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Una canzone per la domenica (17). Almost Blue

proposto da Sandro Russo

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“Il suono del disco che cade sul piatto è un sospiro veloce, che sa appena un po’ di polvere. Quello del braccio che si stacca dalla forcella è un singhiozzo trattenuto, come uno schioccare di lingua, ma non umido, secco. Una lingua di plastica. La puntina, strisciando nel solco, sibila pianissimo e scricchiola, una o due volte. Poi arriva il piano e sembrano le gocce di un rubinetto chiuso male e il contrabbasso, come il ronzio di un moscone contro il vetro chiuso di una finestra, e dopo la voce velata di Chet Baker, che inizia a cantare Almost Blue.
A starci attenti, molto attenti, si può sentire anche quando prende fiato e stacca le labbra sulla prima a di almost, cosi chiusa e modulata da sembrare una lunga o. Al-most-blue… con due pause in mezzo, due respiri sospesi da cui si capisce, si sente che sta tenendo gli occhi chiusi.
Per questo mi piace Almost Blue. Perché è una canzone che si canta a occhi chiusi.”

Il libro di Lucarelli (Einaudi – Stile libero; 1997) ha un doppio incipit, ovvero una specie di prologo sanguinolento (pag. 3) seguito da un’epigrafe con due versi tratti dalla canzone Almost blue e quindi (a pag. 7) l’incipit vero e proprio riportato sopra

Trama
Tra musica, delitti e una Bologna quanto mai vitale, un giovane uomo cieco ascolta attraverso il suo scanner-radio le voci della città. E, chiuso nella sua stanza, si trova al centro di una vicenda sanguinosa ed incredibile, mentre dall’altro lato della città una poliziotta indaga sul caso di una serie di delitti commessi da un killer con seri problemi mentali, chiamato l’Iguana.

Nel 2000 dal libro è stato tratto un film omonimo, diretto da Alex Infascelli

In inglese in termine blue ha diversi significati e sfumature.
Per indicare il colore, “blue” è generico: bisogna fare la distinzione tra “dark blue” per il blu e “light blue” per l’azzurro;
Ma blue ha anche un altro significato, su cui circolano etimologie fantasiose: pare che già nel XIV secolo la parola blue fosse associata a tristezza o melanconia, si suppone per via del colorito bluastro delle persone con il sangue poco ossigenato per problemi cardiaci oppure sofferenti per il freddo.
Feeling blue” si usa per indicare uno stato d’animo depresso, triste o giù di corda, spesso senza conoscerne precisamente il motivo. Sempre nella lingua inglese a partire dal XVII secolo, “blue” si riferiva allo stato allucinatorio che segue alle crisi di astinenza da alcool. All’epoca “blue” era un sinonimo gergale di “ubriaco” e per questo motivo le leggi che vietavano la vendita di alcolici la domenica erano indicate come “Blue laws”.
Così come è nota l’espressione “to have the blue devils” (letteralmente: avere i diavoli blu) col significato di “essere triste, agitato, depresso”.

Una connotazione ancora diversa – sempre il rapporto con il termine blue – ha il blues, la musica le cui origini sono da ricercare tra i canti delle comunità di schiavi afro-americani nelle piantagioni di cotone degli stati meridionali degli Stati Uniti d’America (la cosiddetta Cotton belt), sia durante il lavoro nei campi che in occasione di riunioni devozionali.
Sebbene ragtime, jazz e spiritual non abbiano la stessa origine, né la stessa storia, del blues, questi tre stili musicali afro-americani si sono fortemente influenzati tra loro.

Continua così l’incipit di Carlo Lucarelli, bell’esempio di scrittura che esplora il mondo di un non vedente:

“Io, con gli occhi chiusi, ci sto sempre, anche se non canto. Sono cieco, dalla nascita. Non ho mai visto una luce, un colore o un movimento.
Ascolto.
Scandaglio il silenzio che mi circonda, come uno scanner, uno di quegli apparecchi elettronici che spazzano l’etere a caccia di suoni e di voci e si sintonizzano automaticamente sulle frequenze occupate. So usarli benissimo, gli scanner, quello che ho dentro la testa da venticinque anni, fin da quando sono nato e quello che tengo in camera mia, accanto al giradischi. Se avessi degli amici, se ne avessi, di sicuro mi chiamerebbero Scanner. Mi piacerebbe.
Io di amici non ne ho. Per colpa mia. Perché non li capisco. Parlano di cose che non mi riguardano. Dicono lucido, opaco, luminoso, invisibile. Come in quella favola che mi raccontavano da bambino per farmi dormire, in cui c’era una principessa cosi bella e con una pelle cosi fine che sembrava trasparente. Ci ho messo tanto, tante notti sveglio a pensare, prima di capire che trasparente voleva dire che ci si poteva guardare dentro.
Per me significava che le dita ci passavano attraverso.
Anche i colori per me hanno un altro significato. Hanno una voce, i colori, un suono, come tutte le cose. Un rumore che li distingue e che posso riconoscere. E capire.
L’azzurro, per esempio, con quella zeta in mezzo è il colore dello zucchero, delle zebre e delle zanzare. I vasi, i viali e le volpi sono viola e giallo è il colore acuto di uno strillo. E il nero, io non riesco a immaginarlo ma so che è il colore del nulla, del niente, del vuoto.
Però non è solo una questione di assonanza. Ci sono colori che per me significano qualcosa per l’idea che contengono. Per il rumore dell’idea che contengono. Il verde, per esempio, con quella erre raschiante, che gratta in mezzo e prude e scortica la pelle, è il colore di una cosa che brucia, come il sole. Tutti i colori che iniziano con la b, invece, sono belli. Come il bianco o il biondo. O il blu, che è bellissimo.
Ecco, ad esempio, per me una bella ragazza, per essere davvero bella, dovrebbe avere la pelle bianca e i capelli biondi.
Ma se fosse veramente bella, allora avrebbe i capelli blu.
Ci sono anche colori che hanno una forma. Una cosa rotonda e grossa è sicuramente rossa. Ma le forme non mi interessano. Non le conosco. Per conoscerle bisogna toccarle e a me toccare non piace, non mi piace toccare la gente. E poi con le dita sento solo le cose che ho attorno, mentre con le orecchie, con quello che ho dentro la testa, posso arrivare lontano. Preferisco i rumori.
Per questo uso lo scanner.
Tutte le sere, salgo in camera mia e metto sul piatto un disco di Chet Baker. Sempre lo stesso, perché mi piace il suono della sua tromba, tutte quelle p, piccole e profonde, che mi girano attorno e mi piace la sua voce che canta piano, come se venisse da dietro la gola e facesse fatica a uscire e per farlo si dovesse soffiare con tanto impegno da dover chiudere gli occhi.
Soprattutto quel pezzo, Almost Blue, che io punto per primo, anche se è l’ultimo. Cosi tutte le sere e tutte le notti aspetto che Almost Blue mi scivoli lentamente in fondo alle orecchie, che la tromba, il contrabbasso, il pianoforte e la voce diventino la stessa cosa e riempiano il vuoto che ho dentro la testa.
Allora, accendo lo scanner e ascolto le voci della città. (…)”.

Qui da YouTube la magistrale esecuzione di Chet Baker, tromba e voce:

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YouTube player

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Almost Blue
(di Elvis Costello, 1982; incluso nell’album Imperial bedroom)

Almost doing things we used to do
There’s a girl here and she’s almost you
Almost all the things that your eyes once promised
I see in hers too
Now your eyes are red from crying

Almost blue
Flirting with this disaster became me
It named me as the fool who only aimed to be

Almost blue
It’s almost touching, it will almost do
There is part of me that’s always true
Always
Not all good things come to an end, now it is only a chosen few
I’ve seen such an unhappy couple

Almost me
Almost you
Almost blue

 

Quasi triste

Quasi le cose che solitamente facevamo insieme
La ragazza che ora è qui, è quasi te
Quasi
Tutto ciò che mi avevi promesso coi tuoi occhi
Ora lo vedo nei suoi
Mentre i tuoi occhi sono segnati dal pianto

Quasi triste
Flirtando con questo disastro che sono diventato io
Mi ha chiamato, come il folle che voleva essere

Quasi triste
Sta quasi toccando, quasi lo farà
C’é una parte di me che è sempre vera.. sempre

Non tutte le cose belle devono finire ora, è solo per pochi eletti
io ho visto una coppia cosi infelice

Quasi me
Quasi te
Quasi triste

Born to Be Blue è un film drammatico del 2015 sulla vita di Chet Baker (1929-1988) scritto, diretto, e prodotto da Robert Budreau, con Ethan Hawke

 

 

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