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La Memoria non dura un giorno. L’intervista di Sara (8)

di Dante Taddia

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Si conclude, giusto oggi 27 gennaio, “la Giornata della Memoria” il racconto di Dante Taddia dedicato all’Olocausto. Le indicazioni per leggere le puntate precedenti sono date alla fine di quest’ultima puntata

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Riconoscimento
La donna si avvicinò a Isaac. A Sara, sua madre sembrò meno vecchia, come se gli anni passati non avessero lasciato traccia.
Si guardarono negli occhi Sara e sua madre. Un cenno d’intesa fra le due donne.
La donna guardò Isaac e guardò ancora sua figlia: “Mi sono permessa di accettare il suo invito e di venire a conoscerla, professore. Sara ha tanto insistito che venissi qui”. Lentamente, con gesti misurati, sbottonò il polsino di quella camicia che teneva sempre serrata attorno ai polsi. Apparve quella piccola cicatrice e una protuberanza, quasi doppia, dominava la pelle su quella parte di avambraccio. La mostrò a Isaac. Si ritrovarono abbracciati.

Erano ormai due vecchi che il tempo aveva attaccato ma non fiaccato e che le vicende della vita avevano dominato, non domato. Furono subito quello che avevano sempre voluto essere, se le traversie della vita passata non lo avessero impedito: un padre che abbraccia la propria figlia.
Isaac lo faceva dopo tanto tempo, sicuramente troppo, e il gesto avveniva in modo impacciato, quasi goffo. Da adulti ci si abbraccia in modo diverso però. Un padre che ha visto crescere la propria figlia ha appreso l’abbraccio insieme a lei, crescendo con lei, col tempo. A Isaac tutto questo era mancato. Non sapeva come fare. Per lui era sempre la sua bambina che aveva lasciato solo qualche attimo prima in una fredda notte del 1941, in un luogo imprecisato di quella campagna tedesca che per quanto ostile, per le giovani vite di tre marmocchi non lo era poi stata completamente, se almeno una l’aveva lasciata sopravvivere. Erano passati… Erano passati… – Dio mio non è possibile – erano passati quasi sessant’anni.
– E questa mia bambina è una bambina di oltre… Non è bene dire l’età di una donna”.
– Però… è proprio così papà.
– Dio, è pur sempre la mia bambina, la mia… Ra… Ra…

Quante volte l’aveva ripetuto quel nome! Nei momenti più disperati aveva avuto il conforto al solo pronunciarlo, o almeno credeva di pronunciarlo e magari lo pensava solamente. Provò ancora… – Rà… Rà… chel..!

– “Sì, padre mio, Ràchel”. E lo pronunciò con quell’accento e quella erre un poco ingolata, iniziale, come nella loro lingua. E Isaac continuò ancora: – Ràchel, Ràchel, bambi… figlia mia! No, Ràchel bambina mia, bambina mia…

E finalmente quelle braccia  da troppo tempo vuote e non avvezze più ad abbracciare trovarono il modo più giusto e vero di stringerla a sé, forse da adulti, ma pur sempre da un padre per la sua bambina. E la guardò in volto, per scoprire chissà cosa nascosto in quelle rughe che niente avrebbe potuto mai  cancellare o nascondere.

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La storia di quegli anni passati, la vita di questa bambina, donna, vecchia. Mille interrogativi, troppi, tutti insieme. Forse uno più impellente dell’altro e che non fu necessario formulare. Solo uno sguardo prolungato e interrogativo nei suoi occhi.
– “Sì, padre, ce l’abbiamo fatta tutti e tre; Ruth è morta l’anno scorso. La ‘zia Ruth’ per Sara, se n’è andata con la certezza che avrei potuto ritrovarti. Era stata sempre convinta che fossi tu quell’Isaac che l’aveva calata dal treno quella notte. I suoi ricordi erano migliori dei miei, perché era più grande. È sempre stata una madre, una sorella più grande ed è vissuta con me, con noi, da sempre. No, Ruth non ha mai raccontato a Sara e a nessuno la nostra storia. Simon è in America. E’ rimasto laggiù e ci scriviamo spesso. Il resto..? Prima, solo una storia, ora ricordi da rievocare, confrontare, completare con i tuoi. Io non sono ancora nonna”.

Isaac sembrò quasi richiamato alla realtà da quelle parole della figlia. Già proprio alla realtà perché credeva ancora tutto un sogno.
Sara era rimasta in disparte, sopraffatta dagli eventi. Non sapeva cosa ascoltare, quali occhi vedere, quale sentimento far prorompere per primo, dato che tutti si affollavano contemporaneamente pronti ad esternarsi.

Lo aveva sperato. Aveva pensato a quell’incontro mettendo insieme le tessere di frammenti di mezze parole che sua madre aveva cominciato a rivelarle solo dopo che Sara aveva accennato a quella famosa intervista col grande professore.
E Sara a mettere insieme quelle piccole tessere di mosaico era stata molto brava. Esisteva una biografia di Isaac Blummenthal all’Università di Princetown e ci era andata.

