Ambiente e Natura

Il mondo di Fra’ Diavolo (7). Il tragico epilogo. Conclusioni

di Pasquale Scarpati

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Si conclude con la presente la lunga, esaustiva ed originale cavalcata sulla vita di Fra’ Diavolo. Tutte gli articoli possono essere recuperati digitando – Fra’ Diavolo – nel riquadro CERCA NEL SITO, in Frontespizio.

Continuazione dalla puntata precedente (leggi qui)

Correva l’anno 1806
Napoleone aveva deciso di invadere il regno di Napoli perché gli serviva quale base di appoggio per le rotte del Mediterraneo dal momento che Gibilterra e Malta erano praticamente in mano agli inglesi.
Questa volta i Transalpini si misero d’impegno…”
“Correva l’anno 1806 quando tre corpi di spedizione, forti di 45000 uomini si avviarono verso il Napoletano: il generale Andrea Massena per San Germano (Cassino) e Napoli; i generali Reynier e Saint Cyr per Terracina, Itri e Sora. I generali anglo-russi, invece di difendere il Regno, riunitosi a Teano stabilirono la ritirata bruciando i ponti sul Garigliano.
Passando per Gaeta sollecitarono il governatore della Piazza, Luigi Philippsthal principe d’Assia, a cedere. Ma questi non volle.
Così Gaeta subì, a pochi anni di distanza, un ennesimo assedio che durò dal febbraio a luglio del 1806. In tutto questo tempo, però, la popolazione non si mosse. Forse perché Napoleone sembrava invincibile, forse perché l’esercito francese si presentava meglio armato e con delle direttive ben precise o forse perché la popolazione aveva visto che nulla era cambiato in quei pochi anni in cui la corte era divenuta sostanzialmente reazionaria, oppure perché le “stravaganti e sovversive idee repubblicane- giacobine” si erano mitigate a tal punto da ritornare quasi “all’antico” così da attecchire tra alcuni ceti anche quelli meno abbienti E, poi come ho già detto, vi era la… garanzia: il ritorno di un re anche se… straniero, come sempre.

Fra’ Diavolo venne posto al comando dei “corpi volanti” ma ancora una volta, per ordine del re, non poteva agire di sua iniziativa. Nello stesso tempo, per rafforzare la guarnigione di Gaeta, vi si trasferirono 2000 condannati che avevano commutato la pena nel servizio militare. Essi erano chiamati “trugliati” e costituivano due “Corpi franchi”.
In questo assedio vi era malcontento da ambo le parti. Gli abitanti di Gaeta perché subivano ancora danni, gli assedianti perché potevano fronteggiare la Piazza solo sul fronte di terra poiché erano del tutto privi della marina. Essi lavoravano giorno e notte sotto il fuoco della Piazza. La guarnigione dall’altra parte si assottigliava anche per le malattie.
Unica risorsa per il principe d’Assia divenne ancora Fra’ Diavolo. Costui, il 27 di febbraio, si appostò sui monti tra Itri e Fondi, poi, per sfuggire alla caccia della colonna mobile del generale Valentin, si stabilì prima a Spigno, poi a Pontecorvo. Subì una dura sconfitta, dove perse non solo 11 uomini che furono catturati ed impiccati ma anche preziose carte ed i razzi di segnalazione. Rientrato a Gaeta, si vociferò che avesse contatti con i Francesi e per questo fu espulso dalla Piazzaforte. Intanto il suo collaboratore Giuseppe Abruzzese si consegnò ai francesi ed ebbe salva la vita. Fu deportato a Fenestrelle da cui fece ritorno nel 1814. Fra’ Diavolo, invece, andò a Palermo dove potette dimostrare la sua innocenza.

Gli inglesi intanto si impadronirono di Capri da dove potevano fare scorrerie lungo la costa. Con l’aiuto di Fra’ Diavolo presero la Torre di Capo Licosa nel Cilento. Nei primi di settembre dello stesso anno Fra’ Diavolo liberò i galeotti dal carcere di S. Stefano che scelsero come loro capo Donato Valsano.

