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Trapassi

di Tea Ranno
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Pareva strano quel silenzio, ancora più strane le poche persone affacciate ai parapetti: strane perché poche, strano il silenzio perché, in genere, sul traghetto c’è chiacchiericcio, confusione, l’ebbrezza festosa dei vacanzieri, bambini che si chiamano gridando, adulti con l’immancabile arancino in mano, chi fuma, chi beve e chi fotografa… ecco, soprattutto chi fotografa.
Quel giorno quasi nessuno. E quasi deserto lo Stretto. E assenti le voci. Solo la scia spumosa alle nostre spalle, solo la prua puntata verso la Sicilia. E un cielo compattamente grigio, un senso come di sospensione, l’atmosfera di quando sta per succedere qualcosa e non sai che cosa e ti guardi intorno e inquieta aspetti.
Ma niente accadeva. Mare piatto, aria ferma, cellulare all’improvviso morto, come se la batteria si fosse di colpo scaricata.

Me ne stavo ritta a prua nel tentativo d’individuare il vizio che inficiava quel trapasso: nuovo incanto di Sirene? Un maremoto in agguato? Uno simile a quello del 1908 che distrusse Messina e circondario? L’Orca in risalita dagli abissi per ribaltare la nave e fare di noi il suo pasto?

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Continuavo a imbastire congetture quando la nave fremette e poi si scosse, come per un lungo brivido di febbre. Da poppa venne una spinta, come se una gigantesca mano avesse agguantato la nave per incanalarla dentro un budello trasparente, una sorta di cannocchiale rovesciato visto che adesso la Sicilia appariva lontanissima.
– Non mi basterà tutta la vita per raggiungerla –, pensai.
– Non è detto” -, disse uno alle mie spalle.

Mi girai di scatto. Alto, occhi azzurri, capelli bianchi, magro e come scolpito in un legno nobile. Guardava avanti, alla lontanissima terra: – Raramente succede – disse – ma quando capita è un miracolo, signora”.
Alla parola miracolo rise, si corresse: – Diciamo che è una specie di corto circuito: un grumo di tempo che condensa in sé altri tempi.
 Non capisco.
– È un fatto rarissimo”.
– Che il tempo diventi un solo tempo?.
Annuì.
– Che il tempo condensi in sé passato e futuro? – incalzai.
Di nuovo calò la testa.
Mi guardai intorno, la solita poca gente ai parapetti, nulla di inusuale. Era ubriaco, forse? Un poco matto?
Rise: – Nulla di tutto questo -. Si fece più vicino: – Talvolta capita di finire in una ruga, una spaccatura dell’ordine consueto, e passato e futuro si palesano insieme e…

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Non ebbe il tempo di finire: con un fruscio di vesti voluminose, una delle donne poggiate al parapetto in quell’istante si voltò. Femmina antica era, di quelle che praticarono il contrabbando del sale facendo la spola sui ferribò da Scilla a Cariddi, le cofane del contrabbando sotto le ampie gonne, il corpo a disposizione degli uomini che talvolta, di notte, al buio, se le prendevano per saziare le loro fami.
Ma… – tentai. E basta, perché all’improvviso non ebbi più voce.
Allora si voltarono un uomo e una donna quasi bambina scavati dalla fame. Lui continuò a sbucciare l’arancia sugosa che aveva in mano, gliela porse con disperazione. Lei rifiutò. Con disperazione lui insistette: – Mangia –. Lei chiuse gli occhi e di nuovo fece di no col capo.
Un tipo coi baffi diede una gomitata a uno senza baffi. Anche loro si erano voltati. Biechi mi sembrarono, pericolosi, tipi che ti sorridono nel mentre ti ficcano un coltello in mezzo alle scapole.

Guardai l’uomo azzurro d’occhi, avrei voluto domandargli il senso di quanto stavamo vivendo, il senso di quanto stava capitando, ma mi fu impossibile.
Un ragazzo mi toccò il braccio. Il vederlo mi sconvolse: mi somigliava quasi mi fosse figlio, ma io non ho figli maschi, eppure in lui scorreva sangue mio, ne ebbi la certezza. Di quale delle mie figlie sarebbe stato figlio o nipote?