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Il suo primitivo dubbio era diventato certezza, ma non ne aveva parlato alla madre fino a quando non era stata completamente certa o almeno abbastanza per non deluderla, né tanto meno quel vecchio verso il quale si sentiva così inspiegabilmente legata e del quale conosceva qualche segreto in più. Ed ora, in quella stanza, aveva appena sentito cose che sua madre non le aveva mai detto.

Era rimasta a bocca aperta, spalancata. La guardarono, suo nonno e sua madre, e fu all’unisono: – Chiudi la bocca merluzzo!
Si guardarono, e scoppiarono a ridere. Era stata questa piccola frase a fare scattare la molla a Sara, quando il professore  gliel’aveva detta la prima volta durante uno dei loro incontri.
Perché mai due persone, sua madre e il professore, due persone così lontane, apparentemente così lontane, dicevano la stessa frase e in quel modo, con quell’accento così particolare, quasi cantilenante? Una coincidenza? Strana… e per Sara inizia la ricerca. E il resto? Cosa successe? Dopo quella notte che avvenne? C’era la voglia di sapere ma allo stesso tempo quella di tacere. Sapere della mamma, come lui si era salvato, come mai Rachele veniva dall’Italia, perché in America?

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– Papà – che suono melodioso in quella parola per il vecchio Isaac – Papà -, disse Rachele -, queste sono cose lunghe da raccontare e da rivivere insieme, e forse  non a tutti interessano e non tutti vogliono saperle – guardandolo  negli occhi ammiccanti.

– Ma io sì – fece eco a quelle parole Sara – io, sì… per favore.
– Rachele, facciamolo allora per questa signorina saputella e invadente di… mia nipote. Quasi un tono di compiacenza sottolineò quelle due parole: “mia nipote”.
– E sono contento che è lei. Sono contento che è così perché è così che volevo una nipote. Saputella e intelligente, caparbia, volitiva, dolce, generosa e… beh, è già troppo quello che ho detto.
E abbracciò entrambe in un unico gesto. “La mia Rachele e la mia Sara”.
Mamma, ti prego, allora perché Michele è il tuo nome? Solo questo per ora, solo questo. Ti prego solo questo. Il resto un’altra volta.
– “A chi mi trovò, a chi ci trovò, i nostri nomi suonavano un poco strani per come venivano pronunciati e così Ruth, per meglio farsi capire lo scrisse il mio nome, Rachele, in gotico, come era abituata a scrivere a scuola e la Ra iniziale con il ghirigoro diventò una Mi per chi lo lesse. Era meno fronzuta ma sembrava giusta e divenni così Michele per tutti, e Ruth, ‘zia Ruth’, disse che era meglio così. Anche per una bambina. Ci sono rimasta attaccata a quel nome che era tutto per me. Il mio nome, meno una sola sillaba, era tutto quello che mi era rimasto del mio passato… e volevo tenerlo, il mio passato”.

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Epilogo
– E allora, Sara Lèvìni – le fece il suo capo – a che punto siamo con ’sta famosa intervista? È fatta? Quanto ci scriverai sopra? Ci andremo avanti un po’ di tempo con tutto quello che ti avrà raccontato il vecchio professore?
Venite, venite gente
– fece ironicamente, rivolto agli altri giornalisti – la signorina Sara, quale alacre ape è tornata col suo bottino d’intervista e come fata turchina con la sua bacchetta magica ci tirerà fuori magari anche una cassetta registrata! Ih, ih, ih e con una storia mielosa, magari.
– Ah, ah, ah,  buona questa, ape… miele… storia mielosa… – fecero eco i suoi lecchini.
– Ora basta scherzare – riprese bruscamente il direttore: – Avanti, raccontare cosa ti ha detto, se ti ha detto qualcosa, e mettersi al lavoro”.

Sara lo guardò, guardò il suo capo direttamente negli occhi, e guardò gli altri colleghi lecchini che attorniavano il capo, guardò tutti, intorno a lei, e quale attrice consumata, da giornalista che sa ammannire uno scoop e di questo vantarsene…
– Due parole mi ha detto il professore… solo due parole, e sono tutte e due registrate…
– Mi ha detto….
Rimasero tutti a bocca aperta ad aspettare. Senza sapere cosa dire o come dire qualcosa. Sara li guardò ancora tutti, guardò ancora il suo capo.
A proposito della porta, anzi del portone, capo. Il Pulitzer non so se vincerlo restando con questo giornale oppure… – Aggiunse, quasi scandendole: – Le due parole che mi ha detto sono state: – Nipote mia”. Sì, Isaac Blummenthal è mio nonno. Il padre di mia madre, per chi non sapesse fare i conti con le parentele. Lo abbiamo scoperto oggi.
Ma questa sarà un’altra intervista – concluse Sara – …e chiudete la bocca, merluzzi!

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[La Memoria non dura un giorno. L’intervista di Sara (8) – Fine]

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