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La storia raccontata dai film (9). Il Risorgimento al cinema

di Gianni Sarro

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Sicuramente Il Gattopardo di Visconti è un film basilare della filmografia italiana; ecco che dopo la citazione che ne fa Stefano Testa nel suo scritto (leggi qui [1]) e l’articolo comparso sul sito nel marzo 2018 (leggi qui [2]), arriva a trattarne anche Gianni Sarro per la sua serie “La storia raccontata dai film”.

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La Storia italiana, dall’Unità in poi, è una fonte inesauribile di spunti narrativi per il cinema. Non a caso il primo film a soggetto del cinema italiano degli esordi è La presa di Roma (1905), di Filoteo Alberini, che rievoca l’entrata dei Bersaglieri nella futura capitale del Regno d’Italia, il 20 settembre 1870.
Il film di Alberini è un archetipo per i tanti film sul Risorgimento girati negli anni del muto, purtroppo molti di essi sono andati perduti, tuttavia dalle testimonianze contenute negli scritti di chi quei film ha visto, si evince una caratteristica comune, quella della sovraesposizione dell’immagine di Garibaldi trasformata in icona sacra.
I film sul Risorgimento tornano in auge tra il 1923 e il 1927, e dopo una breve pausa, riprendono vigore a partire dal 1933. Evidente la volontà del fascismo di mettere in atto una strategia di appropriazione del Risorgimento. Molti di quei film hanno titoli molto evocativi: Il grido dell’aquila (1923), La cavalcata ardente (1925), Anita (1926), Un balilla del ’48 (1927). È interessante sottolineare come il fascismo adotti l’iconografia classica del Risorgimento, mostrando Vittorio Emanuele II in divisa militare, Mazzini in abito nero e sguardo infuocato, Garibaldi, scarmigliato in camicia rossa e poncho, alla testa dei suoi soldati.
Il Generale, come scrive Guido Cincotti nel suo Il Risorgimento italiano nel cinema e nel teatro, Roma 1961, ‘l’unico ed autentico mito che la nostra storia abbia saputo erigere ed alimentare con costanza’.

Nel 1933 esce uno dei film più importanti girati sul Risorgimento, non solo in epoca fascista, 1860 di Blasetti, che ebbe notevole fortuna critica anche nel secondo dopoguerra, quando fu considerato tra gli antesignani del neorealismo (leggi qui [4]).

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Il film di Blasetti non mima la storia come la si racconta nei manuali, ma conduce un’operazione storiografica, proponendo una sua interpretazione del Risorgimento, rappresenta un punto di visto oggettivo, dove spicca l’assenza di un protagonista con cui identificarsi. Blasetti, spinge a tal punto il gioco che sceglie di non fare di Garibaldi un eroe romanzesco, protagonista della storia, ma di mostrarlo per pochi secondi nell’intero film, una presenza in silhouette. Il risultato finale è che Mussolini guarda il film, storce la bocca, perché poco celebrativo e troppo anti-retorico, e 1860 finisce in naftalina.

Passata la bufera della guerra, il cinema torna ad occuparsi del Risorgimento negli anni cinquanta. Cavalcata d’eroi (1951) di Mario Costa, Camicie rosse (1952) di Goffredo Alessandrini, narrano le vicende della Repubblica romana del 1848. La pattuglia sperduta (1953), di Pietro Nelli racconta la disfatta piemontese a Novara nel 1849, durante la Prima guerra d’indipendenza, mentre in Senso (1954) Visconti sceglie di narrare la battaglia di Custoza, un momento della Terza guerra d’indipendenza che l’Italia vincerà solo grazie alla Prussia.
Tutti e quattro i film mostrano momenti drammatici del Risorgimento, dando un’immagine pessimistica della guerra: se pensiamo che la Seconda guerra mondiale è finita da una manciata di anni non ci sembrerà tanto strana questa visione.

Bisogna aspettare il 1960, centenario dell’Unità, per trovare due nuovi film sul Risorgimento: Viva l’Italia (1960) di Rossellini e Il Gattopardo (1962) di Visconti.

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Il film di Rossellini è girato con l’intenzione di offrire al pubblico un documento storico, conferendo allo spettacolo una dimensione didascalica. Rossellini offre una cronaca degli avvenimenti, anche minuziosa, vuole rappresentare una realtà anti-eroica, senza forzature romanzesche o drammatiche. Un Risorgimento senza eroi.

Il Gattopardo (1962) è un’operazione di segno opposto, almeno per quel riguarda la messa in scena: tanto lineare e sobrio il film di Rossellini, quanto sfarzoso e grandioso quello di Visconti. Eppure Il Gattopardo è tutto fuorché un inno trionfale delle glorie risorgimentali.
Il film, si presta a molte letture, una di queste è quella di essere una riflessione sull’Italia degli anni in cui è girato. Gli anni in cui si parla ormai apertamente della Resistenza come di una rivoluzione tradita. Come spesso accade il cinema sceglie di mettere in scena un periodo storico del passato, ma in realtà parla dell’oggi.

In chiusura analizziamo brevemente tre sequenze de Il Gattopardo.
Il film si apre con la macchina da presa che fatica ad aprirsi un varco verso il palazzo del Principe di Salina: ad ostacolare la visuale ci sono i tronchi, i rami, le foglie degli alberi secolari. La macchina da presa deve scavalcare le mura per darci una visuale più chiara. Il racconto non è mai nitido.

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Villa Boscogrande a Palermo fu scelta da Visconti per rappresentare il palazzo dei Salina

Pensiamo ad un’altra sequenza, quella della Battaglia di Palermo, nella rappresentazione viscontiana prevale il caos, le scene spesso non finiscono di mostrare quello che stanno narrando: prevale la confusione dei ruoli, camicie rosse che sembrano imporsi e che invece sono ricacciate all’indietro e costrette a nascondersi dentro un convento. In questo caso la macchina da presa è distante, spesso rialzata rispetto al piano dell’azione, in una parola equidistante. Perché? Forse in questo modo Visconti vuole suggerire che la storia va analizzata sui risultati a lungo termine e non sugli episodi, pur eroici, a volte, dell’immediato. E l’esito del Risorgimento, come quello della Resistenza, non è stato certo quello sperato.

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Fotografie di scena scattate nei giorni iniziali delle riprese de “Il Gattopardo”, nel maggio del 1962. Nel quartiere palermitano della Kalsa

Infine la macro-sequenza del ballo, lunga quasi un terzo del film, nella quale domina la forma circolare del valzer. La circolarità è la forma dominante del film. La circolarità evoca la chiusura dello spazio, l’immobilità del tempo, l’impermeabilità della società. Un’illusione? Forse. Ma in fin dei conti, il cambiamento non sembra spaventare il Principe e suo nipote Tancredi, se è vero che alla fine ‘Bisogna che tutto cambi, se vogliamo che tutto rimanga com’è’.
Anche questa frase, fateci caso, rimanda alla circolarità.

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