Ambiente e Natura

Norcia, in attesa di ricostruire

di Vittoria Tedeschi

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Vittoria è un’amica di vecchia data con molti interessi, tra cui la scrittura.
Norcia è la sua città di origine e periodicamente ci torna, benché sia da anni felicemente trapiantata a Roma, dove vive e lavora. Era a Norcia anche nei giorni del terremoto, nell’agosto 2016.
Ci invia ora delle impressioni in diretta da quel luogo disastrato, a distanza di due anni dall’evento. L’idea è quella di raccontare la vita del post terremoto senza rabbia e reazioni di pancia ma vedendo luci e ombre, atti di coraggio e comunque la vita che riparte.

Segnaliamo che anche Paolo Rumiz, giornalista di Repubblica – spesso ospitato sul sito: vedi – Rumiz – nel riquadro “Cerca nel Sito” – , ha fatto di Norcia il suo punto di partenza e di arrivo di un viaggio compiuto tra i monasteri benedettini di mezza Europa per una serie in 12 puntate pubblicata su quel giornale. Parla anche dei valori condivisi delle società occidentali e dell’idea di Europa, di cui S. Benedetto è protettore.
S. Russo

Immagine da la Repubblica (illustrazione di Carlo Stanga)

 

Settantuno, dicono, sono i luoghi sacri crollati in questa terra di monaci ed eremiti che, venuti un tempo in cerca di silenzio e solitudine, hanno lasciato cime e pendii punteggiati di eremi e chiese. Quelle di Norcia, tra cui la Basilica di san Benedetto, ora messa in sicurezza, è solo la più famosa, sono sostenute da tubi Innocenti e giunti cardanici che, nel cielo terso e luminoso, scintillano come opere di un’arte nuova. Gabbie di tubi che svettano, brillando, nel sole, e anelano, sembra, a ricongiungersi con il cielo. Grazie a loro sono scomparsi i fotografi delle rovine: venivano i primi tempi, appena riaperta la zona rossa, con macchine fotografiche enormi ed obiettivi di mille grandezze a immortalare i resti; la gente di qui li guardava ferita e impotente, erano pur sempre gli unici turisti rimasti, gli unici a portare un poco di soldi.
Chissà cosa ne è ora di quelle foto e quanti saranno tornati a guardarle?


– Tu come racconteresti Norcia? – chiedo ad un amico, venuto a trovarci da lontano, mentre camminiamo per le strade e ammiriamo la bellezza dei tubi Innocenti.
– Dal punto di vista pratico o dal punto di vista romantico? – chiede lui.
Mi stringo nelle spalle, non avevo pensato a fare una differenza.
Il nostro amico si guarda attorno: è come se alla gente avessero tagliato una mano, dice, luoghi che hanno resistito per secoli, simboli di un desiderio di infinito, sono venuti giù in un istante: ti fa pensare alla precarietà delle cose e alla finitezza dell’uomo.

Non sono cose belle da pensare e allora andiamo in cerca di qualcosa che parli ancora di ricerca dello spirito e di resistenza dell’uomo e nelle strade troviamo: case disabitate, portoni incatenati, vicoli chiusi, sbarrati dove cresce l’erba, qua e là, però, si intravedono anche segni di vita, panni stesi ad asciugare, qualche sedia sugli usci, gente che forse vive altrove e al tramonto, ora che è estate, torna a sedersi qui, una casa ricostruita in un bel colore rosa con una veranda e il rincospermum, qualche spazio vuoto lasciato da case crollate e macerie portate via.

Fuori porta le macerie, invece, sono un po’ ovunque, vengono rimosse solo se ostruiscono le strade e ormai fanno parte del paesaggio e da corredo alla vita.
Rimuoverle di tasca propria costa molto e allora si preferisce aspettare i fondi per la ricostruzione, a volte hanno forme così fantasiose che paiono belle e, come i tubi Innocenti, sembrano indicarti qualcosa, dico all’amico che è venuto a trovarci. O forse è l’effetto dell’estate e della natura che risplende rigogliosa se, sullo sfondo del cielo azzurro, paiono belle anche le grandi insegne, accanto ai cantieri, che parlano degli “eventi sismici del 24 agosto 2016 e successivi” e dei costi della messa in sicurezza. Per ora si parla solo di messa in sicurezza.

2016 è scritto sui cartelli: incredibile che siano passati già due anni e che ancora sia così difficile credere che sia successo davvero, per la gente del posto e per noi che venivamo d’estate o d’inverno, solo in vacanza, e continuiamo a tornare anche adesso. La gente è felice di vederci: dicono che gli portiamo ricordi belli e la certezza del mondo che continua.

Neanche io mi abituo: ieri sera ad esempio mi è capitato di bussare alla porta di casa, al grande battente di ferro con la testa di leone: casa dei miei è grande e c’è tanto prato attorno, la campagna, gli alberi sono sempre lì e io ho messo, come ogni anno, la mia panchina sotto il boschetto e lì mi siedo a leggere o solo a sentire il vento, ma ieri sera mi sono confusa e ho bussato alla porta sul retro. Ci voleva sempre del tempo perché qualcuno ti venisse ad aprire perché ci sono tante stanze e tutte un poco storte, non era una casa dove da un punto si va ad un altro per la strada più breve, c’erano sempre tante possibilità; gli interni li ha disegnati mio padre e per lui le case sono così, forse perché a lui piace stare da solo e non vuole essere trovato facilmente. D’inverno sapevi qual era la sua stanza perché ci trovavi una chaise longue e un cappello di lana poggiato sopra, d’estate, con tanti nipoti, si chiudeva in cantina a leggere il giornale, deve aver pensato che per tutti la vita è così, che nessuno vuole essere trovato, e ieri sera seduta sulla panchina nascosta tra i pini ho pensato che stavo facendo come lui, e un poco mi sono preoccupata perché a me piace star sola ma piace anche molto stare tra la gente e per questo alla fine son corsa verso casa, ho bussato e sono rimasta lì ad aspettare con l’orecchio alla porta, come abbiamo sempre fatto, per cogliere i passi all’ interno di chi veniva ad aprire.

Con l’orecchio alla porta ho sentito i passi e tante altre cose: la televisione minuscola ma il rumore che rimbombava ovunque, i cugini, le schiacciate a ping pong, il rullo delle maniglie del biliardino, i pranzi, mia madre che fuma in cucina e la marmellata che rimesta sul fuoco, le voci delle donne venute a preparare il pranzo di ferragosto, non finivano più i suoni, le voci, sono rimasta con l’orecchio incollato, finché mi sono vista e mi veniva da ridere, laggiù oltre i campi c’è la casa dei vicini, anche la loro è inagibile (qui si dice che è una “e”) c’è una grande tensostruttura verde per riparare i trattori e i covoni per il bestiame, come ne hanno date agli agricoltori di qui, qualche ricovero per dormire, ma anche se mi hanno visto non si saranno sorpresi: anche loro mettono l’orecchio alla porta ogni tanto per vedere se la vita va avanti senza di loro, o magari indietro, se magari la vita si riavvolge e va dove vuole.

Nelle case deserte, in attesa di ricostruzione, c’è grande libertà.
Ora il tempo ci ha abituato e così entriamo e usciamo senza caschetto in testa.

[Norcia.1 – Continua]

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