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I bambini questi sconosciuti (2). Sistemi educativi

di Patrizia Montani
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Goethe ha scritto “Con Voltaire è un mondo che finisce; con Rousseau è un mondo che comincia”.
Quando nel 1762 viene pubblicato “Emile ou de l’education” di Jean Jacques Rousseau, non solo non esisteva la pedagogia, cioè la scienza di educare e formare i ragazzi, ma non c’era nessuna attenzione per la vita, la salute, i bisogni dei bambini.
La mortalità infantile era, ogni anno di 300-400 bambini morti entro i 5 anni di vita, ogni 1000 nati (si noti che ai nostri giorni, in Italia essa è prossima allo zero).
Anche i rapporti familiari erano molto diversi e i bambini ne facevano le spese più di tutti. Si pensava che i bambini non soffrissero il dolore fisico e men che meno quello psichico. Alla nascita venivano fasciati, immobilizzando gambe e braccia.
Tra i nobili e i ricchi i rapporti affettivi con la prole erano distanti e algidi; l’educazione era affidata a precettori autoritari.
Nelle classi meno agiate i bambini morivano anche più spesso e incominciavano a lavorare molto presto.
Non esisteva ancora la Borghesia, né tutta l’idea di famiglia che abbiamo noi oggi.
Il libro di Rousseau, in forma di romanzo, propone un’educazione libera, nella natura, assumendo che così il ragazzo scopra Dio, le regole della convivenza e la coscienza di sé.
L’Autore riteneva che, così facendo, l’individuo, nato buono, non venisse corrotto dalla società.

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Considerando il contesto storico (parliamo di prima della Rivoluzione francese), la portata dell’opera di Rousseau è straordinariamente innovativa. Talmente innovativa che suscitò scalpore e aspre critiche; Rousseau fu costretto all’esilio.
Successivamente la teoria venne compresa e abbracciata da molti studiosi e molto sostenuta dalla Rivoluzione stessa.

Oggi tutto ciò ci appare ingenuo: sappiamo che il patrimonio genetico determina i tratti fisici e psichici, interagendo con l’ambiente fisico, affettivo, culturale e sociale, e producendo l’infinita varietà umana.

Tralasciando per il momento l’evoluzione del pensiero pedagogico da Rousseau alla fine dell’’800,è interessante notare che Maria Montessori riprende in qualche modo i concetti di Rousseau.
Il metodo da lei proposto nel 1906, studiato per i disabili e in seguito per tutti i bambini delle elementari e della materna, si basa sulla libertà, sull’impegno del bambino a costruire se stesso, sulla manualità, l’esperienza e l’abbattimento delle barriere fisiche(cattedre a livello dei bambini, grembiuli abbottonati davanti, servizi igienici a dimensione di bambino).

Dopo più di un secolo gli insegnamenti di Maria Montessori, pur essendo in parte superati, hanno contribuito al rinnovamento della scuola elementare e materna ed hanno tuttora una sorprendente diffusione nel mondo.

Consiglio, a corredo e illustrazione dell’articolo due film di cui allego una sintesi:

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Il ragazzo selvaggio (1969), di François Truffaut

Il film, tratto dalla famosa memoria del medico parigino Jean Itard, è palesemente ispirato al pensiero pedagogico del filosofo ginevrino Rousseau.
Nella Francia di fine 700 alcuni contadini scoprono nei boschi dell’Aveyron un ragazzo che vive allo stato brado, semi-animalesco. Lo catturano e lo affidano agli scienziati di Parigi. Tutto nel ragazzo è bestiale: ha gli artigli, si esprime a grugniti ed è mordace. In dottor Itard, figlio dei Lumi, non dispera di riuscire a “civilizzarlo” e lo conduce nella sua villa di campagna. Con metodo e pazienza inizia la sua “cura” che si protrae per settimane e settimane, registrando progressi insignificanti. Una notte, il ragazzo fugge per tornare libero nei boschi, ma imprevedibilmente ritorna e il dottore può riprendere la cura, questa volta con significativi risultati. Film di grande lirismo che testimonia dell’amore del regista per l’infanzia e della sua fredda disapprovazione dei metodi educativi invasivi (da www.mymovies.it)

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Il padre di famiglia (1967), di Nanni Loy, con Nino Manfredi, Leslie Caron, Ugo Tognazzi e Totò (alla sua ultima apparizione sullo schermo, per pochi secondi).

Nel 1946 due studenti di architettura si conoscono e, seppur di orientamenti politici diversi, si innamorano e infine decidono di sposarsi. La donna abbandonerà la sua professione per dedicarsi a tempo pieno alla famiglia mentre l’uomo si dedicherà anima e corpo a combattere l’eccessiva cementificazione della città. Entrambi però finiranno per essere logorati da queste situazioni. Nanni Loy con grande lucidità riflette sull’Italia che esce dalla Seconda guerra Mondiale e si lancia verso gli anni ’60 e il boom economico.
Dopo varie difficoltà nel crescere i bambini (con il cosiddetto metodo Montessori), Paola viene ricoverata in clinica per esaurimento nervoso, mentre Marco, che ancora l’ama, torna alla propria famiglia, dopo una breve avventura sentimentale con un’avvenente ma superficiale amica di gioventù. Nell’ultima scena, alla richiesta di un funzionario del censimento se sia lui il capofamiglia, Marco non sa rispondere.

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[I bambini questi sconosciuti (2) – Continua]
Per la prima parte: “Contro i bambini”, leggi qui [8]