Ambiente e Natura

Quattro pagine in Rassegna Stampa

di Sandro Russo

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Cerco di trovare un senso all’impegno di ogni mattina (un vero lavoro, a questo punto, spartito con Enzo Di Fazio) di estrarre notizie di interesse (per Ponza e per la nostra discussa “umanità”) tra un mare di meschinità, gossip e “vere bufale” che ingorgano i giornali on line e cartacei.

Vi invito questa mattina a scorrere solo i titoli, nel sommario del giorno 25/8 (leggi qui e cerca il .pdf relativo):

  • Latina.1. Immigrazione clandestina. Scacco allo snodo pontino (pag. 10);
  • Latina.2. L’oppio contro la fatica ( pag. 11);
  • Latina.3. Ubriaco e drogato uccide un ciclista. Arrestato (pag. 14)
  • Latina.4. Una comunità in lutto (pag. 15);

Se vorrete fare la fatica di scorrere quelle pagine anche voi, quando avrete un po’ di tempo, forse ne resterete colpiti e concorderete con me – o forse no – nel trovarci come un filo che le lega.

L’agro pontino è una continua scoperta, anche per me che ne vivo ai margini (a Lanuvio, che è a due passi da Aprilia).
Il cosiddetto “caporalato” è una piaga che non si riesce a bonificare, con una mano d’opera prevalente costituita da braccianti indiani.
Se si studiano i flussi di immigrazione ci si rende conto che per motivi a volte imperscrutabili, in diverse zone del Lazio, si sono insediati gruppi etnici diversi; per fare esempi grossolani, da me ci sono in prevalenza rumeni, a Roma-nord, polacchi della prima ondata, altrove gli albanesi. Nelle campagne dell’agro pontino, probabilmente per richiami a catena, ci sono molti indiani; se ne incontrano spesso in bicicletta, a volte sikh col turbante, in piccoli gruppi o in bicicletta (sono rimasti quasi solo loro ad usarla).

Gli indiani sono un popolo gentile, posso dirlo per averli conosciuti e frequentati. Bisogna sempre rifuggire dalle generalizzazioni – vengono prima le singole persone e poi le etnie – ciononostante alcune caratteristiche saltano all’occhio. Forse per motivi religiosi [prevalente induismo nella grande India, buddhismo nel sud, in Kerala, in continuità con le popolazioni dello Sri-Lanka, di simile matrice etnica e culturale] hanno una “naturale” empatia per le persone, per le piante e gli animali. Lo sanno bene quelli che ci hanno lavorato insieme.

L’immigrazione clandestina è un problema che si spera (o si dispera) di riuscire a risolvere; ci sono le leggi dello Stato al riguardo, e non ci dovrebbe essere bisogno di sceriffi con la barba e con la voce grossa, ma tant’è. Eppure stringe il cuore vedere le foto di quelle povere dimore prese d’assalto da gendarmi in tenuta anti-sommossa, tra un fuggi-fuggi generale.

Per spingere la mente un po’ più in là, per propiziare il contatto col “divino”, a volte anche solo per reggere alla fatica, ecco arrivare – sempre e ovunque, nella storia dell’umanità – le cosiddette “droghe”.

All’inizio era una “droga utile” a contrastare la fatica e le marce prolungate sugli altipiani della Colombia, del Messico, del Perù ecc., anche la cocaina, prima che l’industria dalla droga se ne appropriasse come sostanza d’abuso, la polvere degli eccessi.

Così sono un blando supporto della fatica e del dolore, anche le povere capsule secche di papavero – sono nel mirino per le tracce di oppioidi che contengono, ma credo che la percentuale in esse sia bassissima e l’uso non sia perseguibile.

Il giornale fa menzione di un’altra sostanza “eccitante, ma non perseguibile dalla legge”. Mi informerò meglio, ma conoscendo un po’ le loro usanze, dovrebbe trattarsi del Betel (in singalese bulath), le foglie di betel (piper betel) da masticare in un involto che contiene anche tabacco essiccato, noci di areca frammentate (areca nut) e calce, per svolgere il principio attivo. E’ un blando eccitante, assimilabile alle nostre sigarette, non proibito, anzi venduto per strada in tutti i mercati.

E veniamo alla terza e quarta notizia.
Non facciamo moralismo d’accatto ma restiamo ai fatti riportati dal giornale. Un giovane di 27 anni, all’apparenza “ubriaco e drogato” mette sotto un bracciante agricolo in bicicletta e lo uccide. Verrà accompagnato in Ospedale per accertamenti e quindi arrestato per omicidio stradale.

Intanto la notizia si sparge e c’è un mesto corteo dei compagni di lavoro di Singh Davinder (la vittima, 32 anni, una moglie e un figlio in India), com’è tipico di quei popoli con forte spirito di comunità; ma di tutti i lavoratori di una volta, affratellati da un destino comune (basta leggere della solidarietà tra i nostri pescatori quando una disgrazia del mare colpiva uno di loro).

***

Questi sono i fatti. Un figlio nostro, del nostro modello di civiltà, investe  e uccide un “immigrato”, proveniente da un paese lontano, da un’altra realtà. Venuto qui per lavorare, non certo per fare “la pacchia”.
Ne dovrebbe emergere una pietà umana per quelle vite spezzate e travolte, un carico di dolore difficile da immaginare per le famiglie (quella italiana e quella indiana).

Fermiamoci un attimo a pensarci sopra, quando leggiamo – sempre di corsa e come di cose che riguardano gli altri – queste notizie.

 

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