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Con Lorenza a Edimburgo, a casa Stevenson (1)

di Lorenza Del Tosto
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Tra le grandi passioni letterarie di Lorenza – conosciute e spartite con gli amici – sicuramente ci sono Juan Rulfo, Truman Capote e appunto Robert Louis Stevenson.
Quando può, nella sua vita di giramondo, li rincorre per approfondirne le opere, per cercare i film che ne sono stati tratti e per intrufolarsi nelle loro vite, fuori dal mito.
Così è stato per Stevenson. Trovandosi a Edimburgo per certe cose sue private, non ha perso l’occasione. Eccone il resoconto che ne ha fatto per gli amici in Italia, per www.omero.it [2] e adesso – cogliendo la palla al balzo del rinnovato interesse per lo scrittore scozzese,
leggi qui [3] e qui [4] – per noi di Ponzaracconta:
S. R.

 

La casa di Stevenson (del 18 dicembre 2006)
di Lorenza Del Tosto

E’ quasi mezzanotte quando atterriamo ad Edimburgo: uno scintillio di luci sull’estuario del fiume Forth nel Mare del Nord. Aspettiamo l’autobus che ci porterà in città, tra uomini eleganti con lunghi cappotti da sera, donne con calze leggerissime e tacchi vertiginosi nel vento gelido.
La navetta arriva e riparte di gran carriera come una vettura di lusso per i signori della notte. Il cocchiere fende le tenebre ad una velocità indiavolata, le poche valigie rotolano su e giù e i raffinati passeggeri, intenti a guardare fuori nel buio, le scansano sorridendo con gesti assorti e svagati, mentre al telefono prendono accordi per la serata.

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Entriamo in città, puntiamo dritti verso il cielo, verso il profilo del castello nero immenso che si staglia sullo sperone di roccia vulcanica in un susseguirsi di guglie e torri neogotiche. Imbocchiamo Princes Street, la via principale, e restiamo a bocca aperta. Gli immensi giardini che la costeggiano e salgono digradando verso il castello sono punteggiati di luci colorate che sfavillano nel buio. Una ruota immensa e mille girandole e marchingegni luminosi sfiorano il cielo gelido e stellato e quasi sembra di sentirle le grida di uomini e donne elegantissimi trascinati in turbinosi vortici.

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E il mausoleo di Walter Scott che sorge imponente nel mezzo, il più grande monumento mai dedicato ad uno scrittore, sembra un piccolo triangolo di pietra incastonato nella ruota luminosa. Sui prati gli alberi risplendono con decorazioni d’oro, ma le più belle, le più infinitamente belle, sono certe lucine lontane, come cristalli di ghiaccio che risplendono ai piedi del castello tra le piante aggrappate al vulcano. Tracciano figure sospese nel vuoto, spiriti sembrano avventuratisi fuori del castello, pieni di nostalgia per il Natale di un tempo.
I fedeli di Maria Stuarda, il falegname diacono Dottor Jekyll, streghe e donne dal cuore infranto dei castelli del nord, i cavalieri di Walter Scott in compagnia di Sherlock Holmes e altri e altri ancora e forse tra loro c’è anche John Knox, il calvinista, tornato a tormentare le coscienze e a pungolare la mano degli scrittori nel tentativo eterno, ed eternamente frustrato, di tracciare il ritratto più fedele del male. Stevenson diceva che era stata la sua governante amatissima, rigida calvinista, ad infondergli la passione per le storie, oltre agli infiniti sensi di colpa.

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L’autobus sfreccia lungo Princes Street, strada immensa che inganna: talvolta si srotola infinita e sembra che sfoci nel cielo, altre volte, spazzata dal vento e la pioggia, si riavvolge sotto i piedi. Oggi sembra finire nel cielo di stelle Princes Street perché, mi accorgo troppo tardi, l’autobus non ha girato verso la stazione come al solito. Una ragazza biondissima mi dice che stasera va dritto fino al mare. Il grande Mare del Nord che palpita liquido laggiù oltre mille curve e spirali di luce, ma io non ci voglio andare. Il cocchiere apre la porta quasi in corsa e con un sorriso mi invita a lanciarmi giù io e la mia valigia (a che servono le valigie – sembra dire la sua occhiata critica – quando qui c’è tutto: mare montagne fantasmi, elfi, cieli purissimi e burrasche?).

