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L’ultimo giorno da bambino. Racconto

segnalato da Sandro Russo
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Una suggestione collegata al film di cui ha scritto ieri Gianni Sarro: Una giornata particolare [2] di Scola; poi si capirà il perché.
A parte questo, mi piacciono i racconti che – in qualche modo inapparente – coinvolgono il lettore e lo spingono a farsi domande… In questo caso: – Riesco a ricordare qual è stato il mio… ultimo giorno da bambino?
S. R.

 

L’ultimo giorno da bambino
di Marcello Aleandri del 15 maggio 2019

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Illustrazione di Agrin Amedì

Zio Vittorio aveva una bottega da barbiere, incastrata tra la Prenestina e i palazzi del Pigneto. In alto vedevo sfrecciare le macchine sulla sopraelevata a buttare i gas di scarico direttamente nelle finestre della gente e in basso sferragliavano i treni diretti a Tiburtina o Termini, lenti e svogliati come tartarughe di metallo. Davanti alla bottega, il resto del traffico, i marciapiedi pieni di persone, vigili urbani, merde di cane e tutto il corredo cittadino di Roma, necessario e inevitabile.
Era un casino a tutte le ore e appena potevo, uscendo da scuola o facendo una commissione per mamma o semplicemente passando per sbaglio di lì, mi infilavo nel negozio come fosse un rifugio alla confusione di quelle giornate. E mi piaceva tutto. L’insegna di fuori, un cilindro che ruotava, colorato di bianco, rosso e blu, le vecchie poltrone di cuoio coi bottoni e le cuciture spesse scurite dal tempo e dai culi che ci si erano poggiati sopra, il cavalluccio di peltro per tagliare i capelli ai bambini dove io stesso ero stato messo un sacco di volte, le ciocche tagliate per terra in attesa di essere spazzate, i lenzuoli celesti pronti per avvolgere i colli dei clienti e le barbe da radere, gli specchi invecchiati puntinati agli angoli come vecchie fotografie, l’odore della colonia Velva fluttuante nell’aria e onnipresente come l’incenso in una chiesa.

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E mi piaceva lui, zio Vittorio, sempre indaffarato e pieno di chiacchiera, profumato di fresco, con le mani a gesticolare, con i braccialetti d’oro ai polsi, le catenine e i crocefissi grossi al collo sotto le camicie che teneva aperte pure a gennaio, coi baffi insolenti e le spalle larghe, coi capelli impomatati e gli occhi chiari che ridevano sempre, alto e fatto bene come si conviene a chi con la bellezza ci lavora.
Appena mi affacciavo sulla soglia della bottega, sempre piena di gente, gli veniva un sorriso largo così, alzava le forbici per aria come fossero sciabole a salutare un re e declamava: «Ecco Sandrino!» oppure «Amore de zio, t’aspettavo. Vie’ dentro» oppure «A bello! Quanto tempo che nun te vedo!». Insomma, era una festa comunque.
Il negozio era sempre pieno, più di persone in affari, come diceva lui, che di clienti veri e propri. E c’era un andirivieni a tutte le ore tra la saletta e il retrobottega, fino a quando zio Vittorio metteva il cartello “Torno subito” alla porta a vetri, tirava le tendine colorate e poi mi diceva di starmene tranquillo mentre lui c’aveva da sbrigare delle cose e se ne andava di là, dove sentivo un bisbigliare indefinito, puzza di sigarette, ogni tanto una bestemmia o qualche parolaccia. Ma io non mi annoiavo. Leggevo le riviste sparse sui tavolini, sui mobili vicino ai rasoi o agli asciugacapelli, spruzzavo i dopobarba, facevo girare le poltrone su sé stesse, mi mettevo la schiuma saponata sulle guance e alla fine zio ritornava, a volte con una faccia scura, a volte col sorriso che mi piaceva tanto. E c’era sempre un viavai di soldi, banconote che passavano da una tasca all’altra, cenni d’intesa, strizzatine d’occhio. Ma io che ne sapevo, in fin dei conti.
Per me zio Vittorio, che poi proprio zio non era, forse un parente alla lontana o un amico di famiglia, era uno che avevo sempre visto in casa nostra, che mangiava e beveva alla tavola con noi. Poi, ero ancora un mocciosetto, la storia finì quando mio padre non so perché se ne andò da casa e mamma trovava sconveniente (disse proprio così) che lo zio continuasse a frequentarci in casa.
Così io trovai lo stesso la strada per la bottega del Pigneto, perché mi piacevano i sorrisi che zio Vittorio mi faceva, i gelati a cono acquistati all’angolo della via, le barzellette oscene che mi raccontava abbassando la voce. Perché mamma non era contenta che lo vedessi, ma io m’ero stufato di stare in casa appresso a lei cogli occhi gonfi, osservarla rovistare in un cassetto del comò tirando fuori foto di papà per guardarsele ore e ore, bagnandole di lacrime e asciugandole coi sospiri. Così uscivo, e non appeno vedevo il cilindro bianco rosso e blu ruotare all’infinito fuori alla bottega entravo dentro, dove non c’erano tristezze, non c’erano pensieri cupi: solo le risate rumorose di mio zio e tutta quella vita che scorreva intorno.

