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Col cappotto… a San Silverio

di Silveria Aroma
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«Carneade! Chi era costui?», si chiede Don Abbondio seduto sul suo seggiolone. Così comincia l’ottavo capitolo de “I promessi sposi”.
– No, non andare via lettore. Resta! Non è di libri che voglio parlare, né di scuola.
E’ di una domanda che vorrei scrivere. Non è filosofica, né è alla ricerca di chiavi legate all’esistenza, alla fede, al futuro. E’ una domanda che non costruisce e non fonda, che non spiega e non lega. E’ come un filo di fantasia che cerca spazio nel reale.

Amo da sempre il racconto, quello della tradizione orale, quello che vive attraverso la voce delle persone comuni, semplici, emozionate (ed emozionanti) e che si trasmette imperfetto di generazione in generazione, alterato, personale, incantevole.

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Molti anni fa una signora di Santa Maria rapì la mia attenzione parlandomi di un San Silverio (20 giugno) in cui furono costretti a indossare il cappotto per andare in processione. All’epoca cercai di capire se era un modo di dire quello del cappotto per evidenziare la sensazione legata al freddo o se avessero dovuto usare realmente i panni invernali.
La signora insistette sulla realtà del freddo.
Andai a cercare riscontri e trovai l’anno senza estate.
– No, non li ho messi in correlazione. Aspetta! Ma… l’anno senza estate mi ha colpito.

Non è stato l’unico, ma quello del 1816 è ben ricordato e tanto se n’è scritto.
“Le incessanti nevicate del luglio 1816 durante un’estate umida e non congeniale costrinsero Mary Shelley, John William Polidori e i loro amici a restare al chiuso durante le loro vacanze svizzere. Essi decisero di gareggiare a chi avrebbe scritto la storia più spaventosa, e così Mary Shelley scrisse Frankenstein, or The Modern Prometheus e Polidori Il vampiro” (da Wikipedia).
Questo per effetto di un vulcano, il Tambora nell’isola di Sumbawa, attuale Indonesia (allora Indie olandesi), che si stima abbia complessivamente, proiettato in aria circa 150 miliardi di metri cubi di roccia, cenere e altri materiali.

Nel 1883 il Krakatoa (isola indonesiana di Rakata, posto nello stretto della Sonda fra le isole di Sumatra e Giava) provocò forse il più grande rumore mai udito sul pianeta prodotto da una devastante eruzione, anche allora le polveri ebbero effetto anche in questa parte di mondo e il cielo mostrò una luna blu per molto tempo.

– La mia domanda qual è?! –
chiedi.

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Molti (ma tanti tanti) ai quali ho chiesto se ricordassero la processione in cappotto hanno risposto affermativamente, ma nessuno ne ricordava l’anno.
Attraverso il dialogo sono emersi piccoli ricordi personali, particolari, giornate di forte, fortissimo, vento.
Folate che a Sant’Antonio riempiono i capelli di sabbia. Immagini di processioni via mare con le barche a remi (in quelle c’ero!), il freddo di certi anni e il bisogno uscire ben coperti per la serata. La pioggia veemente di qualche anno fa a fine processione… ma l’estate dei cappotti – cuntata da ’i viecchie antiche – ha ancora testimoni viventi o anche per loro è il ricordo di un racconto?!

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Maria ’i Filippe ricorda un freddo San Silverio datato 1962, un anno dopo il suo matrimonio, quando – per stare fuori – dovette farsi prestare una maglia dalla vicina di casa.
Un’altra voce di Santa Maria cita il 1948 come anno ricordato per la processione con il cappotto e mi racconta che la festa venne istituita nel 1772 dopo la visita dell’allora vescovo di Gaeta Carlo Pergamo.
In rete i dati meteo parlano di una caldissima estate del 47 e di una stagione estiva freddissima e piovosa l’anno successivo, 1948.
Michele, il mio vicino di casa, che blocco al volo mentre passa davanti alla mia porta, conferma che dopo la guerra andarono in processione vestiti come se fosse inverno.

E nell’anno senza estate cosa accadde sull’isola?!
Sì, lo so che forse potrei farmi domande più interessanti e più serie, ma… Tu leggi e – se puoi – dona un tuo frammento di memoria.

Intanto prepariamoci ad onorare San Giuseppe che arriva.

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Nota dell’Autrice
Un sentito ringraziamento a coloro che si sono lasciati importunare dalle mie domande