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Nonn’Anna

segnalato da Sandro Russo
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Propongo come lettura della domenica questo bel racconto ripreso da Mag-O (il magazine di Omero, Scuola di Scrittura in Roma), per diversi buoni motivi.
Perché la scuola “Omero” è stata la madre che ha nutrito tanti di noi, Tea, Lorenza, Emanuela, me stesso…; perché è un racconto di atmosfera marinara e dialettale (sembra calabrese, con tante attinenze con il nostro dialetto, a pronunciarlo a voce alta); perché parla di una nonna che tutti quanti abbiamo avuto o avremmo voluto avere… saggia, fata e un po’ fattucchiera; perché è scritto molto bene, vero e commovente… Grazie ad Anna Maria Buffo.

I racconti di Omero del 15 maggio 2019
Nonn’Anna
di Anna Maria Buffo  

– Osci nun è cosa. Durmiti n’autru paru d’ure.
– Ma’! ma so’ due giorni ca nu’ facimu nienti!
– E la tramontana dura tre giurni. Ieri nascìu, osci pasce e crai more.
Come facesse nonna Anna con i suoi 103 anni suonati e i suoi occhi oramai spenti a sapere come era il mare e che vento tirava ogni santo giorno è un mistero che non sono mai riuscito del tutto a svelare. Forse perché era vissuta lì da sempre. Forse perché quell’aria salmastra l’aveva respirata tanto più a lungo di tutti gli altri pescatori del piccolo borgo in cui era nata, praticamente un secolo prima. Certo è che ogni mattina, sempre prima che sorgesse il sole, era lei a dare la sveglia a figli e nipoti che dovevano armare il peschereccio per la giornata. E puntualmente anticipava per filo e per segno come sarebbe stata.
– Osci porta bonu, è mare de palamite – diceva quando era bonaccia, e con l’onda piatta si poteva navigare più a largo. Sebbene la sua finestra affacciasse sul mare dall’alto del promontorio, lei comunque non lo poteva più guardare. La vecchiaia le aveva portato via la vista e il gusto che aveva di scendere da sola ogni giorno fino giù al porto per vedere le barche uscire all’alba e poi rientrare al tramonto.

Fino alla soglia dei cento anni lo aveva fatto mattina e pomeriggio, accompagnandosi solo con un bastone, un ramo nodoso che suo figlio gli aveva recuperato dalla pineta e adattato all’uso. Lunga gonna nera, camicia nera abbottonata fino all’ultimo bottone sotto al collo, sia che fosse Natale o Ferragosto, fazzoletto annodato in testa, la vedevi inerpicarsi con la sua figura ormai curva sulla salita ripida del borgo che la portava fino a casa.
Tutti la conoscevano e la salutavano, e lei aveva un cenno per ciascuno, ma da nessuno accettava passaggi in macchina. – Nossignore -, diceva risoluta – vau sula.

Nessuno riusciva a contrastare la sua cocciutaggine: a 90 anni suonati non c’era verso di dissuaderla dal curare lei da sola il suo bellissimo orto. Dopo la discesa mattutina al porto e la dura risalita si beveva il suo uovo fresco preso dal pollaio, e piegata in due passava al setaccio piantina per piantina, toglieva le erbacce nuove, rassodava la terra, la concimava con le bucce della frutta della sera prima, lasciandone sempre un po’ per la sua tartaruga.
– Nu sapimu ci è chiù vecchia fra mie e tie – le diceva, cambiandole l’acqua della ciotola. Poi, raccolti i pomodorini nuovi e il peperoncino li metteva a bagno per la frisa che avrebbe mangiato a mezzogiorno con due dita misurate di vino rosso.
– Mamma vieni a casa ho fatto un po’ di pasta – diceva spesso mia zia che abitava di fronte. Ma niente da fare. – Nossignore stau a casa mia – era la risposta fissa.
Nel pomeriggio cambiava i fiori davanti alle foto dei parenti morti: i suoi genitori, suo marito, sua sorella e un figlio. Lo aveva perso un giorno da bambino mentre faceva il bagno giù nella spiaggetta; era morto annegato.
– Lu mare te dane, e lu mare te llèva – era solita dire. Da allora non aveva tolto più il colore nero. Sistemata l’acqua fresca nel vaso da fiori e il lumino sempre acceso si sedeva con gomitoli di lana e l’uncinetto a intrecciare trame colorate di coperte per l’inverno. Oppure riparava le reti per la pesca. Questo lo faceva anche senza più vedere. Non ne aveva bisogno: passava le maglie una a una sotto le dita nodose, e dove trovava una smagliatura o uno spazio appena più largo infilava la spoletta con una velocità sorprendente e riparava il danno. Poteva passare ore e ore così nel silenzio, fino a che uno dei suoi figli s’affacciava e le liberava le gambe che restavano sommerse sotto nailon e galleggianti rossi.
Bonu ma’ – era il grazie d’ordinanza.