Mi guardò come se volesse riversare in me, dal futuro in cui si trovava, la cognizione di quello che sarebbe accaduto: il momento in cui avrei inciampato nella morte? L’attimo in cui vita avrebbe reciso il filo dei giorni miei? Quello in cui, invece, avrebbe acconsentito a moltiplicare giorni da vivere e storie da scrivere?
Continuò a sorridere, gli occhi furbi, l’espressione manigolda.
Tu nespula si’ –, pensai, ricordando l’esclamazione di un vecchio amico per una delle mie bimbe. Nespola, birbante, picciridda che una ne fa e cento ne pensa.
Avrei voluto acchiapparlo, stringerlo al petto, mangiarlo di baci, scompigliargli i capelli, legarmelo addosso con uno spago e portarlo con me, nella vita mia, nel tempo mio, tra i libri miei e le stanze mie, i miei angoli di paradiso… ma niente, non riuscivo a parlare, a muovermi.
Lui, però, in un sussurro: – Potresti… mai… morire… – mi sembrò che dicesse.
Mi sembrò, appunto, perché la sua voce mi giunse distorta, come quando perdi la frequenza di una radio.
– Mai morire? – Macché! Tutti moriamo. Tutti ci perderemo, tutti saremo quello che adesso non sappiamo, quello che forse ci auguriamo di essere sgranando i giorni di nostra vita.
Poi, da una porta che prima non c’era, cominciò a sgorgare un fiotto di gente. Uomini e donne che, mettendo piede a prua, si scrollavano di dosso come una cenere, riprendevano colore e spiccavano il volo verso la lontanissima Sicilia: sciame di farfalle che parve agguantare la nave per la prua e trascinarla fuori dal cannocchiale rovesciato.

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Fu allora che il Gran Lombardo – così nella mente lo chiamai – mi prese il viso tra le mani, avvicinò la sua bocca alla mia e cominciò a parlarmi. E il mito e il favoloso e il fiabesco e il surreale e il fantasioso e l’impossibile passarono da lui a me, e miei diventarono.

Il suo fiato profumava d’alghe e di salmastro, la sua bocca era un poco screpolata dal vento, il suo viso striato di rughe come segni di un alfabeto indecifrabile. Ma la scrittura era lui che mi solleticava la bocca col fiato, lui che stava pronunciando parole che mi entravano dentro come segni di un alfabeto comprensibilissimo.

Mi disse i nomi di quelli che avevano scritto sull’acqua i loro nomi, mi disse delle femmine e degli uomini, del loro coraggio, delle loro avventure per terre scognite e mari immensi. Disse di croci e di spaventi, di spietatezze, di una superbia che ostenta sapienze d’accatto, di crudeltà fini a se stesse, di disumanità. Ma pure di animi che ogni giorno seminano grani di bene nei giardini di tutti all’insaputa dei padroni. E i semi spesso germogliano, e i padroni si sorprendono di azioni che solo in parte riconoscono come proprie.

Parlò e ancora parlò. Ed ebbi fame di lui. Ma arrivammo a Messina. Troppo presto arrivammo.
Capii che stava per lasciarmi.
Allora mi sollevai sulla punta dei piedi e la mia bocca toccò la sua: – Mordimi – dissi. Solo così avrei saputo come vero quel nostro incontro.
Mi morse. A sangue.

Ebbi sulla lingua sapore di sangue, di alghe e di salmastro. Ebbi in me il senso di lui, la sua mancanza che si sarebbe fatta costante presenza, voce che rinarra tempi, favole, avventure e miti.
Poi si aprì il portellone del traghetto, la macchina guadagnò la terraferma.

Poi ci fu la strada.
Poi ci fu il traffico d’agosto, il sole di tutti, il tempo di tutti.

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Le immagini che corredano l’articolo – a cura della Redazione – sono state liberamente selezionate dal web, dall’opera di Simone Caliò: “interprete di Capo Peloro” e dallo spettacolo teatrale “Horcynus Orca. Transito e ricongiungimento” di Claudio Coll0và (al Teatro Biondo Stabile di Palermo del giugno 2016).

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