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Isole, di Erri De Luca (2)

dall’introduzione al volume “Isole d’Inverno”, di Federica Di Giovanni; proposta da Sandro Russo

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Abbiamo letto ieri (leggi qui [1]) questa introduzione di Erri De Luca al libro fotografico di Federica Di Giovanni, proposto come più appropriato, per far capire l’essenza delle Isole, rispetto all’episodio omonimo del film Caro diario di Nanni Moretti (1993).
Vediamo se oltre alla fotografa, uno scrittore riesce a far comprendere cosa sono “le isole”.

[2]

 

“L’ho saputo a Ischia, dalla cima del monte Epomeo, che raccoglie tutti i trecentosessanta gradi dell’angolo giro.
Altra definizione imparata lì: isola è dove vanno a spasso i cani sciolti.
In questo raccolto e racconto di immagini inquadrate da Federica, mi trovo a sfogliare e frequentare questa specie di francobolli e di frantumi della geografia.
L’isola dichiara a vista la sua geologia, il deposito a strati delle ere infuocate della terra. L’isola esala l’ultima cottura.
Da una qualunque delle sue rive il continente viene definito terraferma, perché se ne sta senza l’anello mobile e nuziale del mare tutt’intorno.
L’Italia è una penisola, secondo la sua prima definizione. Il nome di origine latina vuoi dire alla lettera: quasi isola. Penisola è una terra che ha cercato di essere isola, non avere altra via di accesso in superficie all’infuori del mare. Ha cercato ma non c’è riuscita, rimanendo attaccata ai continente dalla saldatura delle Alpi.
Complimenti all’Italia, isola quasi, per lo sforzo geografico mancato di essere arcipelago. A testimone della sua vocazione insulare provvede la Storia, quella maiuscola: la civiltà che vanta è tutta quanta arrivata dal mare, unico al mondo a farsi chiamare Nostrum.
Teatro, geometria, sapienza delle stelle, numeri, giochi olimpici, fondatori di città nostrane, portatori di monoteismo, di filosofie: gente sbarcata, che oggi è definita clandestina. La nostra civiltà si deve a loro.

Qui incontro isole nei loro tempo di riservatezza, nei mesi dell’inverno che le spopola e le imbozzola. “E quando mare e il cielo dicono di no e non si può viaggiare”, cantava il fraterno amico Gian Maria Testa. Perché l’isola si fa sigillare dalla schiuma bianca delle tempeste e saltano come tappi di bottiglia i rifornimenti e gli appuntamenti.
Nelle più piccole sono state chiuse le scuole, i bambini studiano in terraferma. Non ci sono più levatrici, si nasce in ospedali di oltremare, si muore in letti di ospedali di oltremare. Le isole più piccole dimenticano le nascite e i decessi.

Qui si vede più nitido il tempo scaduto sui manufatti abbandonati.
Dismessa la nobile edilizia del faro, superato da altre dotazioni di bordo.
Dismessa l’oscena edilizia dei casermoni penali, superata da altre detenzioni capaci di isolare meglio del mare intorno. Le celle vuote, prese in consegna dalla vegetazione, sono una profezia: così sarà il futuro. Scarseggerà di noi, vuoti gli agglomerati, i rimanenti abiteranno in piccole stanze.
Il vento continuerà a spargere sale marino sui cespugli dei capperi, i gabbiani negli orti verranno a razzolare ai posto di galline, per voce ci sarà il gridolino acuto delle diomedee posate ad ali aperte sopra l’aria.
II futuro sarà un inverno di isole, durerà qualche millennio di rianimazione del pianeta, per riprendersi dall’intrusione aliena della specie umana.”

Erri De Luca

[3]