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Mia madre andava a servizio quattro giorni a settimana da una famiglia ricca di Corso Trieste; così avevo tempo per me finiti i compiti e l’inverno se passavo alla bottega e c’era solo qualche vecchio dentro a spuntarsi i capelli sulla nuca, zio chiudeva tutto e mi diceva: «Andiamo, vieni con me». E mi caricava sulla macchina, andando verso il centro. Parcheggiavamo dietro Piazza Venezia e mi portava nei vicoli stretti dove inciampavamo sui sampietrini sconnessi, dove c’erano le buste di plastica dell’immondizia sotto gli archi a volta a pochi metri dalle Madonnine piene di grazie ricevute, e si infilava in qualche rimessa o pizzeria o bottega di stagnaro, di tappezziere, e mi diceva di aspettarlo. Oppure si incontrava a Campo de’ Fiori con gli amici e lo vedevo sbracciarsi, toccarsi il crocefisso d’oro, maneggiare soldi, fischiare alle ragazze, fumare, imprecare o ridere a bocca aperta mentre io zitto mangiavo un supplì o il baccalà fritto di Via dei Giubbonari. Poi finiva che si era fatto tardi, mi dava un gettone per telefonare a casa e andavamo ai Marmi di Trastevere, dove c’era la pizza romana più buona del mondo.

