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Di anime, fate, dei e semidei

di Tea Ranno

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Mi piace viaggiare lento, in treno o in macchina perlopiù, ma anche in pullman… soprattutto in pullman. Mi piace guardare la vita che scorre nelle case degli altri, immaginare, dai panni stesi, quali sono le abitudini familiari – una volta m’incantò la lunga sfilza di tonache nere che una mano di vento muoveva come fossero vive -, sentire gli odori che entrano dal finestrino, approfittare di una sosta a un semaforo per scrivere qualche riga che non sia precisamente uno scarabocchio, e poi, imboccata l’autostrada, vedere il paesaggio che cambia pur restando, per molti chilometri, apparentemente uguale.

Sono lunghi i miei viaggi verso la Sicilia, non durano mai meno di dieci ore, tempo in cui abito una dimensione simile a quella dei sogni per cui guardo e la mente favoleggia, osservo e le parole improvvisano balletti che la mano ferma sulla pagina con la delicatezza che si usa per le farfalle vive.

In genere il viaggio è quieto, senza scossoni, senza l’urto di emozioni violente: un placido andare, un dondolio che concilia il divagare per visioni. In genere, appunto…

Sono le quattro del mattino, Villa San Giovanni, attesa per l’imbarco. Prima ha piovuto, ora no. La Sicilia è là davanti, quieta, sparsa di luci. Il Duemari è immobile, una pelle di catrame che non lascia indovinare liquidità sotto di sé.

All’improvviso l’aria s’invetra.

Il primo lampo balena alla mia destra. Un doppio lampo risponde a sinistra. Sponda fronteggia sponda, nero catrame in mezzo. Lampo azzurro a destra. Lampo rossastro a sinistra. Il cielo rabbrividisce per un triplo lampeggio al centro. Scilla sfida Cariddi a colpi di dardo? Cariddi risponde a lampi e luci che Scilla ingoia per restituire più violenti? È guerra, dunque?

Nessun tuono, però, nessun urlo di battaglia, solo questo lampiare muto che non abbisogna di colonna sonore per farsi più sbalordente.

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Altro lampo, lungo stavolta, bianco d’un bianco che abbaglia le coste e le sbalza nell’argento, argento liquido il mare che non è più cesura, separazione tra Continente e Isola, ma fluido che congiunge e affratella ora che i lampi si susseguono da destra e da sinistra in un botta e risposta che si fa più incalzante: Che fu? Che capitò? Chi ti turbò? Chi ti arraggiò?, pare chiedere Cariddi.

Scilla risponde con frenesia di baleni, velocissimi brevi e lunghi tipici del Morse.

Non lo conosco il Morse, non lo capisco che si stanno dicendo: discorrono per lampi, e per lampi si ossequiano, l’una cercando nell’altra conforto, come femmine amiche, come sorelle unite da un solo cordone intanto che il catrame, all’improvviso, è tutto un fremere e squietarsi d’ombre, di anime che – abbandonato il letto d’alghe su cui riposano – lentamente affiorano.

Affiorano. E non è fantasia, non scherzo degli occhi corrotti dai lampi, no: anime a pelo d’acqua sono, anime che sull’acqua camminano come in un giorno di festa, con fiori e ghirlande e strascichi di spose e veli di donne che vennero per questi lidi a cercare figli, mariti, amanti che il mare s’era rubato, e che figli, mariti, amanti qui ritrovarono, per cui adesso, a coppie e a quartetti festanti, sfilano al seguito di Fata Morgana, che lenta, seguita da mille e mille fuochi fatui, avanza in direzione d’Africa, là dove altri cortei sono pronti a unirsi, e non certo di coppie o quartetti festanti. Proprio no.

[2]

Lì Morgana troverà nero. E nero nel nero. E nero di bocche che ancora gridano, nero di mani che afferrano scogli e relitti fino allo sfinimento, fino a quando l’unghia non saprà più uncinare lo scoglio o il relitto, e la vita sarà perduta. E forse si farà madre, forse si farà moglie o amante o sorella. Forse, appunto, perché di quello che accade tra anime, fate, dei e semidei non mi è ancora dato di sapere.

Ora, però, qui è tutto un luminare, tutto un barbagliare: lampi e fuochi fatui, lampi e fiammelle che fanno di questo Duemari una Via Lattea e di questo cielo uno sciame di stelle.

[3]

Poi tutto si quieta.
Sparita Morgana, sparite le anime, Scilla e Cariddi si salutano con una paio di baleni.

L’aria si svetra, il catrame aggrinza qua e là la sua pelle. Il pullman guadagna la pancia del traghetto e poi una delle sponde superiori da dove posso ancora guardare mare e cielo.
La barca fila per l’inchiostro senza lasciarsi dietro alcuna scia. Sicilia s’avvicina, nera di scialle, sparsa al collo di gemme.
Quando arriviamo a Messina, diluvia.

 

Una nota sui libri pubblicati da Tea Ranno è contenuta nel suo precedente articolo sul sito: leggi qui [4] -(NdR)