Racconti

La Memoria non dura un giorno. L’intervista di Sara (1)

di Dante Taddia

 

In vista della Giornata della Memoria che si celebra il 27 gennaio, abbiamo pensato di proporre a puntate un racconto di Dante Taddia che ha attinenza romanzata con l’argomento; l’autore ci fa sapere che è ispirato a una storia vera.
Sarà suddiviso in più puntate di 3-4 pagine ciascuna, pubblicate a giorni alterni in modo da arrivare alla Giornata del 27.
La Redazione


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– Il vecchio ha ceduto. Contenta Sara? Ha fatto sapere che è d’accordo a rilasciare l’intervista. Quelle poche parole le risuonavano nella testa senza tregua. Non ci poteva credere. Finalmente quei rompiscatole del giornale si dovranno rimangiare tutto, compreso la carta.
Il grande vecchio aveva deciso di concedere l’intervista ed era stata lei, Sara Lèvini, ad ottenerla.
– Uno scoop, un grande… scoop. Sììì, uno scoopone! -, le avevano  detto i colleghi.
Ci si era arrabbiata un po’ all’inizio, per quella canzonatura, poi aveva subito aggiunto: – Scopone certo, ma sono io che ho fatto le carte e adesso ho anche denari, primiera e settebello! Tutta invidia la vostra. Solo invidia.
Ed era vero. Quella ragazza minuta, quasi esile, sembrava spezzarsi al solo parlarle e invece niente affatto: dura. Dura e tenace. Nessuno le aveva pronosticato un buon futuro quando si era presentata la prima volta in redazione. Troppo in regola. Troppo perfetta. Troppo tutto: scuola, università, laurea con lode, il diploma di specializzazione, Master MBA, esperienza d’oltreoceano come corrispondente, trilingue parlate e scritte, ecc.

Rientrata in Italia si era messa subito alla ricerca di un lavoro. Il suo curriculum sembrava costruito apposta per ogni lavoro cui si candidava, poteva suonare come falso e nessuno l’aveva presa sul serio. Tranne loro. Il direttore, un po’ perché faceva sempre il contrario di quello che gli altri dicevano e facevano, un po’ perché… boh, neanche lui sapeva bene il perché, ma le aveva dato un’opportunità.

– Non si preoccupi signorina Sara… dottoressa Lèvini. Farà esperienza da noi… ma lei capisce… dovrei pur vedere cosa è capace di fare sul… campo. Scusi la banalità, ma un soldato lo si vede in guerra. Stiamo cercando di avere un’intervista col vecchio professore Isaac Blummenthal, un nome altisonante nel mondo della scienza, ma lui niente, non ne vuole sapere. Ha paura. Delle interviste, di quello che possono chiedergli. Del passato. Ma noi, proprio di quello vogliamo sapere, avere notizie. Del suo passato di… deportato nei lager… degli anni ’40. E di questo non vuole parlare in nessuna maniera e per questo evita qualunque intervista, aveva aggiunto il direttore. Ha paura dei ricordi, di essere nuovamente coinvolto, emotivamente s’intende, e così rifugge tutti. Il quadro è quindi chiaro. Sono veramente esigente. Lo riconosco. E’ un banco di prova su cui hanno naufragato i sogni da Pulitzer Award di molti giornalisti. Ma io non dispero e ci faccio provare tutti. Chissà..? Mi porti quell’intervista e le aprirò… il portone del nostro giornale, non solo le porte. Promesso. E sarà mantenuto! Mi porti quell’intervista.

Questo era parlar chiaro. E un parlare chiaro esige un rispondere chiaro. Sara non era tipo da tirarsi indietro davanti alle difficoltà. Glielo avevano insegnato fin da piccola e non lo aveva certamente mai scordato.
– Affrontare i problemi è da veri uomini – questo le aveva spesso detto sua madre, senza stare a sottilizzare se per uomini s’intende solamente chi porta i calzoni oppure no. Lei voleva dimostrare di essere un elemento valido e ce l’aveva messa tutta per avere l’intervista.

L’aveva pedinato, controllato, spiato. Aveva imparato tutto del vecchio professore. Il lavoro che aveva svolto lo aveva impostato su rigide basi scientifiche. Per giocare una partita infatti occorre un pizzico di fortuna, solo la probabilità non basta, ma occorrono anche le carte, e fino a quel momento il vecchio aveva fatto la parte del leone perché le carte le aveva date sempre lui e come voleva, e poi alla fine non aveva neanche voluto giocare la partita! Sara sapeva tutto di lui e se voleva riuscire doveva un poco barare. Doveva ottenere per prima cosa la sua fiducia. Era la strategia di relazioni aziendali, dei buyers, che metteva in atto.
Il cliente, quindi il vecchio, doveva sentirsi  a suo agio, essere rilassato e convinto della bontà del prodotto e non vigile quando lei avrebbe… venduto, cioè colpito. Se li ripeteva questi schemi per agire con naturalezza. Aveva fatto la corte al professore, trascurando amici e divertimenti, e alla fine quei colleghi che tanto l’avevano presa in giro… si sarebbero dovuti ricredere. C’era riuscita. Ormai l’intervista era a portata di mano. C’era da raccoglierla e basta.

Come tutti i desideri che per tanto tempo restano tali, quando si stanno per realizzare non sembrano più così tanto importanti. Lo stesso era  per Sara. Forse ormai non le interessava più l’intervista vera e propria, perché tanto di quell’uomo sapeva tutto. O per lo meno ne era convinta. Ripensava a quanto aveva fatto fino a quel momento.

Per riuscire a conoscerlo meglio aveva studiato nei dettagli la biografia del professor Isaac da quando era un bambino: gli studi, le prime ricerche, le prime scoperte, la guerra.
Era diventato ‘juden Isaac’ e pertanto era stato deportato, era sopravvissuto lasciando però in qualcuno di quei tristi luoghi moglie, figlia, una sorella, un cugino, amici.
Si erano accaniti contro di lui, perché non aveva voluto rinnegare né sé stesso né la sua religione in nome della scienza e a favore del Terzo Reich.
I tedeschi non volevano fargli del male. Era troppo importante, troppo bravo, e ne avevano bisogno.
 Ma era juden, ebreo, non si poteva lasciar passare la cosa senza coinvolgimenti in quegli anni. Avevano tentato di tutto, ma inutilmente. Isaac non aveva ceduto. E neanche loro.

Dei suoi colleghi, chi gli era più vicino fu eliminato tra i primi, tanto per convincerlo ad ‘abiurare’. Questo, seppure con un grande dolore nel cuore, lo convinse ancor più nelle sue idee e a mantenere i suoi principi.
Fu ritrovato ad Auschwitz, sotto un mucchio di cadaveri. Cadavere ancora vivente, e liberato. Quell’esperienza lo segnò per sempre. Come quel numero ancora chiaramente leggibile tatuato sul suo braccio. Ma ancora più indelebile era il segno rimasto dentro, anche dopo tanti anni.

Il primo incontro, per agganciarlo, e che Sara aveva preparato fin nei minimi dettagli, avvenne ‘per caso’, secondo una perfetta regia e una pianificazione quasi scientifica.
Si era messa in posizione strategica davanti allo sportello dell’Ufficio Postale e faceva la fila, aspettando il suo turno, nella più grande calma e disinvoltura. Lei aveva un pacchetto da spedire. Il vecchio professore era due posti dietro di lei. Aveva una grande busta in mano.

La Memoria non dura un giorno. L’intervista di Sara (1) – Continua

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