A terra c’è un’aria frizzante e nel buio pieno di luci è difficile distinguere gli spiriti dai comuni mortali tra le figure che passeggiano e conversano garbatamente tra loro completamente ubriache. Se tutto, come predicava John Knox, è già predestinato devono aver pensato gli spiriti del castello che male può esserci stanotte a scendere per le strade, nelle vie affollate, tra i pub e i locali, a raccontare la nostra storia o a cercarne altre varianti?
Come esseri umani qualunque, che sui marciapiedi ghiacciati cercano di districare il loro percorso, di lasciare invisibili segni del loro predestinato passaggio. Piccoli gruppi di mezza età, con un’aria colta, intellettuale, si fermano agli angoli delle strade, dove più forte soffia il vento, e indulgono in lunghissimi saluti, pieni di iperboli e galanterie, facezie e gesti di cortesia che il vento e l’alcol rendono tremolanti e incerti.
E passeggiano le comitive di ragazzi come in tutte le città del mondo di venerdì sera, ma qui a tratti, a turno sembrerebbe, qualcuno si stacca dal gruppo e con una smorfia gentile ed ebbra sulle labbra guarda il castello e racconta storie al vento, al cielo, a chiunque voglia ascoltarlo. E’ una donna o uno spirito quella che ora mi viene incontro lungo il marciapiedi? Il suo uomo elegante le ha dato le spalle in cima alla salita e lei cammina nella notte il viso contratto dal dolore, forse leggermente stordita, ma impettita sui tacchi. Di certo uno spirito non è la persona che mi aspettava alla stazione e che ora mi abbraccia tra la folla.
Non è poi così lontana casa: risalendo due parallele a sud di Princes Street la strada riprende a digradare verso il mare ed inizia la New Town neoclassica e georgiana (dai nomi dei re inglese, tutti Giorgio, che regnavano nel 1700 quando è stata costruita) . Le strade qui sono meno affollate.

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Brillano luci alle finestre qua e là, nelle palazzine eleganti con una breve rampa di scalini di accesso e la fatidica ringhiera nera. Radi lampioni rischiarano la nebbia leggerissima che sembra aggrumarsi intorno. Anche la luna ora è più grande e più bianca in cielo.
Ed ecco imbocchiamo una strada deserta, in fondo c’è una figura nella nebbia seduta sugli scalini di ingresso di una palazzina. Sembra fissare il lampione davanti a sé e l’intrico di verde dei giardini di Queen Street, che di notte sono una massa d’ombra. E noi tratteniamo il fiato: – Possibile? – ci chiediamo – possibile che sia proprio la casa di Heriot Street davanti alla quale siamo passati tante volte inutilmente in cerca di una finestra aperta, di un segno, di cosa poi?

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Superiamo la figura seduta e di sottecchi lanciamo un’occhiata al numero civico che sovrasta la porta lasciata socchiusa. “17” leggiamo. Per pudore non guardiamo altro. I nostri passi continuano, ma all’angolo della strada non resistiamo e torniamo indietro. L’uomo ci sorride invogliante e noi emozionati, impacciati chiediamo se è qui che davvero ha abitato Stevenson.
–  risponde lui con un sospiro.

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E ora noi abbiamo tutto il tempo di osservarlo. Se ne sta seduto su un piccolo tratto asciutto degli scalini umidi, la luce che filtra dalla porta socchiusa gli illumina il viso, i capelli e la barba rossicci, gli occhi chiari e il viso pallidissimo. Indossa una giubba verde di panno abbottonata fino al collo con grandi bottoni ornamentali. Una lunga mano finissima e trasparente è stretta delicatamente attorno ad un bicchiere largo da whisky quasi vuoto posato accanto a lui, accanto ad un pacchetto di sigarette. Ci fissa con i suoi occhi chiarissimi e per un istante abbiamo l’impressione di un personaggio di Tolstoj o Dostoevskij che si sia spinto ad ovest portato dal vento.
– Pare che Stevenson, abbia tratto grande ispirazione da questa casa… – dice lentamente in inglese con accento straniero. “…e ora anche io mi lascio ispirare” – continua sorridendo – quando mia moglie mi manda fuori a fumare.
Ci offre una sigaretta e noi subito l’accettiamo. Una provvidenziale piccola pausa.


[La casa di Stevenson (1) – Continua]