Ma l’estate, beh, l’estate quando arrivava per davvero, quando le scuole chiudevano e sentivo le prime cicale arrampicate a fare chiasso sui pini di Porta Maggiore, era il momento più bello dell’anno, quello che aspettavo sfogliando i giorni del calendario. Perché tutti i lunedì i barbieri riposano, e zio Vittorio mi portava al mare di Ostia. Passava la mattina alle nove, suonava al citofono e io ero già pronto, col costume sotto i pantaloni e la borsetta dell’asciugamano mentre mamma girava per casa nervosa, sistemandosi i capelli, guardandosi allo specchio e a volte colorandosi le labbra con il rossetto nuovo. Poi, non appena il campanello gracchiava, si scuoteva tutta, lisciandosi il vestitino e andando al balcone, dove io la seguivo saltando per la contentezza. Allora si metteva dietro di me, con le mani a premermi sull’incavo delle spalle; sotto c’era zio Vittorio, e tutte le volte attaccavano un teatrino che più o meno faceva così: «Caterì, madonna che bella che sei oggi. Hai la gonna, eh? Ma esci da lì dietro, fatti vedere! Sandrino, digli a mamma se vuole venire con noi, dai, che oggi andiamo a mangiare il pesce!». Ma mamma rimaneva rigida, strizzava gli occhi, serrava le labbra a formare una specie di O e chiosava acida «No, ho da fare. Stacci attento, Vittò, mi è rimasto solo lui. Va bene?». E zio sorridendo allargava le braccia in un gesto che faceva spesso, così la camicia si apriva e si vedeva il torace forte, muscoloso, con le collane d’oro pacchiane e le diceva: «Non ti devi preoccupare, Caterì, lo sai bene. Ci andiamo solo a fare una giornata di mare». E correvo giù per le scale, lasciando mia madre confusa in viso, coi lineamenti tesi a toccarsi le ciocche di capelli, a rimboccarsi le maniche del vestito, a rimettere in ordine le fila dei suoi pensieri.
E così, dentro la Giulietta di zio Vittorio ce andavamo verso Ostia. E c’era sempre quel punto lì, sulla Cristoforo Colombo, dove l’odore di resina dei pini a destra e sinistra della carreggiata si faceva più forte e si mischiava già al salmastro, dove la strada prima si alzava leggermente in un abbozzo di salita e poi riscendeva; insomma c’era quel posto preciso dove potevo vedere finalmente il filo blu intenso e scuro dell’orizzonte e strillavo ogni volta: «Zio, eccolo laggiù, il mare! Il mare!». E lui pure rideva, con la sigaretta in bocca e la cenere che volava per tutta la macchina, trasportata dal vento caldo che entrava furibondo dai finestrini tutti aperti.
Al mare era sempre un divertimento. Facevo il bagno, entravo e uscivo dall’acqua, mentre zio se ne stava al chiosco a bere un po’ di vino fresco, lontano dal sole che gli metteva ansia come fosse stato una medusa allungata sul bagnasciuga. Odiava pure la sabbia, ma tanto arrivava subito qualcuno che lo conosceva o aveva un appuntamento, così si riformava la cagnara e le sceneggiate che vedevo l’inverno, le risate e gli scoppi d’ira, i soldi che passavano di mano, le sigarette spente e accese in continuazione, le bottiglie di birra fredda, i riflessi del sole sulle catenine d’oro, sui bracciali. Mi sembrava tutto uno spettacolo messo in piedi per me. Poi a pranzo andavamo sempre allo stesso ristorante coi tavolini in mezzo alla spiaggia e il tetto di cannucce a ripararci dalla calura, e prendevamo la frittura mista, le fragole col gelato o il cocomero. Non mancava mai una brocca di vino bianco ghiacciato in mezzo alla tavola, e ci serviva la proprietaria del locale, una donna mora, gli occhi scuri, la bocca piccola e rossa come una ciliegia matura. Aveva sempre una spallina del vestito leggero che le cadeva o la gonna attillata sul sedere sodo, e zio allungava le mani, la toccava nella scollatura, in mezzo alle gambe e quella strillava, gli dava le botte sulla testa ma rimaneva lì finché non avevamo finito di mangiare. Poi sparivano tutti e due mentre io rimanevo a stuzzicare quello che era rimasto, mi bagnavo solo i piedi – che avevo paura di tuffarmi e morire con la pancia tesa come un melone – e alla fine ricompariva zio Vittorio con la camicia di fuori, gli occhi pesti, la faccia stropicciata e, a volte, certi segni rossi sul collo. La signora mora, lei, dopo pranzo, non la vedevo mai. Così mi arruffava i capelli e tornavamo a Roma, dove mamma mi faceva un interrogatorio che durava tutta la sera; dove sei stato, che avete fatto, zio con chi ha parlato, il mare era mosso? Ma della signora mora non ne parlavo mai, chissà perché.
E cambiavano le stagioni, veniva il mattino e appresso le notti. Vivevamo.

Poi, un giorno, successe quello che evidentemente doveva succedere. Stavo nella bottega, entrò un tizio alto e magro, una faccia senza luce, adatta a un vicolo scuro o un appartamento con poche finestre. Iniziarono una discussione. Non capivo niente, sentivo solo parlare di cavalli, soldi, scommesse, prestiti. Mio zio disse a un tratto: «Non qui, c’è il ragazzino. Andiamo fuori». Poi si voltò verso di me, abbassandosi alle mie orecchie, e mi sussurrò: «Rimani dentro, ho da fare un attimo».
Tirò le tendine e uscì sul marciapiede, chiudendo la porta. Aveva le forbici in mano.
Sentii la discussione che cresceva d’intensità, parole brutte, rumore di schiaffi, ma non volevo scostare le tendine, non volevo sapere niente così alla fine mi turai le orecchie. E dopo parecchio, che mi faceva male stare con i gomiti alzati e i palmi delle mani ai lati della faccia, entrò qualcuno e disse: «Ma qui c’è un ragazzino!».
E mi portarono fuori prendendomi in braccio, anche se ormai ero già grandicello. E mi vergognai; e mi dissero di non sentire quello che dicevano, e io non sentii perché nella testa mi sembrava di udire solo le automobili che scorrevano veloci sulla sopraelevata e i treni raspare i binari sconnessi della ferrovia. Poi mi dissero di non guardare e non guardai, però c’era una cosa buttata sul marciapiede e non potei fare a meno di notarla, perché strappava bagliori rossastri alla luce del pomeriggio. E quando riconobbi che là in terra c’era il crocefisso d’oro di zio Vittorio tutto sporco di sangue mi sembrò di svenire, mi sembrò di stare dentro un sogno senza avere la possibilità di svegliarmi. E fu così che mi portarono a casa, tra le braccia di uno sconosciuto.