Quando mio padre usciva a mare e stava fuori per giorni con gli zii trascorrevo intere giornate con lei in attesa che mia madre tornasse da lavoro, quando ne aveva uno. E allora l’accompagnavo giù al porto il pomeriggio per il rientro delle barche più piccole.
– L’aria è sicca, u’ sule pizzaca, osci vidimu le montagne dell’Albania – diceva quando ancora dovevamo uscire da casa.
All’epoca non le avevo mai viste, anche perché era una cosa che poteva accadere una sola volta all’anno, e sentirglielo dire mi sembrò una delle sue tante stranezze.
– Nonna, ma l’Albania sta lontana dopo il mare, non si può vedere da qua. Papà ha detto che qualche volta l’ha vista quando vanno tanto a largo con la barca. 

– E la vide puru osci. E la vidi puru tie.
– Ma che dici nonna non è vero, mi prendi in giro – dicevo sgambettando affianco a lei sulla discesa, prestando attenzione alla sicurezza con cui, poggiata al suo bastone, metteva un passo dopo l’altro, camminando per mano a me senza vedere.
Arrivati giù sul lungo mare lanciai un urlo per lo stupore: le montagne erano proprio lì di fronte, lontane ma nitide, aguzze e bianche. La nonna non pote’ trattenere la sua risata: – Beddrhu dellu core, hai visto?
– Ma come facevi a saperlo nonna, hai fatto una magia? Tu cammini con gli occhi chiusi, io se li chiudo cado e non vedo niente. Dimmi, come fai?
– Va bene la nonna ti dice. Vieni qua, varda ’u mare. È piatto, vero? Non ci sono onde – diceva con sicurezza con gli occhi chiusi.
– È vero, è calmo!
– Bene. Ora chiudi gli occhi e dimmi: da dove viene il vento?
– Da dietro alle orecchie nonna, dietro alla testa e alle spalle.

– Bravo. Questo si chiama maestrale: è vento di terra e sul mare è traditore. È calmo ma la corrente è forte e porta a largo.
Si staccò uno dei galleggianti rossi delle reti da pesca che portava sempre appeso alla sua gonna e lo lanciò in acqua.
– Guarda -,
disse – vedi come va lontano veloce? Il mare resta calmo fuori perché sta alla mantagnata, è protetto dalle montagne, ma sotto la corrente è forte. Ricordati: acqua cheta ti tradisce. Moi bagnati ’a manu e spetta picca picca.
– Che aspetto nonna?
– Cu se ssuca.

Pendevo dalle sue labbra, mi svelava un’altra magia.
– Dinne alla nonna: tieni pruvula ianca susu e dicite?
– Siii, su tutta la mano!

– Ora leccala e dimmi comu sape.
– Salatissima nonna!
– Vedi beddhru dellu core, quando alla pelle sicca lu sale lu ientu è certu de maestrale –
diceva, scompigliandomi piano i capelli.
– Ancora nonna, dimmi un altro segreto! – andavo urlando tirandole la gonna entusiasta.
– E va bene, ma è l’ultimu pe’ osci eh?
– Va bene va bene nonna.
– L’acqua è tanto pulita ca è trasparente, vero?
– Sì è bellissima
– dicevo io – Vedo tutte le pietre sotto.
– Ecco, varda picca picca sutta alla banchina. Ci suntu l’alghe scoperte, è vero?

– Siii, è vero Nonna!
– E varda bonu… Ci suntu le caure, ca ’nchiananu susu e stanno a pelo d’acqua per brucare… Le vidi?
– Siii, sono tanti granchietti nonna, piccoli piccoli.
– Ecco l’altro segreto: quannu è bassa marea l’alga sicca e la caura zicca. 

– Nonna dimmi la verità, come fai a essere cieca e vedere tutto così bene? 

– Ah core da nonna sua! Alla gioventù servenu l’occhi, alla vecchiaia basta lu core – diceva col suo sorriso dolce e sdentato.
– Mo sta rrivanu le barche – diceva quando ancora erano puntini lontani e di cui aveva già sentito l’impercettibile rumore. Così, per mano, aspettavamo al molo che rientrassero i pescatori, e con gli occhi pieni ogni volta di nuova meraviglia, mi stupivo di quanti pesci riuscissero a portare.
– Donna Anna ce cumanni stasira? Nu bellu filetto de sgombru t’è graditu? – diceva Nandu ’u ’niuru.
– Comu dici ssignuria – sorrideva lei – lu fazzu alla pignata cu le patate.
Con quattro movimenti rapidi e precisi Nandu ripuliva il pesce dalle interiora, lo spellava e lo faceva a filetti. E ogni volta non lesinava di aggiungere qualche sardina pe lu vagnone, diceva riferito a me.
Dire cos’era quel pesce freschissimo cotto nell’anfora di terracotta vicino alla brace dellu focalire, come lei chiamava il caminetto, mi risulta impossibile. Una armonia di profumi che ha molto in comune con la poesia, senza poter trovare parole che rendano merito al gusto.