Il 5 settembre sbarcò a Sperlonga e marciò verso Itri sperando in una sommossa popolare, ma nessuno si mosse. I Francesi si ritirarono a Castellone. Fra’ Diavolo fu sconfitto e dovette rifugiarsi a Sora dove sperava di doversi congiungere con Ermenegildo Piccioli di Navelli che il 26 di agosto, alla testa di 800 uomini, aveva dato il via ad un’insurrezione nell’Aquilano. Ciò non avvenne. In un primo momento riuscì a respingere l’attacco ma poi dovette fuggire per l’azione combinata dei generali Cavaignac, Forestiere ed Espagne. Sora fu abbandonata al saccheggio e alla strage.
Fra’ Diavolo divenne “uccel di bosco”. Lo si segnalava ovunque: nello Stato Pontificio, sulle montagne intorno ad Itri, nei pressi del fiume Liri.
Accà e allà, me pareva Sant’ Antonio: teneve ’u dono dell’ubiquità, i francise nun capevene chiù nient’! – Scoppiò a ridere – Alle sue costole fu messo un uomo energico: il capo di battaglione Leopold-Sigisbert Hugo, padre del famoso romanziere, comandante del 2^ reggimento napoletano di fanteria.
Ma Fra’ Diavolo jucava cu’ iss’ comme fa ’a jatta cu’ sorece – dimostrava di sapersi nascondere, sapeva essere maestro nei camuffamenti, nei trucchi e nei depistaggi.

Dopo la sconfitta di Sora aveva diviso i suoi seguaci in bande che si spacciavano ciascuna per gente del paese, mettendo fuori pista gli inseguitori. Parecchie volte, camuffandosi con coccarde ed uniformi, si faceva passare per distaccamento della guardia civica; aggiungendo anche la beffa. In tale qualità, infatti: requisiva, alloggiava, diramava ordini. Oppure dopo aver svaligiato un corriere postale, gli firmava, addirittura, la ricevuta. I più ancora, come riferiva lo stesso Hugo: il 15 ottobre, avendo catturato 10 soldati francesi, li faceva marciare in testa alla colonna e così “surprend les postes et les villages”. Ma grande era la sua capacità di mimetizzarsi e la conoscenza del terreno per cui, come confessava, non senza ammirazione, il generale Valentin: “dei distaccamenti gli erano passati vicino senza vederlo”.

Fra’ Diavolo portava allo sfinimento gli inseguitori tant’è che lo stesso Hugo il giorno 21 richiedeva forze fresche. Con queste continuò la caccia su su fino a Montevergine su un terreno reso scivoloso dalla pioggia. Fra’ Diavolo trovò rifugio presso l’ermo camaldolese dell’Incoronata. Irruppero i francesi ma Fra’ Diavolo si era nuovamente dileguato.
– Puf! …E nun ce steve chiù: sparito!
Allora i francesi, pe’ dispiétt’, incatenarono i monaci e li portarono a Napoli mentre l’eremo fu soppresso.
Il Pezza riuscì a portarsi nei dintorni di Salerno dove l’attendevano le navi dell’ammiraglio Sidney Smith. Ma il paese era ben sorvegliato da uomini attivi ed energici come il capo squadrone Martigue a Eboli ed il commissario di polizia Monglas , l’anima nera del ministro di polizia Saliceti, con al seguito uno stuolo ’i fellune (spie e traditori) – ’i chist’ se ne trovene semp’…
Saranno questi ultimi a catturarlo mentre l’Hugo usciva di scena.

La cattura e la morte
La sorveglianza delle coste era strettissima rendendo impossibile procurarsi un’imbarcazione, mentre il maltempo rendeva impossibile la navigazione sottocosta alla navi inglesi. Fallì un primo tentativo di trovare una barca a Torre Annunziata e, fallito anche un secondo tentativo, su consiglio di Vito Adelizzi, Fra’ Diavolo si diresse sulle coste di Eboli sperando che lì sarebbe stato più agevole imbarcarsi. Il 27 di ottobre i due giunsero in un vallone presso Montecorvino e, dopo un primo conflitto a fuoco con dei cacciatori (in cui Fra’ Diavolo rimase ferito al petto), furono catturati dai Mirra, mentre altri dei suoi uomini riuscirono a fuggire. Mentre Adelizzi veniva torturato ed ucciso, Fra’ Diavolo non fu riconosciuto e quindi risparmiato. Però un certo Gaetano Ruggiero detto “Lo giudeo” lo riconobbe ma non ne fece menzione. Accortosi di ciò Fra’ Diavolo cercò di negoziare la sua liberazione offrendo al Ruggiero una bottoniera di brillanti del valore di 10.000 ducati con l’aggiunta di promesse di ricompense future e gradi militari. Approfittando di un momento di distrazione, il prigioniero riuscì a scappare e vagò per il resto del giorno e della notte giungendo a Fratte. Poi si diresse a Sanseverino. Tormentato dalla stanchezza e dalla fame, dal freddo e dalla ferita, la mattina del 1° novembre entrò in una spezieria-farmacia di Baronissi, il cui titolare Matteo Barone, caporale della Guardia Civile, lo trattenne. Subito condotto a Salerno fu identificato e la notizia fu subito comunicata al ministro Saliceti da parte del tenente colonnello G. Belelli (che, per questo, chiese una” riconoscenza”) e da questi a Giuseppe Bonaparte.

