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Mastre

di Tea Ranno

 

Un nuovo racconto di Tea per Ponzaracconta

[1]

Mastre

Il compito mio era quello di infilare aghi alla Mastra che, svelta, più svelta, doveva portare a compimento una veste.
Le stavo accanto, seguivo le sue dita che toccavano la stoffa e la trattavano da generale a soldato col piglio autorevole di chi dà ordini e basta: punti piccoli, regolari come quelli della macchina da cucire, la ciocca di capelli che cadeva a sfiorarle la guancia, l’occhio assorto e la bocca che mormorava cose che non ho mai capito. Svuotava l’ago del filo e me lo porgeva perché di nuovo lo infilassi, e intanto ne prendeva un altro con la gugliata già pronta e tornava alla veste, svelta, assorta, la ciocca come oro a carezza del viso, l’espressione di chi è qui e nello stesso tempo altrove, in un chissà dove che ha per chiave il sogno, se è vero che i sogni sono follia provvisoria che ti adesca e ti fa volare anche quando rimani con gli occhi aperti, fissi su un tessuto blu, quasi triste, quasi lontano, quasi mistico che domani forse qualcuno sfiorerà con dita di desiderio e si sentirà felice.

Non mi guardava e però mi voleva vicina. Solo io a un palmo da lei mentre le altre imbastivano, rifinivano orli, parlavano di zitaggi e di comete, di ustioni, di una crema che toglie le rughe, di un’altra che sbianca i denti, del soldo antico trovato per strada: un soldo che vale una fortuna, picciotte, mi ci farei una casa bella con l’orto e il pozzo e la fontanella e il gelsomino a pergola da ciaurare di notte, quando fa caldo e si smania e non si riesce a dormire.
Parlavano.
Io zitta accanto alla Mastra mia che per me non aveva parole, solo quel volermi lì, seduta a guardarle la mano che cuciva, l’ago che comandava la strada, la stoffa che si faceva serva mentre io, ancella della regina, porgevo alla regina aghi che gli occhi miei buonissimi avevano infilato di refe blu per trapungere la quasi tristezza di quella seta che un poco luceva e un poco s’intorbidava a seconda di come le mani di lei la trattavano.
“Domani torni?” alla fine mi domandava.
Calavo la testa. Mi piaceva stare lì, in mezzo a tutte quelle femmine che imparavano la sartoria da cui avrebbero tratto sussistenza per sé e per la famiglia. Io non dovevo diventare sarta, e però lo stesso andavo da lei. Mi sedevo sullo sgabello basso che aveva preparato per me e prendevo il cuscinetto incoronato d’aghi che gli occhi miei bambini infilavano a prima botta.
“Signora…” una volta dissi.
Si girò lentamente: “Che c’è?”.

Avrei voluto dirle che mi sentivo felice quando infilavo per lei gli aghi, perché mi pareva di contribuire all’atto di creazione dell’abito che una donna avrebbe poi indossato contenta, perché sono sempre contente le donne quando escono in piazza con un vestito nuovo. Invece restai in silenzio.
“Allora?” sollecitò.
Non risposi. Mi parve che tutta la poesia che c’era nelle parole che avrei voluto dirle fosse scomparsa e al suo posto ci fossero capelli strappati e sabbia e voci di vento senza verità.
Lei staccò il filo coi denti: “Domani ne cominciamo un altro” disse guardando il vestito blu ormai finito come si guarda un figlio pronto ad andarsene per il mondo. Gli fece persino una carezza, poi: “Prendi quel velluto rosso” disse, e sfogliò il quaderno con le misure della cliente che voleva un abito da conquista, così c’era scritto accanto ai centimetri della circonferenza seno, vita, fianchi, lunghezza spalla-polso, lunghezza gamba fino al ginocchio.

[2]

M’insegnò il mestiere. L’insegnò a me che mai avrei tenuto aghi in mano nella vita. Mi insegnò la pazienza e il rigore, l’apparente distacco, il sogno coltivato nella definitività di una rifinitura, occhielli che avrebbero accolto bottoni, orli perfettamente pareggiati, maniche come emanazione armoniosa del busto: niente grinze, niente punti a caso, la forbice toglie il sovrappiù, sii disciplinata, fantasiosa quanto basta per trasformare in arte la tecnica.
Mi fu Mastra solo mostrandomi come ubbidire alla materia prima di prenderne confidenza e diventarne così intima da poterla poi governare.

[3]

E ora, che pure io sono mastra, e infilo nell’ago gugliate di parole che vado poi cucendo nella flanella morbida della carta, ripenso a lei che mi teneva al fianco per infilarle gli aghi affinché nulla interrompesse il tu per tu con la creatura che pigliava forma per mezzo delle sue mani e si conformava al destino per cui era stata commissionata.
Mastra pure io, dunque. E, come la mia, silenziosa e attenta, disciplinata, però, solo quando il fiume di scrittura magmatica si raffredda, e allora sì che viene il piccolo punto, il mozzico di forbice, la lima, la pialla, l’adduzione e l’accrescimento, lo sporco…
Lo sporco! Ecco il privilegio di cui godo.
Lei non avrebbe mai potuto. Persino se ti pungi e insanguini la stoffa retrocedi al grado di apprendista. Se lordi l’abito hai fallito: la veste non aderisce al suo destino e ti si fa boia.

Io mi pungo scrivendo, mi taglio, mi graffio, mi sporco di miele le dita, lascio cadere briciole sul foglio, di pane e di biscotti, sugo di fragole quand’è tempo, scuro di caldarroste ora ch’è autunno. La carta non si rivolta, non mi accusa. Le vesti che cucio io sono camicia per l’anima e la carta lo sa che, senza lordure, la vita di cui cunto non è vita. E mi lascia fare.

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Foto di scena e locandina del film Il filo nascosto (The phantom thread, 2017) di Paul Thomas Anderson,
con Daniel Day-Lewis, Vicky Krieps, Lesley Manville