Poi giocavo con le sue conchiglie. Tra tutte ce n’era una in particolare che attirava la mia attenzione poggiata sul comò di fianco al letto, sistemata sul suo centrino; era una conchiglia grossa, bellissima, bianca fuori e con tutte le sfumature del rosa madreperlato dentro. Quella era la magia delle magie: non c’era bisogno di poggiare l’orecchio per sentire il rumore del mare. – U rusciu dellu mare -, come diceva lei. Allora credevo fosse per quello che la nonna sapesse sempre che vento c’era fuori. Sazio e felice poi mi addormentavo, prima che mamma venisse a prendermi di peso per portarmi a letto.

[2]

Una notte, dopo aver portato per quarant’anni, nonostante la sua cecità, il caffè a letto ai suoi figli ogni giorno prima dell’alba, mia madre si svegliò di soprassalto. Fuori c’era un vento forte, di burrasca, e credette che la nonna fosse entrata come al solito per la sveglia. La chiamò, ma lei non rispose. Si alzò, andò in cucina, ma lei non c’era.
Guardò l’orologio e nonostante fossero passati tre quarti alle quattro di lei non c’era traccia. Abituata com’era a muoversi al buio la nonna non faceva mai rumore quando entrava: abitava di fronte, a pochi metri da noi, doveva solo attraversare una stradina, piccola come un corridoio e aprire la porta con la sua chiave.
Qualcosa non andava se non era venuta.
Di corsa mia madre si mise addosso un cappotto e uscì per raggiungerla.
Sentendo la forza del vento, di colpo realizzò che mio padre era ancora fuori col peschereccio e che il mare sarebbe stato grosso.
Entrò affannata in casa della nonna e la trovò stesa sul letto con la grande conchiglia in mano. Dalla bocca della conchiglia usciva come uno spruzzo d’acqua leggero, e lei con gli occhi chiusi la tastava respirando veloce e agitata.
– Mamma, ci hai? …nu’ stai bona?
– chiese mia madre.
– È fiaccu ’u mare, è fiaccu. È sciroccatu. Sbatte a ’nterra, ’nchiana susu ’u faru. C’è onda rossa…
– Calmati ma’, calmati. Renato è bravo, sape governare a barca, me faci mpaurare cusì…
– Iddhru, idddhru sta time moi, ca nu lu pote stu mare, ca li nfunna u legnu, ca li spacca u timone. È sciroccu, è africanu, ’ntravuglia a funnu…

– Renato Renato –, gridava dentro la conchiglia.
Io entrai e vederla così mi raggelò il sangue.
Aveva l’affanno e dondolava, avanti e indietro, a destra e sinistra, dondolava come se avesse il mal di mare. Come se fosse una banderuola al vento, come se le raffiche di fuori ce le avesse dentro.
Guardai mia madre, aveva gli occhi sgranati.
– Chiamo un dottore – disse a voce alta.
– Lassame stare, sciativene nun me move mancu Gesù Cristo -, gridava.
Madonna, madonna mia, tie ca si’ mamma, nu me spaccare ’stu core, nun li spaccare ’stu legnu, tenilu a galla, tenilu forte, l’aggiu datu già ’nu criaturu allu mare, m’ha consumatu marituma, mo’ basta, mo Renato me l’hai lassare…
Parlava, parlava senza fermarsi, come una litania, stringendo la conchiglia, tastandola tutta e il vento di fuori le entrava dentro e usciva lì da quella conchiglia.
– Cu cchiove, Madonna, cu cchiove, cu se bascia u ientu. Renato c’è onda, statte largo allu scogliu, Renato nu’ poti scire traversu, Renato barra daritta, ’u sciroccu lu sai ca trase allu portu… darittu se no sbatti la prua.
In preda al delirio dettava ordini come se sulla barca ci fosse anche lei, come se la vedesse in balia delle onde e avesse contezza delle manovre da fare.
– Mo’ chiove Renato, mo’ chiove. Se bascia lu ientu ma l’onda nu’ scinne, stai ziccatu alla barra.
Io e mia madre abbracciati in lacrime non sapevamo cosa fare. C’era una forza in quella stanza, in lei così minuta, qualcosa di potente che ci inchiodava lì, appesi al suo viso, al suo dondolìo, alle sue parole.
Poco dopo una pioggia violenta sbatté contro le finestre e il vento si placò improvvisamente. Il suo respiro rallentò.
– È bonu – diceva. – È bonu cu cchiove…

Guardai fuori e albeggiava.
Quando mi voltai, la conchiglia le era caduta di mano e non respirava più.
Lei ce lo stava riportando a casa.
Di lì a poco mio padre attraccò.

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Immagine in alto nella pagina: Banderuola di Agrin Amedi
Immagine di copertina e qui sopra: da www.flickr.com [4]