Il 3 novembre Fra’ Diavolo entrò a Napoli in mezzo ad una folla curiosa ma silenziosa – nisciune ciatava, cocchedune chiagneve zitt’, zitt’…
Imponente dispiegamento di forze militari, vettura circondata da lancieri polacchi (chill’ a cui iss’ aveve dato fil’a torcere).
– Senza perde tiemp’, il 10 dello stesso mese comparve davanti al Tribunale Straordinario, dove fu difeso da uno dei maggiori avvocato del tempo, Francesco Lauria, di parte “patriota” e filo francese. Pare che lo stesso Giuseppe Bonaparte se lo fece condurre sotto il palazzo reale a Portici per osservare dalla finestra chi aveva saputo tenere in scacco per così lungo tempo le invincibili armate francesi.
Alla domanda dei giudici di declinare le proprie generalità l’imputato rispose: – Michele Pezza, alias Fra’ Diavolo, colonnello al servizio di re Ferdinando. Bastò questo per la sentenza capitale.

Si dice che il Bonaparte gli avesse offerto la grazia e persino un grado militare se si fosse messo al servizio del nuovo regime; ma pare che il Pezza avesse rifiutato. Ma ’a nutizia nun è vera.
Fra’ Diavolo poteva contare solo sul suo grado militare e per questo l’ammiraglio Sidney Smith chiese la sua liberazione offrendo in cambio 100 prigionieri. Anche re Ferdinando preannunciò in caso di esecuzione, rappresaglie sui prigionieri francesi, tra cui il capitano del genio Nemple, catturato durante l’assedio di Gaeta. Ma tutto fu inutile: troppa era la paura di tenere in libertà un così formidabile e astuto combattente!
L’11 novembre del 1806 Fra’ Diavolo salì sul patibolo eretto in piazza Mercato, teatro di tante scene tragiche della storia napoletana (dalla morte di Corradino di Svevia a quella di Masaniello).
I registri dei Banchi della Giustizia lo mostrano subire l’esecuzione“con segni di vero cristiano e con molta edificazione”. Impiccato e sospeso fino a sera, il suo corpo fu seppellito nella chiesa dell’Ospedale degli Incurabili. Ovviamente non vi fu alcuna funzione funebre.
A Palermo, invece, la corte borbonica partecipò nella chiesa di S. Giovanni Battista, detta “dei Napoletani”, ai funerali solenni del “degnissimo Colonnello don Michele Pezza, catturato a tradimento e fatto morire sulle forche, previo un tumultuoso processo fabricato in un tribunale di scellerati felloni”.

 

Conclusione: i briganti
Brigante o patriota? Dipende dai punti di vista.
Che abbia ucciso, rapinato e perpetrato ogni altro eccidio nei confronti dei nemici questo è previsto, purtroppo, dal “codice di guerra”.
Come definire quelli che hanno ucciso in nome del Bonaparte prima e di Murat poi? Se stranieri: invasori e quindi anch’essi briganti; se abitanti del Regno ma al servizio dei “furastieri”: briganti anche loro perché non si preoccupavano di affondare il coltello nelle carni di altri connazionali…
Fra’ Diavolo, dunque, è un uomo del suo tempo, vissuto nel suo tempo che fece la scelta dell’autorità costituita in opposizione a quelli che invece avevano scelto un’autorità anch’essa straniera ma che era penetrata nel Regno con il ferro e con il fuoco.
Se però andiamo a sfogliare il polveroso e sanguinante librone dei secoli si può notare che l’Italia meridionale era un po’ “avvezza” allo straniero ed al mutare, in poco tempo (rispetto ai lunghi tempi della storia), dei governanti, delle leggi e delle disposizioni. Mentre tutti gli altri Stati europei, infatti, erano retti da secoli da dinastie “autoctone” o erano direttamente sotto il dominio straniero, la parte Meridionale dello Stivale, unica zona europea, aveva visto nel corso dei secoli continui cambi di dinastie… comunque straniere.

