso ai bisogni più profondi del bambino. I genitori moderni, inoltre, preoccupati di proteggere i loro figli dalla paura, dall’angoscia e dagli eventi dolorosi, raccontano loro storie rassicuranti; questa protezione non inganna il bambino, il quale prova emozioni turbinose e contrastanti, spesso violente e distruttive.
Soltanto la fiaba popolare risponde a questi requisiti.

L’origine della narrazione si fa risalire a due-tremila anni fa; fiaba e mito nacquero tra le popolazioni primitive, in luoghi della Terra, molto lontani fra di loro.
Non vi è accordo fra gli studiosi sui rapporti fra i due generi: secondo alcuni essendo la fiaba figlia del mito, secondo altri, per così dire, sorella. Sta di fatto che “la favola è una trasposizione attenuata del mito, essendo sottoposta meno strettamente al criterio della coerenza logica, della ortodossia religiosa e della pressione collettiva” (Levi Strauss).

Tramandate per secoli oralmente e ampiamente diffuse nel Medio Evo, le fiabe furono raccolte e trascritte nel ’600. Pochissime sono le fiabe note in confronto a quelle quasi del tutto sconosciute e soprattutto alle tantissime andate perdute.
Di volta in volta risentono di influssi religiosi, biblici, superstiziosi; sono raffinate e ricche di particolari, oppure scarne ed essenziali, risentono degli scambi tra popolazioni in movimento oppure di civiltà assai primitive ed isolate.

Propp (1895-1970) definisce la fiaba un’invenzione poetica, una sottile elegante ragnatela che tuttavia segue schemi precisi: nel suo libro Morfologia della fiaba, l’etnologo russo classifica le fiabe a seconda degli intrecci, delle caratteristiche e delle funzioni dei personaggi.

In polemica con Levi Strauss, Propp spiega come per ogni opera d’arte la forma sia indissolubilmente legata al contenuto e che pertanto la fiaba debba essere sempre raccontata nella maniera più precisa possibile, affinché sia riconoscibile.

Chiunque abbia letto qualche volta favole ai bambini sa che vogliono sentirle raccontare infinite volte, sempre con le stesse parole.
Soltanto le letture ripetute allo stesso modo, consentono la comprensione di volta in volta più profonda del testo e la sua interiorizzazione.
Nel racconto fiabesco, attraverso i simboli, si parla di morte, di vecchiaia, dei rapporti familiari, di figli che lasciano la casa paterna, delle difficoltà che si incontrano e di come ognuno debba superarle da solo. Il senso dell’esistenza.
I contenuti della fiaba devono essere chiari, semplici, polarizzati (bene-male, buono-cattivo, bello-brutto). Ci sarà tempo per capire le infinite sfumature di queste categorie; per ora il bambino ha bisogno di chiarezza e di sentirsi alleggerito dai sensi di colpa per i suoi pensieri cattivi.

Il dialogo del bambino col proprio inconscio non deve essere intercettato dai genitori né razionalizzato; si rischia di essere intrusivi e di minimizzare emozioni molto coinvolgenti.

[Origine, significato e funzione delle fiabe (prima parte) – Continua]

1 Comment

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  1. Sandro Russo

    14 Novembre 2019 at 08:01

    Ho un vivo e riconoscente ricordo di Beniamino Placido (1929 – 2010), giornalista, critico letterario e conduttore televisivo italiano. Aveva il raro dono di saper chiarire e spiegare le cose complesse, senza banalizzarle, con spunti di grande originalità.
    “Coltissimo, sempre ironico, indagatore curioso dei fenomeni culturali (anche quelli considerati “bassi”), Placido è stato una voce unica, nel panorama italiano. Un uomo capace di interpretare lo spirito del tempo, ma che in qualche modo portava dentro di sé anche lo status di grande intellettuale meridionale. Figlio di quel Sud in cui era nato: a Rionero in Vulture, in Basilicata” (da: Archivi di Repubblica).
    La sua rubrica giornaliera su la Repubblica si chiamava “A parer mio” e si occupava di critica televisiva, ma in realtà spaziava tra gli argomenti più vari. Si è occupato anche di fiabe e mi fa piacere riportare qui qualche suo appunto da uno scritto su Eugen Drewermann, pensatore tedesco, cattolico, innamorato della psicanalisi e delle religioni più antiche (e più primitive) che si è interessato anche delle favole.

    “In che senso le favole (antiche o moderne che siano) ci possono confortare, rassicurare? Già, rassicurare: con tutti quegli orchi, quelle streghe, quei lupi feroci, quei serpenti velenosi che presentano – obiettiamo. Ma c’è stato spiegato (siamo noi che non vogliamo proprio capirlo) che ci deve essere qualche ragione se i bambini amano e chiedono proprio quegli orchi, quelle streghe, quegli animali feroci nelle loro favole.
    È che i bambini lo sanno (ah, se lo sanno!) di essere aggressivi: nei confronti dei lupi, degli orchi e magari anche dei compagni di scuola. Però se ne vergognano. Ma non osano dirlo, non osano dirselo. Attraverso la fiaba si liberano di questo loro insidioso senso di colpa. Capiscono che non sono i soli ad avercelo, che non sono i soli a soffrirne.
    Chi ancora non riesce a capirlo è l’adulto, che continua imperterrito a fare la sua guerra agli orchi e agli orsi, cacciandoli via dalle favole, che così diventano insipide ed indigeribili. Ma perché non provano mai ad espellere dall’Odissea quel mascalzone di Polifemo, quella poco di buono della maga Circe?
    […] (…in ogni favola si trova un momento iniziale) …che descrive l’infanzia come un’età dell’oro; nella quale i bambini e le mamme, e i boschi e le foglie, vivono in un perfetto accordo. Illusorio, naturalmente, perché poi le rotture e i pericoli verranno. E verranno anche le pressioni a riconoscere e ad accettare la propria sessualità.
    La fiaba serve appunto a conciliare queste opposte pressioni ed a viverle in armonia.

    [estratto da Beniamino Placido in: la Repubblica; 2004]

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