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Isole d’inverno

di Enzo Di Giovanni

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Chiariamo un concetto: le isole sono solo quelle cosiddette minori. Perché se non vedi o non senti il mare dappertutto, non è un’isola. Le isole poi sono tutte uguali perché hanno tutte la stessa storia: anche gli isolani sono tutti uguali perché sono fatti della stessa materia che plasma le isole.
Un isolano lo riconosci subito perché indistinguibile dalla pietra, dagli arbusti, dal vento.
Per questo un isolano non è mai solo: perché egli stesso è pietra, arbusto, vento.
Può esserci altrove un rapporto così viscerale, simbiotico, tra l’uomo e la terra dove vive? No, non può.
L’isola è un microcosmo unico al mondo.
Non è un caso che esperimenti sociali, come quello di stampo illuminista tentato, progettato e realizzato dai Borbone a Ponza, o spontaneo come quello della colonizzazione della Galite sono stati realizzati su isole: non poteva essere altrimenti.
Nell’isola la comunità umana non nasce trasferendo sul territorio il proprio sapere, stravolgendo la natura ai propri bisogni. Qua accade esattamente il contrario: è il territorio insulare che ti costringe ad adattarti ad esso, che ti accetta solo a condizione che tu sappia comprenderne spazi, ritmi e stagioni.

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Erano queste le riflessioni che si respiravano nell’aria ieri sera all’incontro con Federica Di Giovanni (leggi qui [2]), mentre scorrevano le immagini, sul sagrato della chiesa di Ponza.
Non so dove Federica ha presentato il suo libro prima di Ponza. Ma sono sicuro che solo in un contesto isolano, al di là della passione e della bravura dell’autrice, si riescono a catturare fino in fondo le sensazioni ed emozioni che un’opera del genere – che non è un libro fotografico, ma un viaggio alla ricerca di un approdo – suscitano.
Perché ieri eravamo in un piazzale sospeso, in pieno centro storico, a due passi dalla caotica e confusa movida estiva, come in una cittadella assediata, ma impermeabile.

Ma si può essere isolani anche se non si è nati su un’isola, o al contrario vivere su un’isola e non esserlo per niente?
Si può, perché è necessario un lungo processo di identificazione, di crescita, riservato a pochi.
Per diventare isolani, o per restarlo, non bisogna acquisire conoscenze, ma al contrario perdere quelle poche che si pensa di avere.
Solo liberandosi di se stessi, si diventa parte dell’isola.
Per questo, dicevo, le isole sono tutte uguali, ed anche gli uomini e le donne che le popolano.
Perché l’esperienza di vita è la stessa, ad Alicudi come a Pantelleria.
Ma allo stesso tempo, ed è solo uno dei tanti apparenti – solo apparenti – paradossi dell’essere isolano, le storie ed i volti sono sì tutti uguali, ma al contempo tutti diversi. Perché essere parte integrante di un luogo così intenso conferisce a chi riesce in questo processo di identificazione un carattere ed una personalità altrettanto intensa.
I volti rugosi, vissuti, di persone come Maciste, zu Pippinu, sono i volti dei nostri padri, indipendentemente dalle storie di vita, perché hanno una cosa che li rende uguali: sono i volti di chi ce l’ha fatta.
Non a diventare ricco, o ad avere successo nel lavoro, ma ad essere degno di vivere.

[3]

La massima attribuita ad Andy Wharol, “tutti hanno diritto a 15 minuti di celebrità” e che scandisce nell’epoca di Facebook ed Instagram il compulsivo attaccamento ai social ed all’ansia di apparire, non appartengono a questo mondo.
L’ansia di apparire, di bruciare la vita velocemente, sono il segnale di una umanità malata, che ha paura di morire e perciò di vivere.
Quando i turisti che ospito a casa mia, o che incontro in giro per Ponza, mi chiedono cosa si può fare nei tre giorni di vacanza che hanno a disposizione, sono tentato di rispondere: niente!
Ma sarebbe la verità… e a chi interessa la verità?
La verità che andrebbe raccontata è un’altra: le isole vanno visitate d’inverno.
Sperando che il mare mosso faccia saltare le corse dei traghetti, e “costringa” a fermarsi, a fermare il proprio tempo, permettendo così di scoprire con stupore che si può.

A condizione, ovviamente, di diventare isolani.