Dopo gli Ostrogoti, infatti, questa bellissima parte della Penisola si era frantumata come quando si rompe un vetro infrangibile. Si contavano infatti numerosi potentati locali, alcuni domini bizantini, i saraceni in Sicilia, alcuni territori longobardi e i possedimenti della Chiesa, per non dire poi dei territori direttamente alle dipendenze di ricche abbazie. Non potevano non nascere e fiorire anche le repubbliche marinare come quelle di Gaeta e di Amalfi.
Ci vollero gli Altavilla, Normanni, a unificarla e a formare un unico Stato. Anche se nelle vene del grande Federico (II) correva sangue tedesco, egli aveva visto la luce a Iesi e si era formato in Italia alla corte e sotto la protezione di un altro grande: papa Innocenzo (III). Le diede lustro, potenza e soprattutto efficienza, precorrendo gli Stati nazionali (L’efficienza – diceva – è alla base di tutto). Ciò però spiacque al potente “vicino di casa”: il Papa. Timoroso, indusse ancora uno straniero, il francese Angioino, ad occupare quel territorio. Costoro fecero regredire lo Stato. Così, mentre altrove i sovrani prendevano a modello il regno di Federico (che a sua volta l’aveva desunto, per qualche verso, dagli avi materni), in quello Stato ritornava lo schema feudale con le divisioni tra potentati, le lotte intestine e l’esautoramento del potere centrale.
Agli Angioini, a distanza di un secolo e mezzo e in un turbinio ciclonico, subentrarono gli Aragonesi ( spagnoli) e poi, per ben due secoli, direttamente gli spagnoli con il loro viceré”. – Disse amaramente – Si chesta part’ è considerata ’u giardin’ d’Europa è pure iust’ ca ce venene tutti a passia’!
Aggiunse – Chill’ cummattevene tra loro pe’ se piglia’ ’sti terr’ ma veneven’ a fottere cca!
– Con tutti i danni e le conseguenze della guerra per le popolazioni civili! – aggiunsi.
– L’avevene ’mparàta bon’ ’a lezzione : ’a guerra, s’adda fa’, ma chiù luntane possibbile!
Nello stesso tempo dentro di me non potetti non sorridere pensando anche a colui che volle sostenere la “purezza” della razza.

Come in natura gli insetti aggrediscono la piantina più debole fino a farla morire, così quando uno Stato si fa inerme e debole facilmente viene sottoposto alla volontà altrui. Pertanto agli occhi dei contemporanei era, quindi, “normale” che, cacciati gli oramai deboli spagnoli, sul quel Trono andasse a sedersi un’altra dinastia, ancora una volta… straniera. Ma accettata, come sempre, questa situazione, fece scalpore che qualcuno, per la prima volta e soprattutto dal basso, osasse ribellarsi ad un ennesimo nuovo “straniero”!
Probabilmente stupì che questo Fra’ Diavolo, per la prima volta nella storia, “avesse osato” nientemeno far insorgere vaste porzioni di popolazioni rurali contro lo straniero e soprattutto avesse saputo tenere in scacco per molto tempo i “boriosi” francesi. Fu talmente temuto dalla “grande potenza” da non essere perdonato.
Ma qualcun altro, in seguito, prenderà esempio e saprà come comportarsi contro i “nuovi briganti” e non li perdonerà o per meglio dire non capirà… – E già, pe’ forza… chill’ nun poteva accapi’: nun’ capeva ’u napulitane!
Che intenderà? …dialetto o cos’altro? – pensai.
Lui: – Chesta però è ’n’ata storia! …O forse è ’a stessa?

Mi guardò tra l’ironico ed il dubbioso. Strinsi le labbra. Mille pensieri affollarono la mia mente: tumultuavano. Il sole spariva dietro i monti che vanno verso il mare. Ci alzammo e feci cenno che mi sarei avviato a monte, là dove l’antica strada interseca quella asfaltata. Lui fece cenno che si sarebbe diretto dall’altra parte, a valle.
Ci abbracciammo.
Solo allora mi accorsi che sul volto presentava alcune cicatrici di armi da taglio, seminascoste dalla folta barba ed al collo notai due segni profondi come di una grossa corda.

Fatti pochi passi mi voltai per chiedere il suo nome – ammaliato dal racconto me n’ero del tutto dimenticato – e per salutarlo di nuovo.
Era sparito. Sogno o realtà? Addosso a me, però, era rimasto il suo odore a cui già mi ero assuefatto e sulla mia maglietta leggera si era poggiata un po’ di polvere.

– Così sparisce la storia ed i suoi costumi – pensò con amarezza il solito…
Pasquale.

[Il mondo di Fra’ Diavolo (7) – Fine]

Postfazione
Lo scritto di Pasquale Scarpati è stato uno stimolo determinante per recarsi – Enzo Di Fazio e Sandro Russo- ad Itri, qualche settimana fa, a visitare l’interessante Museo del Brigantaggio, messo a punto da Vincenzo Padiglione.
La foto di copertina si riferisce ad una allegoria ivi presente – un corpo sfigurato ed esanime che richiede sepoltura – come fu appunto il destino di molti “briganti” di cui – nel Museo – si tratteggia la vita e la (quasi sempre tragica) morte.
Ne riferiremo quanto prima.

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