Passarono i mesi, gli anni. Avevo quasi preso il diploma di geometra. Ero alto, le spalle grosse, mi tagliavo una specie di barba e le ragazze mi davano un tormento a vederle per la strada che non gli staccavo gli occhi di dosso, e mi sembrava andassero in giro tutte nude, anche d’inverno, solo per far venire voglia a me.
Mia madre mi portava ogni tanto al cimitero del Verano, al fornetto di zio Vittorio. A me non andava tanto. Mi veniva sempre in mente la catenina rossa di sangue sul marciapiede. E mi davano fastidio i fiorai all’ingresso della Tiburtina che ti assediavano tirandoti le braccia per venderti chi un crisantemo, chi una gerbera o un ranuncolo, oppure roselline. Stavamo là qualche minuto, leggendo mille volte la data di nascita e quella della morte, riguardando la lapide che ingialliva giorno dopo giorno; poi ritornavamo a casa. Fino a quel pomeriggio mite di novembre, quando rientrai e trovai mia madre al tavolo della cucina, seduta con le mani appoggiate al piano e in mezzo un po’ di fotografie. Pensavo fossero di papà, che le avesse prese rovistando sul fondo del solito cassetto.
Ne raccolsi una del mucchio, aveva i margini dentellati ed era una foto di un gruppo di ragazzi, ma non ne riconoscevo nessuno. Così lei mi disse: «Guarda questa». E mi allungò un ritratto dove si vedeva uno dei giovani del gruppo, però ripreso da solo. Aveva una bella faccia, età più o meno la mia, pieno di allegria, rideva con tutto il viso. Sembrava alto e fatto bene, e teneva le braccia aperte a mostrare il petto forte e la camicia sbottonata sul davanti. Mi somigliava tanto, così tanto che mi venne una fitta improvvisa dentro, in tutto il corpo, dai capelli alla punta dei piedi. Girai la foto. C’era una scritta dietro. Diceva: «Vittorio, 18 anni».

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Posai la foto sul tavolo. Guardai mia madre. Teneva la bocca chiusa. Aveva pianto perché si vedevano le ciglia accoppiate due a due, ma adesso stava a viso asciutto. Riguardai la foto, poi mia madre.
E lei forse si aspettava di essere giudicata, insultata, o che mi alzassi per scappare via. Invece posai le mie mani sulle sue, perché c’era una luce d’autunno calda e dolcissima che entrava obliqua dalla finestra e ammorbidiva gli spigoli delle cose, le cromature del frigorifero, la tovaglia di linoleum e le piastrelle acquamarina del lavandino. E l’aria nella stanza s’era fatta tiepida e sentivo forte l’odore del bucato pronto per stirare e così pensai che uno dei quei giorni avrei fatto per l’ultima volta una cosa che tanto ci piaceva a me e mamma quando ero solo un ragazzino: avrei preso la cesta dei panni bagnati e saremmo andati su in terrazza, noi due insieme, per stenderli sui fili ad asciugare.

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E mentre il vento di Roma avrebbe gonfiato le lenzuola come le vele di una nave, teso le camicie e scrollato gli asciugamani, avremmo giocato ancora ascoltando il rumore misterioso dei tubi dell’acqua nei cassoni del palazzo, fatto vibrare come corde di violino i fili zincati delle antenne sbilenche e arrugginite, scivolato sui muschi nella parte più umida e ombrosa del pavimento. E sarebbe stato quello, precisamente quello, il mio ultimo giorno da bambino.

(Un racconto di Marcello Aleandri, da www.omero.it [8] )