Attualità

Se questa è l’America

di Francesco De Luca

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In estate è consuetudine di molti ponzesi residenti negli Stati Uniti ritornare a Ponza. Per san Silverio, per fare i bagni, per rivedere parenti e amici. È un piacere intrattenersi con loro per scambiarsi cordialità. Ma a me quest’anno è venuta la compulsione di chiedere loro per chi hanno votato (Trump o Hillary Clinton?), e se sono favorevoli all’attuale politica trumpiana. L’ho chiesto ad uno e la risposta mi ha spronato a ripeterlo ad altri, e così di seguito, tanto che a me stesso è diventata una domanda ossessiva.
Sapete perché?
Perché tutti mi hanno risposto che hanno votato Trump, e a tutti piace. L’ho chiesto a residenti a New York e a Detroit, nel Connecticut e in Florida, benestanti e operai, maschi e femmine. Tutti per Trump.

È chiaro che se quella scelta fosse andata nella stessa direzione dei miei giudizi l’avrei considerata ‘normale’, ma poiché il mio giudizio è di direzione opposta mi sono chiesto come mai i figli di immigrati, senza arte né parte, desiderosi soltanto di trovare lavoro che desse loro la possibilità di vivere con dignità, siano così attratti da un personaggio la cui visione politica, conseguente alla sua storia personale, sia: privilegiare e migliorare la condizione economica.

La risposta l’ho già data nell’ultima frase: i Ponzesi americani hanno cercato e cercano il successo economico, ammirano chi lo ha ottenuto (Trump), disprezzano chi non è loro pari, temono chi mette in discussione il loro status sociale. Da gente che chiede sono diventati gente che non dà. Hanno dimenticato le origini, anzi le hanno rimosse, e storcono il naso verso chi glielo ricorda.

Tutto ciò è perfettamente in linea con una concezione della vita improntata sul successo economico ossia sul proprio benessere. Indifferente a chi sta gradini dietro, ostile a chi chiede se il benessere debba essere ad esclusivo beneficio di alcune società, a discapito di altre.

Il benessere infatti diventa potere se esclude l’estensione partecipata agli altri. America First significa in questa ottica: l’America deve essere il primo stato del mondo (in economia, negli armamenti, nel potere politico). Non giudicabile dagli altri, e temuto. Rispettato per la sua supremazia tecnologica, militare e ricattatoria. Non uno stato fra gli altri bensì il primo stato fra gli altri.

Se questo credo valesse soltanto per i cittadini di quello stato, nulla da dire, e invece è prassi imposta a tutti perché il consesso sociale, oggi, è planetario e nessuno può rinchiudersi nei suoi confini. E su tutti vale il più forte.

Insomma negli States vige una concezione politica che alimenta la coesione interna per evidenziarne all’esterno la forza. In un balletto fra politica interna e politica estera ambiguo. All’apparenza democratico e in sostanza dominato dalle lobby; trasparente di facciata e intriso di doppio gioco e di bugie mediatiche.. Una concezione politica che ogni giorno mostra i suoi aspetti ridicoli e che di fatto promuove guerre: razziali (contro i latinos), daziarie (contro Cina ed Europa), militari (contro l’Iran).

Forse sono offuscato da antiamericanismo preconcetto? Nulla di più errato. La mia formazione si è nutrita di John Dewey (pedagogista), di Jerome Bruner (pedagogista e psicologo), di Abraham Maslow, di Erik Erikson. Ho amato e amo la discografia americana e coi film hollywoodiani sono cresciuto. Penso però che nell’America di Trump stia prosperando un germe che Obama aveva stordito ma non ucciso.

Obama! Tirarlo in ballo parlando di Trump porta nella trappola del pregiudizio. Non lo farò.

Se è regola storica che ogni popolo meriti il governo che l’amministra non posso che auspicare: Dio salvi l’America dagli Americani. E perciò anche dai miei compaesani che ieri condividevano con gli altri popoli (italiano compreso) la dialettica fra successo e insuccesso, fra aspettativa-impegno-realizzazione, e oggi mostrano i pugni, fanno i gradassi e si compiacciono di sentirsi i migliori.

Che Dio salvi l’America!

1 Comment

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  1. Silverio Tomeo

    29 Luglio 2018 at 16:16

    Senza voler fare comparazioni improprie: quando ero a Milano vidi la gente, da un giorno all’altro, virare per la Lega, allora soprattutto antimeridionale. Ebbene, tassinari calabresi di vecchio impianto erano con fervore verso Bossi. Presto la Lega si manifestò contro gli immigrati extracomunitari: un simpatico egiziano divenne subito leghista. La consigliera personale di Bossi era una bruna di origini salentine. L’immigrazione riuscita, il volersi fare accettare, era la molla che li spingeva a riconoscersi nel populismo leghista. Ed era ancora Milano, città europea, figurarsi nelle valli e nella Vandea dei paesi lombardi, veneti, piemontesi. Ora Trump sta gestendo il declino americano in chiave nazional-sovranista. I neopopulisti italiani ed europei oggi si nutrono della crisi europea. Voglio pensare che almeno a New York gli italo-ponzesi-americani resistano alle sirene del nazionalismo egoista e gretto.

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