Ambiente e Natura

Le isole di Circe tra spopolamento e futuro

di Enzo Di Giovanni

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Qualcuno dice che la filosofia, il pensiero, non riempiono la pancia. Io invece penso che sia esattamente il contrario: per non assistere inermi al degrado sociale, residenziale ed economico di una collettività. è necessario “volare alto”, in una visione che cerchi di rappresentare il senso del proprio mondo in rapporto col mondo circostante.
Non esistono più isole, soprattutto se si è isola davvero.
Senza visioni un luogo si atrofizza, non ha prospettive di crescita, diventa un luogo banale.
Se poi questo luogo è un’isola come Ponza, il delitto è ancora più efferato, perché l’isola è sì luogo fragile per definizione, alla mercé di fenomeni speculativi e spopolamento, ma al contempo di una bellezza tale da rendere il crimine ancora più incomprensibile.
Non possiamo sapere, oggi, quanto si riuscirà a realizzare del progetto “Il Mare di Circe – Narrazione e Mito”, al netto di speranze, polemiche, manifestazioni di interesse.
Ma una cosa sento di poterla dire: questa è l’occasione, come una cartina di tornasole, di misurare le ambizioni di una comunità alla ricerca di sé stessa. Che Ponza infatti abbia smarrito una linea non solo di sviluppo, ma di vera e propria identità, è cosa nota che ci svisceriamo quotidianamente sia su questo spazio di confronto che sui social che ormai hanno sostituito i bar come luogo d’incontro, seppur virtuale.
Perché una occasione?
Perché abbiamo la motivazione per metterci in gioco, attraverso un gioco che non abbiamo mai sperimentato: quello di ragionare per sistemi, per reti, in una prospettiva che va aldilà della quotidianità. Soprattutto, abbiamo l’opportunità, ragionando per sistemi, di imparare a guardare oltre, interrogandoci sul nostro futuro.


Vincenzo Ambrosino in una sua recente lettera aperta (leggi qui), si chiede, ci chiede, se il progetto “Il Mare di Circe – Narrazione e Mito” sia un’opportunità da cogliere al volo, oppure una scelta strutturata.
Direi entrambe le cose.
E’ un’opportunità da cogliere, ma non perché rappresenti una sorta di lotteria di Capodanno.
A ben guardare, infatti, la vera vittoria non sta nell’aver vinto un bando, ma nelle sfide che questa vittoria porta con se come corollario, a cominciare dal fatto che un progettista vincente abbia creduto di vedere nelle nostre isole un’opportunità di sviluppo identitario, e non solo un villaggio vacanze, mostrando così di riconoscere anche dall’esterno quello che noi, ma solo noi sappiamo già: cioè che l’arcipelago ponziano è un unicum raro e perciò prezioso di storia e cultura, tanto più prezioso in un mondo massificato come quello di oggi, in cui il qui e l’altrove si sovrappongono spesso senza soluzione di continuità.
Ma è anche una scelta strutturata laddove ci costringe, finalmente, a misurarci con la nostra capacità di uscire dal guscio, di rapportarci al mondo facendo della nostra bio-diversità, anche antropologica, un punto di forza.
Quale è infatti il senso che caratterizza e nobilita la legge a cui fa riferimento il progetto?
Partiamo da una considerazione: l’Italia è un paese in cui il territorio – in controtendenza col resto d’Europa e soprattutto del mondo in cui le macro-aree metropolitane la fanno da maggiore creando quei mostri chiamati megalopoli -, è formato da tanti piccoli paesi, ognuno col suo patrimonio storico di tradizioni. Non esiste un altro paese che abbia al suo interno una simile varietà di tipicità culturali, artistiche, artigianali, gastronomiche, linguistiche.
Questi territori sono a grave rischio di spopolamento: basti pensare che trent’anni fa avevamo 5868 comuni al di sotto dei 5000 abitanti, oggi ne abbiamo 5543.
In trent’anni 325 piccole Ponza sono state cancellate dalla storia.
Bisogna tener presente che “cinquemila” non è un numero a caso, è la soglia al di sotto della quale in un certo senso si muore d’inedia: la soglia in cui cioè si ritiene che la comunità non riesca più ad essere autosufficiente e a produrre quelle risorse economico-culturali che la rendono viva.
Eppure l’Italia rimane un paese connotato da una fortissima vocazione a vivere in piccole comunità: al momento i comuni al di sotto dei 5000 abitanti rappresentano oltre il 69% del totale.
Questi territori vanno stimolati, soprattutto quelli più marginali, periferici. Come Ponza.
E c’è un solo modo per stimolarne la vitalità: favorirne il più possibile, come accennavo prima, lo sviluppo identitario.
Questo progetto, e chiaramente l’impianto della normativa a supporto, ha senso se, e solo se, i territori partecipano mostrando se stessi, la propria essenza.
E’ una sorta di effetto domino: la memoria stimola la partecipazione identitaria, la partecipazione a sua volta valorizza l’evento a cui siamo invitati a partecipare.
Questa, tra le tante sfide a cui siamo chiamati, è la sfida più grossa.


Ponza nel passato è stata spesso terra di conquista: non solo economica, non solo abitativa – basti pensare al numero sempre crescente di abitazioni di non residenti chiuse per dieci mesi l’anno -, ma anche culturale. Quanti premi, quante manifestazioni si sono svolte senza alcuna partecipazione attiva dei ponzesi? E quanto sono durati questi eventi?
Niente, un battuto di ciglia. E non poteva essere altrimenti.

La sfida, il postulato che un progetto come Il mare di Circe comporta è che non deve durare solo un anno.
Quest’anno infatti avremo i riflettori della Regione addosso.
Dall’anno prossimo ci misureremo con la nostra capacità di aver creato eventi che restano nel territorio, perché nostri, non corpi estranei. E che servano a conservare, a recuperare il territorio stesso.
Per ottenere questo scopo abbiamo bisogno della partecipazione di tutti. Abbiamo bisogno di creare una rete di impresa che coinvolga non solo le associazioni culturali, ma anche le attività economiche, in un proficuo interscambio.
Chiudo questo contributo ricordando un proverbio africano, citato nella conferenza di ieri al Circeo dal professor Morandi: quando muore un vecchio, è una biblioteca che brucia.
Credo sia l’immagine migliore per sintetizzare l’importanza della memoria viva in una collettività che vuole sopravvivere al futuro.

 

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